La globalizzazione, compimento o ostacolo all’universalismo cristiano?   –  di Piero Vassallo

Nel villaggio globale la nazione è concepita quale comunità di comunità, ossia quale meccanica ammucchiata di gruppi culturali eterogenei, livellati dall’irrealismo della legge ma non integrati e perciò reciprocamente estranei (e potenzialmente ostili e conflittuali). Prive di una cultura unificante, le nazioni associate al villaggio globale si avvicinano alla figura di un serraglio senza sbarre, in cui circolano pericolosamente animali feroci, dei quali si conosce la diversità e la reciproca avversione.

di Piero Vassallo

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zzrgnLa politica per la globalizzazione promossa dall’Onu e dai poteri forti obbedisce a quella “legge di umana solidarietà e carità, che viene dettata e imposta sia dalla comunanza di origine e dalla eguaglianza della natura razionale in tutti gli uomini, a qualsiasi popolo appartengano, sia dal sacrificio di redenzione offerto da Gesù Cristo sull’ara della Croce[1], o applica principi diversi se non contrari?

La dottrina cattolica “ci fa contemplare il genere umano nell’unità di una comune origine in Dio”, e perciò approva i progetti seriamente intesi a promuovere lo sviluppo di tutti i popoli della terra, a incrementare gli onesti scambi commerciali e a stabilire la libertà di cercare un’occupazione dignitosa, nei paesi che manifestano un’effettiva necessità di mano d’opera.

Ove si prefiggessero un tale disegno, i promotori della globalizzazione sarebbero in armonia con il principio cristiano, che afferma l’universale destinazione dei beni creati, l’interdipendenza delle economie e il conseguente dovere di promuovere la solidarietà internazionale.

Tuttavia Massimo Cacciari, autore di Arcipelago, dall’ideologia globalista trae la giustificazione della deriva anti-identitaria / cosmopolita, che si attua nel villaggio globale, una Babele compatibile con i princìpi della religione cattolica progredita.

Nelle pieghe del pensiero cacciariano, infatti, agisce l’intenzione (di stampo francofortese) di eliminare il cardine del pensiero occidentale, il principio d’identità e non contraddizione e di indebolire la dottrina che contempla la persona umana unica e irrepetibile.

L’unità del genere umano è attuabile unicamente attraverso il filtro del senso comune, che riconosce la gerarchia delle forme civili e sconsiglia  l’avventuroso tentativo di assimilare soggetti, che professano credenze inclini alla trasgressione oppure all’instaurazione violenta di una tirannia pseudomistica.

L’inflessibile rifiuto della cattolica integrazione educatrice, d’altra parte, va incontro, forse involontariamente/inavvertitamente, al principio cardinale del razzismo, “il concetto di doverosità della separazione delle varie razze umane, che vede la sua base teorica in primo luogo in un fondamento metafisico consistente nel riconoscimento dell’irriducibilità ad un modello comune dei diversi Sistemi di Valori, che esse hanno espresso e da cui sono state a loro volta conformate[2].

Ad uno sguardo realistico è evidente che è doverosa la solidarietà fra i popoli, universalismo nutrito dall’apprezzamento delle oneste tradizioni, che hanno origine dalla verità: “la Chiesa non può pensare né pensa d’intaccare o disistimare le caratteristiche particolari, che ciascuno popolo con gelosa pietà e comprensibile fierezza custodisce e considera qual prezioso patrimonio[3].

La Chiesa inoltre insegna “che nell’esercizio della carità esiste un ordine stabilito da Dio, secondo il quale bisogna amare più intensamente e beneficare di preferenza coloro che sono a noi uniti con vincoli speciali”.

Purtroppo i banditori della globalizzazione negano tali princìpi, e per promuovere il villaggio del futuro, postulano l’alterazione e l’appiattimento delle identità nazionali.

In tal modo la vocazione universalista deraglia in un integrazionismo finalizzato a impoverire l’identità delle nazioni ospitanti e ad attizzare la rivalità degli ospitati.

Nel villaggio globale, infatti, la nazione è concepita quale comunità di comunità, ossia quale meccanica ammucchiata di gruppi culturali eterogenei, livellati dall’irrealismo della legge ma non integrati e perciò reciprocamente estranei (e potenzialmente ostili e conflittuali).

