La Patria finisce. Ecco quel che resta

Il titolo di questi pensieri in libertà prende spunto da un’opera che Prezzolini scrisse nel 1948 per spiegare agli americani perché questa nostra terra di Poeti, Santi, Eroi, Navigatori & Affini era quel che era: L’Italia finisce, ecco quel che resta. Come aveva intuito a suo tempo Totò, restavano solo gli Affini, che d’altra parte nella storia italica hanno sempre avuto magna parte: nel senso della vastità del fenomeno e nel senso della voracità degli appetiti.

Caduto il fascismo, secondo la limpida lezione di Prezzolini, il Belpaese si mostrava finalmente per quel covo si cialtroni che era sempre stato, fin dalle prima luci del risorgimento e da molto prima ancora. Ma la catastrofe di una guerra mondiale persa pur tentando di passare per vincitori dava alla questione almeno un’allure da grande scenario su cui versare una lacrima prima di prendere impietosamente in considerazione quel che rimaneva.

Oggi che finisce anche l’idea di Patria, non si riesce neppure a provare un fugace fremito di grandezza nel narrarne l’epilogo. Altri tramonti, altri tempi, altre patrie, che risulta difficile scrivere con “P” maiuscola. E non solo in Italia, ma in tutto questo occidente fetido e maleolente che ha volentieri assunto come missione quella di ingannare e fagocitare i suoi figli, chiamati opportunamente cittadini: robaccia buona in qualsiasi angolo del mondo, gentaglia uguale ovunque, in ogni momento del giorno e della notte, senza ieri e senza domani, rimpinzata degli stessi desideri e svuotati degli stessi principi.

Ma nel tramonto dell’occidente, lucidamente profetizzato da Spengler, l’Italia ha qualcosa da insegnare alle altre genti. Prima di tutti e con retorica ineguagliabile, gli italioti hanno fatto degli Affini tanto cari al Principe della risata i nuovi Eroi, i nuovi Santi, i nuovi Poeti e i nuovi Navigatori. Nessun genio è abile come quello italico in simili operazioni e per questo i pedatori Azzurri, una rappresentativa di uno stato repubblicano che gioca con i colori della vecchia monarchia battuta in un referendum dal dubbio svolgimento, dovevano senza fallo vincere gli europei di calcio. Nessun genio è capace come quello italico di trasformare in epica la cronaca di un torneo di calcio che del calcio, quello vero, non sa più che farsene. E per questo gli Azzurri, una rappresentativa di uno stato repubblicano che gioca con i colori della vecchia monarchia battuta in un referendum dal dubbio svolgimento, dovranno vincere anche i mondiali del prossimo anno.

Non c’è nulla di più funzionale al globalismo senza volto e senza cuore del fregolismo italiota  capace di trasformare in Patria, con una finta “P” maiuscola, tutto quanto è gradito al potere. Nel tricolore si può avvolgere di tutto e ci si possono avvolgere tutti, persino il capo di coloro che un tempo gli davano fuoco e poi lo spegnevano pisciandoci sopra. 

Ma i conti della serva tipici della politica sono ancora niente. Certi eventi vanno valutati al netto dei discorsi di bottega dei capipartito che tentano di diversificarsi attingendo tutti alla stessa fonte, viva l’Italia e così sia. E neppure bisogna mettere conto di stupirsi davanti alla calata in campo delle cariche istituzionali. Tutto fa brodo per tenere su la baracca, compresa la celebrazione del tennista Matteo Berttettini, portato sugli scudi per aver perso la finale di Wimbledon: segno che l’italico istinto di celebrare le sconfitte non passa mai di moda e, anzi, piace molto a chi ama i servi e il servilismo. Da notare, inoltre, che pochissimi hanno eccepito sul particolare, forse non così insignificante, che il signor Berrettini Matteo,  celebrato in veste di sconfitto al Quirinale con tutti gli onori del caso, si guarda bene dal pagare le tasse in Italia e lo fa a Montecarlo, dove qualche eurino riesce a risparmiarlo. Ma che cosa conta? Quando è comparso in tribuna Wembley nel secondo tempo di Inghilterra-Italia, il presidente Mattarella gli è andato incontro come se avesse visto Scipione l’Africano di ritorno da Zama.

