LA METAFISICA TRA IL NULLA DI LEOPARDI E IL TROPPO DI PARMENIDE – di Piero Vassallo

di Piero Vassallo


 

San Tommaso d’Aquino ha costruito l’edificio della metafisica sopra un principio incrollabile, che non può essere violato senza recare offesa alla ragione: “Di necessità la potenza e l’atto dividono l’ente, onde chiunque esiste o è atto puro o consiste per l’unione di tali princìpi” (“Potentia et actus ita dividunt ens, ut quidquid est sit actus purus vel ex potentia et actu, tamquam primis atque intrinsecis principiis necessario coalescant”).

Con l’unica eccezione dell’ente necessario, il cui atto non ha origine da nessun altro, tutti gli enti sono composti di potenza e atto.

L’attenta considerazione di una genealogia di viventi – piante o animali – conferma in modo quasi violento la verità dell’assioma su cui è fondata la metafisica: prima di affacciarsi alla vita, l’ente che riceve da un altro ente l’esistenza è, infatti, pura potenza, cioè non essente.

L’agricoltore può augurare e pronosticare una magnifica sorte al grano che sta seminando, ma il desiderato raccolto, mentre l’agricoltore immagina e spera, rimane del tutto escluso dall’esistenza propriamente detta.

Il raccolto non è nei semi (che possono inaridire) e non è nella terra, in sé indifferente alla riuscita della semina. Mentre l’agricoltore semina, il futuro raccolto è, per così dire, un castello in aria.

In altre parole: il raccolto, che forse il seminatore otterrà, dipende da cause già in atto – i semi, il terreno, la neve, il sole ecc. – ma non esiste da alcuna parte, prima che la congiura delle cause operi nel modo conveniente.

Una gelata, una malattia, un parassita possono distruggere i semi e così dimostrare l’originaria  inesistenza dell’atteso raccolto. Di fronte a questa sfortunata eventualità si deve dire che il raccolto non c’è stato perché era già inesistente.

Ora l’esistenza è partecipata mediante un atto con cui all’ente nascituro sono date la forma e la materia. La partecipazione, che con più familiari parole potremmo chiamare trasmissione della vita, avviene con un atto unico, separabile solamente per pura astrazione.

Il seme o la talea di una pianta, per restare al tema proposto, sono materia e forma della pianta nuova, che si affaccia all’esistenza perché le è comunicato l’atto d’essere da una vita vegetativa già esistente.

Prima di ricevere l’essere dall’altro, la vita della pianta di cui si parla è del tutto priva di essere, non è materia né forma.

Quantunque il passato degli enti avventizi sia l’inesistenza, non è consentito affermare che essi sono tratti dal nulla.

Il nulla, infatti, è un concetto-limite, non una realtà su cui si possa in qualche modo agire. Michele Federico Sciacca opportunamente afferma che “L’essere è presenza: è, si pone da sé: niente vi è prima e dopo dell’essere, Prima e dopo possiamo immaginare il Nulla, cioè l’assenza dell’essere, ma tale immaginazione è possibile in quanto è l’essere. Il Nulla non annulla l’essere perché è immaginabile per l’essere. Il non-essere non è che l’immagine del contingente, cioè di ciò che è, ma non è l’essere pieno, di ciò che in qualche modo è ma avrebbe potuto non essere. Questa immagine è possibile in quanto è l’essere ed è l’essere contingente, cioè è possibile per la presenza dell’essere, che, non essendo nel contingente presenza reale, è presenza che include un’assenza. Questa assenza che è per la presenza la chiamiamo non essere, solo erroneamente può chiamarsi nulla. Tutto ciò che esiste è dialettico: è presenza ed è assenza di essere, ma l’assenza è condizionata dalla presenza[1].

Le nuove esistenze, pertanto, possono sorgere solamente da esistenze già in atto. Nell’universo fenomenico è dato assistere a generazioni, non a creazioni. Ora le filosofie dell’immanenza hanno origine affrettata dall’idea di un universo eterno e chiuso in se stesso, idea che è suggerita dall’esperienza che in natura nulla si crea.

Se non che i teorici dell’immanenza non considerano che le generazioni sono sempre procreazioni. La sostanza di qualsiasi ente avventizio è, in ogni caso, totalmente nuova e diversa dalla sostanza dell’ente che gli ha comunicato la materia e la forma.