Prive di una cultura unificante, le nazioni associate al villaggio globale si avvicinano alla figura di un serraglio senza sbarre, in cui circolano pericolosamente animali feroci, dei quali si conosce la diversità e la reciproca avversione.

Simile è la scena allestita nei paesi europei incautamente aperti a un’ideologia incapace di indicare i mezzi necessari a fronteggiare il potenziale invasore travestito da umile immigrante.

I politici e gli intellettuali europei, scoprirebbe le ragioni della cautela da usare nei confronti dell’ideologia globalizzante se rammentasse la storia della Persia, pacificamente invasa da immigrati che, diventati maggioranza, costrinsero i nativi a convertirsi a una religione non loro,.

L’esemplare storia dell’invasione islamica della Persia conferma la fragilità dell’argine costituito dal buonismo e dall’arrendevolezza.

Il razzismo, che i banditori del villaggio globale proclamano di voler cacciare dalla porta della realtà quotidiana, rientra dalla pia finestra che contempla la mezza luna.

L’esame realistico dell’ideologia globale svela un’intrinseca  debolezza  cioè un’apertura alla trasformazione dell’immigrazione in colonizzazione selvaggia.

Tale metamorfosi è facilitata dalla categorica esclusione di valori razionalmente identificabili e indeclinabili, e perciò atti ad integrare gli immigrati oppure a respingere la loro ingiusta pretesa missionaria / egemonica.

La paradossale conseguenza di tale autolesionistico disconoscimento è la dichiarazione razzista secondo cui “esistono solo gruppi indifferenti o nemici” [4].

Questo risultato appare evidente quando si rammenta che, nella prospettiva razzista, l’unica convivenza possibile tra etnie diverse comporta o lo sterminio o lo sviluppo separato vale a dire una “cordiale ghettizzazione” sperimentata dai cristiani residenti nei paesi islamici.

Non per niente i razzisti – atei o religiosi – disprezzano e odiano implacabilmente la tendenza cattolica ad assimilare/convertire l’errante. Il razzismo dei sedicenti anti-razzisti consiste a sua volta nel riconoscere, “rispettare” e costringere alla convivenza la reciproca irriducibilità dei popoli a differente religione e/o cultura.

Il mito di fondazione della società razzista è il poligenismo. Per gli intellettuali che ne rivendicano sia pure inconsapevolmente l’eredità, l’essenza dell’ideologia razzista si trova infatti nell’avversione radicale al monoteismo biblico, avversione che si rovescia inevitabilmente in un “antiuniversalismo radicale.

Al politeismo è soggiacente un  poligenismo babelico,  che esclude, per partito preso, lo sforzo d’integrazione dei popoli e condanna il qualunque pacifico impegno missionario.

Per combattere il razzismo, che può immigrare nascosto nelle pieghe di un fanatismo missionario, è dunque conveniente dissipare le suggestioni mondialiste, che, a mal grado delle dichiarazioni d’intenti, sono compatibili con la provocatoria idea degli sviluppi separati (nei ghetti, che pullulano nella Grande Mela democratica e nelle capitali dell’Europa sociale) o, peggio, con i minacciosi progetti di colonizzazione islamica.

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[1]   Pio XII, Enciclica “Summi Pontificatus”, (20 ottobre 1939)

[2]   Cfr. Gianantonio Valli, La razza nel nazionalsocialismo, nella rivista L’uomo libero, n. 50, Milano, novembre 2000.

[3]    “Summi Pontificatus”, cit.

[4]    Gianantonio Valli, articolo citato.

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fonte: blog dell’Autore 

2 commenti su “La globalizzazione, compimento o ostacolo all’universalismo cristiano?   –  di Piero Vassallo”

  1. “Al politeismo è soggiacente un poligenismo babelico…”.
    Questa definizione è una conclusione PERFETTA del suo, come sempre caro Vassallo, ottimo
    articolo.
    Fa sempre analisi accurate, inconfutabili: “… poligenismo babelico…”.
    E anche paurose, ma NECESSARIE !!!!!!
    Il Signore la benedica e la protegga.

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