Eppure, questa è tutta robetta che dietro le quinte della baracca da burattini globalista conta poco o niente. Un evento come gli europei di calcio può rendere molto di più al mercato del pensiero unico. Intanto serve, come insegnano telecronisti e commentatori, ad “abbattere le barriere”. Sembrerebbe strano per un torneo sportivo nel quale scendono in campo rappresentative nazionali di cui vengono persino eseguiti gli inni e dove, alla fine, una nazione ha la meglio su un’altra, come in guerra. Sembrerebbe strano, ma non lo è. Perché le barriere nazionali vere, i confini tra ciò che una volta erano le Patrie, sono ormai poveri simulacri di qualcosa che non esiste più. 

Non è un caso se, da quando è in atto l’assalto finale al principio di identità dei popoli e al diritto di praticarlo, si è predicato che le manifestazioni sportive sono palestre di tolleranza, luoghi franchi in cui colore della pelle, razza, religione non hanno valore perché tutti sono uguali e sono la stessa cosa. Ma questa era solo la premessa maggiore di un perverso sillogismo, la cui minore asserisce che pure le diversità sessuali sono prive di qualsiasi significato e per nulla portatrici di differenze. Da cui si conclude, più o meno maldestramente, che lo sport deve ora essere veicolo della diffusione di omosessualismo e genderismo.  Ecco così i campionati europei di calcio colorati si arcobaleno dentro e fuori gli stadi, con tanto di arcobalenazione di edifici pubblici e relativa messa al bando dei cattivi ungheresi, rei di avere approvato una legge per nulla gradita alla mente Lgbt e non so cos’altro ancora che governa questo brutto mondo.

Da dentro l’evento, salvo le solite lodevoli eccezioni maturate nei paesi dell’Est, non è uscita una voce almeno timidamente dissidente che fosse una. Niente. Tutti i soldatini in campo si sono comportati allo stesso modo, come fossero di un solo esercito. Per quello che molti continuano a chiamare Occidente con una finta “O” maiuscola quando invece non è più nulla, tutto è compiuto. Il vigile occhio globale consente ancora di mantenere i confini nazionali da esibire nelle parate in cui si esibiscono i fucili a turacciolo, ma niente di più. Nella realtà vera, tutti devono essere uguali, ciascuno deve essere sponsorizzato dalle stesse agenzie di pensiero e ognuno deve essere testimonial degli stessi valori. 

Non si gioca “nell’Italia”, ma “per l’Italia”. E non chiesto di farlo perché si è italiani per destino o, per clemente concessione, perché si è nati in questa terra, basta soltanto un abile incastro di cambiamenti di cittadinanza e di variazione di tesseramenti. Non a caso, l’apprezzamento più sostanziale con cui è stato gratificato il ct Azzurro Roberto Mancini è stato il riconoscimento di aver fatto della nazionale italiana una squadra di club: in altre parole, un banda di mercenari disposti a cambiare divisa a suon di milioni di euro. D’altra parte, le Patrie, le nazioni, non esistono più e quindi non esistono più neppure le nazionali che avevamo amato e tifato fino a qualche annetto fa. E viene da piangere pensando a quei ragazzi che hanno festeggiato la vittoria agli europei perché credono ancora nel calcio e, anche inconsapevolmente, pensano che la Patria sia la terra dei loro padri.