In altre parole: la generazione non è travaso dell’esistenza ma partecipazione all’essere, appunto procreazione di un individuo totalmente nuovo, unico e irrepetibile.

A ben vedere l’oblio del concetto di partecipazione costituisce il limite delle filosofie dell’immanenza. La metafisica di Aristotele, la più evoluta e geniale fra le costruzioni del pregiudizio immanentista, conduce il dualismo potenza-atto alla contraddittoria visione di un atto puro che chiude il circolo della contingenza mentre conferma l’eternità increata del tutto.

Aristotele, immanentista malgrado l’opinione di quanti sostengono l’integrale dipendenza di San Tommaso dalla sua metafisica, concepisce la conclusione del movimento potenza – atto ma non attinge la risolutiva verità sulla creazione.

Si può perfino azzardare che l’atto puro di Aristotele costituisce un apparente e fragile soluzione dell’aporia costituita dalla immobile totalità di Parmenide: la sfera rotonda e perfetta nel sistema di Aristotele si muove ma il suo movimento, anziché il coerente passaggio dalla potenza all’atto, contempla il divenire dell’increato.

La verità, che supera le difficoltà del pensiero greco, è attinta (lo ha dimostrato Cornelio Fabro) solo perché San Tommaso interrompe e rivoluziona la tradizione occidentale, che considerava il pensiero dell’essere mediante l’appartenenza necessaria ovvero analitica e stabilisce che la verità dell’essere accessibile all’uomo è e non può non essere ori­ginariamente che di natura sintetica, perché essa si dà e si mani­festa nella ecstasi o libera uscita della creazione divina il cui se­greto rimane nascosto in Dio”.

Fabro giunge in tal modo ad una magistrale conclusione, che svela l’origine della debolezza che affligge la filosofia prima di San Tommaso: “Sembra pertanto che se il pensiero formale puro deve respin­gere la causalità nella misura in cui afferma l’unità dell’essere e deve ignorare l’essere nella misura in cui afferma la causalità, ciò dipende dal carattere astrattivo formale che ha avuto il pensiero nella tradizione occidentale tanto nell’antichità come nell’epoca mo­derna, fino all’ultimo Heidegger compreso” .

Per far passare il filo del dualismo aristotelico attraverso la cruna platonica della partecipazione, San Tommaso ha dovuto superare il mito dell’universo quale sfera eterna e perfetta, cioè stabilire l’universale contingenza degli enti mondani.

Ora, in base ai princìpi della metafisica possiamo immaginare (non dimostrare) una genealogia di enti creati che procedono dall’eternità. La creazione nel tempo, infatti, è verità razionalmente indimostrabile, come ha riconosciuto San Tommaso nella “Summa contra gentiles”.

Non possiamo, invece, pensare seriamente una genealogia di enti costituiti da potenza e atto, vale a dire una serie procedente all’infinito senza mai trovare il proprio fondamento nella causa incausata – il Creatore che la buona filosofia definisce atto puro.

In astratto si può pensare che un atto puro abbia creato l’universo dall’eternità. Ė un pensiero acrobatico ed estenuante, che offusca la mente perché la ragione non può confutarlo.

Non è invece possibile sostenere che l’universo contingente esiste senza una causa incausata.

Nell’evidente composizione di atto e potenza, tutti gli enti portano, infatti, il segno indelebile della finitezza. Una serie infinita di enti finiti – procreatori ma contingenti – è una contraddizione in termini. L’evidenza del procreatore rinvia necessariamente alla verità del Creatore.

L’immaginazione di un ateo coerente, che risalisse al più remoto ente della serie degli infiniti enti finiti, incontrerebbe l’intollerante ragione, che la obbligherebbe a riconoscere che quell’ente è composto di potenza e atto e perciò deve necessariamente dipendere da altro da sé.

E se la tracotante fantasia continuasse l’ostinata risalita, senza sbarazzarsi dell’intollerante ragione, dovrebbe rassegnarsi ad ammettere che una serie infinita di enti finiti è logicamente destinata a sprofondare nella perfetta, assoluta inesistenza.

Ogni anello della catena incompiuta sarebbe trascinato nel vuoto dalla devastante permanenza dell’inesistenza – la pura potenza – fra le righe del procedere infinito.

L’immaginazione poetica e musicale, il geniale potere, che anima le creazioni del panteismo filosofico antico e moderno, possono tacitare il principio d’identità e fermare la corsa di Achille davanti all’infinito, che la separa dalla tartaruga.

Ma alla fine la ragione trova la via d’uscita dal de-lirio metafisico organizzato artisticamente. La ragione prevale sull’arte rivelando che  una serie infinita di cause finite è un gioco parole e un prodotto dell’incontrollata fantasia.

Se il Galilei della leggenda laica fosse trascinato davanti alla pista incantata dall’eleate Zenone, griderebbe l’impossibilità dell’immobilità di Achille: “Eppur si muove!

L’esclusione del dualismo potenza-atto è condannata a strisciare su uno degli opposti e convergenti sentieri del fantasticare.

Il primo sentiero conduce all’errore filosofico insegnato nel remoto tempio della Gran Madre. Conduce al pio e geniale abbaglio di Parmenide, secondo cui la totalità degli enti è fusa nel bronzo dell’atto puro, sfera rotonda e perfetta, totalità immobile e beata, non diveniente, non soggetta al male, estranea al movimento, immune dal decadimento, preservata dal dolore e dalla corruzione.

In una pagina magistrale padre Tomas Tyn ha svelato la fonte dell’errore che ha prodotto l’ontologia parmenidea: “Parmenide negherà il mutare delle cose in  quanto il non essere non è e quindi non può esserci nemmeno il movimento che suppone il non essere. Nel pensiero parmenideo appare un’intuizione profonda in sé, seppure del tutto errata nella sue conseguenze sistematiche. Infatti, il non essere viene concepito non solo come il non esserci di questa o quest’altra cosa, ma come il nulla assoluto, che rivela l’essere non come la presenza di questo o quello, bensì come essere semplicemente o attualità pura [2].

Il secondo sentiero conduce al divenire perpetuo, alla dissoluzione dell’essere nella metamorfosi eterna. Conduce alla fantasmagoria di Democrito, che rappresenta una cieca e insensata caduta di atomi. Per questa via si giunge allo spettacolo nietzschiano del mondo che rotola senza ragione su una pista dove la pura potenza corre come un cane sciolto all’inseguimento del nulla e del vuoto mentale, che solo può concepire il nulla finale.

Il nome di questo teatro dell’agitazione è nichilismo, che Emanuele Severino definisce propriamente sentiero della notte tracciato dalla perfetta esclusione dell’atto puro.

sevUscita dalle pagine lamentose di Giacomo Leopardi, la baluginante figura del nichilismo si è presentata dinanzi a Severino, come il fatale risultato di tutto il pensiero occidentale. Irriducibile discepolo e modernizzatore di Parmenide, Severino dichiara il perfetto dissenso dal poeta del nulla “da cui tutto proviene e in cui tutto ritorna” (“Il nulla e la poesia”, pag. 21).

Di qui la sentenza categorica ma gratuita, che inchioda all’esito leopardiano l’intera produzione del pensiero occidentale: “Se la civiltà occidentale vuole essere coerente alla propria essenza deve riconoscere che la propria filosofia è la filosofia di Leopardi. L’autentica filosofia dell’occidente, nella sua essenza e nel suo più rigoroso e potente sviluppo è la filosofia di Leopardi”.

Leopardi, infatti, sostiene che “solamente quello che non esiste, la negazione dell’essere, il niente, possa essere senza limiti, e che l’infinito venga in sostanza ad essere lo stesso che il nulla” (op. cit., pag. 52).

Quando per pensiero occidentale s’intendesse il prodotto dell’apostasia moderna, il giudizio di Severino sarebbe ineccepibile. Lo ha ultimamente riconosciuto il guru Eugenio Scalfari, dichiarando che l’enorme enciclopedia illuministica è naufragata nei desolati pensieri di un malinconico terzetto, costituito da Leopardi, Schopenhauer e Nietzsche.

Stabilire un collegamento tra l’apostasia moderna e il nichilismo del trio citato da Scalfari non è difficile. Vietati sono, invece, l’aggiramento del senso comune e  la temeraria attribuzione del movimento all’essere parmenideo.