Soprattutto a beneficio di questi innocenti, giunti qui, è necessario aprire il pessimo capitolo Donnarumma, simbolo perfetto della decadenza del calcio, dei suoi principi e dei suoi valori. Confesso che questo ragazzotto mi sta sui cosiddetti da quando l’ho visto la prima volta in campo, e non perché giocasse nel Milan mentre io sono interista fino nel midollo. Aveva solo 16 anni quando esordì in serie A e divenne subito un intoccabile, un Predestinato, con la “P” maiuscola, come ci hanno spiegato e ancora ci spiegheranno nei giorni a venire. Donnarumma è sempre qualcosa di diverso dagli altri calciatori, tanto che è vietato chiamarlo Ginaluigi, il suo nome di battesimo, ma bisogna chiamarlo “Gigio”, come ha fatto anche la prima carica della repubblica italiana. È vietato dire che prende gol sul suo palo, che esce a vuoto, che non sempre è nella posizione giusta e si fa spiazzare perché “Gigio”, a soli 22 anni, è il miglior-portiere-del-mondo. Non c’è commentatore che eccepisca. È persino vietato fischiarlo ai tifosi che non gradiscono il trattamento che “Gigio” ha riservato al Milan, la squadra che lo messo in campo ragazzino e gli ha dato fiducia fino a oggi, anzi fino ieri. Non fa niente se “Gigio” ha pensato bene di mollare quella che ha sempre detto essere la sua squadra del cuore e andarsene in Francia per qualche milione di euro in più. I tifosi rossoneri che non l’hanno presa bene e lo ritengono un traditore, genere per il quale preferisco usare la “t” minuscola, non possono pubblicamente dirlo, e forse neanche privatamente pensarlo. Qualche coraggioso fischio si è sentito durante una partita degli europei a Roma, ma la “Gazzetta dello Sport” si è subito affrettata ad argomentare così: la notizia cattiva è che “Gigio” è stato fischiato, la notizia buona è che i fischi erano pochi. Insomma, l’onore, se così si può chiamare, è salvo e non è un caso se “Gigio” è stato premiato come miglior giocatore degli europei in barba alle quote etniche.

Finisce la Patria, dunque, e in suo luogo resta una “patrigna” che non ha alcun amore per i suo figliastri: la soddisfa soltanto il fatto che siano spurii perché emerga con maggiore evidenza che, nonostante questo, sono tutti uguali. Una “patrigna” che ha messo su una perfetta macchina del consenso e un’ancora più perfetta macchina della repressione e della cancellazione di ogni opinione difforme. Durante gli europei sono andati in onda fiumi, laghi, mari e oceani di retorica tra i cui flutti non si è tollerata l’opinione di chi sostiene che gli Azzurri sono arrivati fino in fondo giocando con squadre mediocri e che di fenomeni non se ne sono visti. Soprattutto, vietato dire che l’Italia, alla fine, vince quando gioca all’italiana. Non esiste più il catenaccio all’italiana, perché ricorda ancora qualcosa della vecchia Patria: ora l’Italia, finalmente, gioca in modo europeo certificato bollino UE. La “patrigna” non ammette nulla che le ricordi il passato e soprattutto le differenze che un tempo vigevano tra popolo e popolo, tra nazione e nazione, tra campanile campanile. Al massimo si può parlare di “eccellenze” del territorio, come per il gorgonzola, la sopressa o i pistacchi, tutti riconosciuti e regolamentati dalla UE.

Per concludere, una breve nota sulla retorica da Covid 19 e da relativo vaccino. Da bergamasco, sorvolo sulle immagine dei festeggiamenti in scena Bergamo mandati in onda da Sky appena terminata la finale e sul commento del signor Fabio Caressa, il quale ricordava con le lacrime fin dentro il microfono il dramma di chi apriva i giornali trovandovi solo necrologi e vedeva passare sotto casa i camion strabordanti di bare. Il senso del limite, se uno non ce l’ha, non se lo può dare e la tentazione dell’iperbole è più insidiosa quando si tiene in mano un microfono invece che la penna.

Ma poi eccolì lì gli Eroi Azzurri, subito dopo il rientro in “patrigna” in fila come un papafrancesco qualsiasi per farsi dare la seconda dose di vaccino: perché gli Eroi, e magari anche un po’ Santi, devono dare esempio di senso civico di cittadinanza attiva. E perché, come ha spiegato il generale Figliuolo, “l’Italia vince quando fa squadra”. Questa, in realtà, l’avevamo già sentita ai tempi di Ferruccio Valcareggi. Ma non vorremmo che fossero quelli di Edmondo Fabbri.