Per ottenere un tale risultato (nel saggio intitolato al destino della necessità) Severino, infatti, è stato costretto ad associare l’apparenza delle cose all’eternità fuggevoli.

In un saggio più recente Severino sostiene che “Se la follia è pensare che le cose escano dal niente e vi ritornino – e vivere e agire in conformità a questa persuasione – allora la non follia, la salute che già da sempre si apre oltre i confini della follia, è lo sguardo del destino che vede l’eternità di ogni cosa e quindi vede l’alienazione di ogni agire e di ogni volontà di potenza, che progettano il dominio, la trasformazione, la creazione, la distruzione dell’eterno [3].

Severino, dimentica che, secondo la filosofia dell’atto d’essere, le cose non nascono dal niente e perciò avanza con disinvoltura sulla via della beatitudine, illudendosi di aver ripristinato la verità di Parmenide intorno alla perfezione dell’essere-uno. Afferma infatti: “Noi siamo la gioia. Questa parola non indica un sentimento psicologico: indica il gioire del Tutto per il suo essere il Tutto: appagamento di ogni bisogno, liberazione da ogni dolore, il colmarsi di ogni lacuna. … Il Tutto gioisce perché la sua compiutezza non è caduca ma eterna. Questa eternità è il fondamento della Gioia. Ma tutto è eterno. Tutto nel senso più intenso e più ricco: ognuna delle cose e ogni loro forma, aspetto, stato, gesto ombra, cenno, trasalimento, relazione. Ognuna delle cose e il loro star tutte insieme raccolte nel Tutto ” (Op. cit. pag. 87)

Per “salvare” il pregiudizio immanentistico, Severino deve perdere di vista la novità degli enti ai quali l’esistenza è comunicata da altro, cioè concepire la procreazione come il giro delle comparse nel teatro lirico. Di qui le contorsioni verbali che sfidano il senso comune prima di entrare nella grotta ridente.

Il proposito di Severino (che ha portato a conclusioni panteistiche le lezioni sull’attualismo tenute dal suo maestro, Gustavo Bontadini) è superare i dualismi di Parmenide  (atto puro e movimento, doxa e alétheia) dimostrando la verità dell’essere parmenideo e la verità dell’apparire.

In vista di questo risultato Severino sostiene imperterrito che il connubio di apparire e di eternità è l’unica possibile sede della verità dell’essere e, in ultima analisi, che “Il Tutto è eterno e l’inoltrarsi nell’apparire non è l’entrare e l’apparire dell’essere. E’ l’apparire stesso che è eterno…. Eterno è questo foglio su cui un mortale scrive e il chiarore diffuso da questa lampada e questi suoni della strada non solo sono eterni, ma appaiono eternamente; stanno qui dinanzi  eternamente,  stanno  in  questa  estrema  vicinanza dell’apparire[4].

Si dice che Socrate alzandosi e camminando sia riuscito a confutare i teorici dell’universale immobilità. Cornelio Fabro, un filosofo tacitato dalla chiacchiera diluviante, ma non a corto di argomenti, ha invece dimostrato l’illusorietà della teoria di Severino, obbiettandogli che non spiega perché e come le cose cominciano ad apparire e a divenire: “Se le cose incominciano ad apparire significa che prima erano nascoste (a parte la domanda del dove fossero nascoste) ci si può chiedere anche: chi le ha spinte fuori dall’ombra? E sopra tutto quando incomincia questo cominciare? Siamo in pieno abracadabra[5].

Il fatto è che il tentativo di trascinare la perfetta eternità nell’imperfetto cerchio del divenire offende l’evidenza, separa la metafisica dalla logica e, in ultima analisi, condanna il linguaggio alla più fitta oscurità, all’abracadabra, appunto: è possibile mettere a tacere le verità della metafisica ma non sopprimere il senso comune che domanda ragione dell’apparire e dello scomparire delle cose.


 


[1] Cfr. “Atto ed essere”, Bocca, Roma1956, pag. 14.

[2] Cfr. “Metafisica della sostanza Partecipazione e analogia entis”, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2001, pag. 32).

[3]La strada La follia e la salute”, Bur, Milano 2008, pag. 84 .

[4] Citato da Cornelio Fabro, “L’alienazione dell’Occidente”, Quadrivium, Genova 1985, pag. 131.

[5] Ibidem.

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