Prezzolini ci aveva spiegato con oltre settant’anni di anticipo che questa non è più l’Italia, ma solo quel che resta. E oggi è chiaro con non è più neanche la Patria, ma solo il suo simulacro, una “patrigna”, appunto. Un contenitore in cui vengono versati dall’alto tutti i cascami di un occidente morto e putrefatto. Gli stessi che vanno a riempire le altre “patrigne”, cosicché ne esce una gran torta arcobaleno in cui vengono ritagliate tante fette tutte uguali e dello stesso gusto e vengono servite in luogo di quelle che un tempo erano le nazioni e, prima ancora, le Patrie. Ai goliardi che vogliono ancora divertirsi pensando di tifare per qualcosa di diverso viene concesso il tempo di uno sfottò, purché sia politicamente, socialmente, razzialmente, sessualmente e teologicamente corretto. Agli italioti, per esempio, in occasione della vittoria è stato concesso di prendere per il culo gli inglesi e, nel contempo, di lamentarsi per il tramonto dell’antico british style.

Ecco, se vi va di esultare per tutto questo con tanto di maglietta azzurra e avvolti nel tricolore, fatelo pure. Ma sappiate che vi stanno fottendo. Anzi, vi hanno già fottuti.

7 commenti su “La Patria finisce. Ecco quel che resta”

  1. @Alessandro Gnocchi.
    C’è qualcosa di male se Berrettini risiede a Montecarlo? Se ,beato lui, non butta nel cesso i suoi soldi finanziando aborti, finocchi, trans, “risorse” e covidioti.come facciamo noi Italiani?.certo lui non pensa a questo, ma lo invidio. Andrei a Montecarlo solo per evitare di dare anche un solo euro per lo stipendio della Cirinnà…

  2. Carissimo Alessandro e amici tutti.
    Una nostra amica in comune che purtroppo sta male, con una battuta ha posto una bella domanda. Ed è questa.
    Ogni volta che una squadra dell’est che sono state le uniche a non inginocchiarsi mai a prescindere, veniva elimina da quelle che s’inginocchiavano
    proprio per questo motivo esclamavaa…. ” Ma perché vincono sempre i cattivi?”…
    Durante gli europei avrei voluto rispondergli che, non sapevo perché vincevano sempre i cattivi,ma c’era da temere che di peggio, che vincessero i più coglioni!
    Purtroppo tale timore si è avverato e con questo articolo ne ho una lampante prova!
    Grazie mille direttore!

  3. Disamina inappuntabile Dott. Gnocchi!
    Non si è ancora spento l’eco festoso a reti unificate dei media di regine, per qualche giorno, quantomeno rivelatosi utile a deviare l’attenzione da museruole e vaccini, ed ecco apparire sull’argomento del giorno un articolo che, debbo ammettere, attendevo con trepidazione dalla rivista.
    La ringrazio per l’intervento e condivido, se pur con amarezza, ogni Sua affermazione al riguardo di questa “italianetta” che confonde gli Eroi (veri!) con i milionari in calzoncini corti e il conto in Svizzera.
    Nutro, altresì convinzione che, con tutta probabilità, questa enfasi euforica pallonara sarebbe giunta anche in Vaticano, qualora il “misericordioso” non fosse stato convalescente. Come a suo tempo fu per la ragazzina isterica Svedese dalle bionde trecce e sguardo torvo, l’udienza poteva essere un’occasione irrinunciabile per ribadire la vicinanza al “global-dominio”.

    claudio servalli

  4. Servilismo è anche fare più debito. Che non è mai servito alle industrie italiane visto che oggi licenziano perché non è più possibile fare un po’ di profitto in Italia. O anche un po’ di profitto per te è proibito? C’è scritto così sulla Bibbia? Che contributo dai tu per fare dell’Italia un paese vero? Non forte, per carità. Solo un paese vero. Che protegge i confini, gli abitanti, la religione.

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