LA RIFORMA DEGLI ORDINAMENTI PROFESSIONALI – di Stefano Nitoglia

di Stefano Nitoglia

 

 

Con il pretesto dell’emergenza, il governo Monti sta procedendo a riforme economiche strutturali di enorme importanza, che coniugano provvedimenti di stampo poliziesco sovietico, quali la totale abolizione del segreto bancario (dal 31 ottobre le banche saranno obbligate ad inviare alle agenzie delle entrate gli estratti conto dei nostri conti correnti con tutti i movimenti e il saldo di inizio e fine anno), l’aumento delle imposte, anche su beni primari e indispensabili, come la casa (abbiamo la pressione fiscale più alta del mondo, che raggiunge il 55%), con misure di “deregulation”, di impronta liberista, quali le cosiddette liberalizzazioni.

A dire il vero,  anche il precedente governo Berlusconi, soprattutto per opera dell’allora ministro dell’economia Giulio Tremonti, socialista giammai pentito, seppur riverniciato di una sottile patina di solidarismo cristiano, si stava incamminando su quella strada.

Il bello o, meglio, il tragico è che questa svolta, direi epocale, non trova praticamente reazioni.

Vorrei  esaminare, in questa sede, soltanto un particolare aspetto delle innovazioni del governo Monti: quello che coinvolge gli ordinamenti professionali.

L’articolo 10 della legge 12 novembre 2011 n. 183, che ha convertito in legge, con modifiche, il decreto legge 13 agosto 2011 n. 138, cosiddetto “Cresci-Italia”, dispone la riforma degli ordinamenti professionali in base a principi di liberalizzazione e introduce l’esercizio delle professioni in forma societaria. “Abbiamo cercato di coniugare due concetti-ha spiegato il ministro della giustizia Severino in conferenza stampa-la rimozione degli ostacoli alla libera concorrenza e il miglioramento della qualità delle prestazioni professionali” [1].

avvQueste misure si aggiungono alle altre, giugulatorie, da tempo emanate. Penso, relativamente alla professione forense, all’abrogazione delle tariffe minime, che si è tradotta in un regalo ai cosiddetti poteri forti, quali banche, grande industria ed assicurazioni, che sono, così, in grado di imporre alla categoria degli avvocati la loro forza contrattuale, con nessun vantaggio per la clientela ordinaria; alla cosiddetta media conciliazione obbligatoria, propedeutica alla normale azione giudiziaria, con la quale si è effettuata, in pratica, una (costosa) privatizzazione della giustizia; all’aumento esponenziale dei costi dei processi; alla indiscriminata cancellazione di presìdi territoriali di giurisdizione, quali Tribunali e Procure.

Si tratta, in realtà, di una serie di provvedimenti tendenti alla soppressione degli ordini professionali, in coerenza con l’orientamento liberista di questo governo.

La fase liberista che stiamo vivendo ha avuto inizio nei primi anni 90, nel momento in cui venne lanciata la parola talismano “liberalizzazioni”. Il 2 giugno del 1992, a bordo del panfilo Britannia, i più influenti esponenti del mondo della politica e della finanza italiane (fra i quali Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro, il presidente di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi, Beniamino Andreatta, Mario Baldassarri, i vertici di Iri, Eni, Ina, Comit e delle grandi partecipate), incontrarono Herman van der Wyck, presidente della Banca d’investimenti britannica S. G. Warburg & Co, Jeremy Seddon direttore generale della Barclays e altri rappresentanti della grande finanza internazionale. Nello stesso anno l’Iri, l’Eni, l’Enel e l’Ina vennero trasformate in società azionarie e le relative azioni assegnate al Ministero del Tesoro. Nel 1993 il gruppo Sme, controllato per il 64% dall’Iri, fu privatizzato così come Telecom, Ina, Imi ed Enel. Si stima che tra il 1992 e il 1999, l’Italia abbia realizzato cessioni di quote di aziende pubbliche pari a 185 miliardi di lire, circa il 12,3% del Pil [2].

Il liberismo è una disciplina economica nata nell’ambito del sistema filosofico detto liberalismo, a sua volta tributario della filosofia illuminista. Il principale teorico del liberismo è stato Adam Smith (1723-1790), autore del celebre “La ricchezza delle nazioni” (1776). Per Smith esiste un ordine economico naturale, benefico e pacifico. Lo Stato dovrebbe, quindi, limitarsi ad interventi essenziali, lasciando l’economia in balia delle sue leggi naturali. Ne deriva un individualismo ed amoralismo economico, nel quale la libera concorrenza assurge a principio fondamentale ed esclusivo dell’economia.

Ma torniamo agli ordini professionali. Essi sono persone giuridiche di diritto pubblico a struttura corporativa[3]; e le corporazioni sono state, da sempre, la bestia nera del liberalismo filosofico e del liberismo economico, entrambi, come detto, di matrice illuminista. L’individualismo illuminista è stato continuamente contrario ai corpi intermedi tra lo Stato e gli individui, come le corporazioni.

Non è un caso che il primo provvedimento contro le corporazioni sia stato preso da Robert Jacques Turgot (1727–1781), economista e filosofo francese appartenente alla scuola detta fisiocratica, ministro delle Finanze di Luigi XVI. La fisiocrazia, dottrina economica che si affermò in Francia verso la metà del XVIII secolo, si basava sulle opere del medico ed economista transalpino François Quesnay, amico e sodale degli illuministi d’Alambert, Diderot, Buffon e Condillac, e collaboratore all’Encyclopédie.

In Italia, le soppressioni delle corporazioni iniziarono nel 1770 nella Toscana del “sovrano illuminato” Pietro Leopoldo e proseguirono, tra il 1778 e il 1786, nel Lombardo Veneto, governato, all’epoca, dal sovrano asburgico Giuseppe II (in associazione con la madre Maria Teresa fino al 1780), tipico rappresentante del “dispotismo illuminato”.

Ma fu con la Rivoluzione francese (1789–1799), anch’essa ispirata ai princìpi della filosofia dei lumi, che la soppressione delle corporazioni ebbe compimento con la legge Chapelier del 17 giugno 1791.

Passata la buriana rivoluzionaria, le corporazioni si ricostituirono un po’ in tutta l’Europa nei primi anni del XIX secolo, conservando alcuni tratti tradizionali dei vecchi ordinamenti, pur senza gli antichi privilegi e sono vissute, almeno in Italia, fra alterne vicende, fino ad oggi.

Ora il rinascente liberismo, che va da quello soft, tinto di socialismo, una sorta di lib-lab, al momento prevalente in Italia, a quello più estremo, dell’anarco-capitalismo, molto diffuso negli Stati Uniti, vede le corporazioni di nuovo sotto attacco.

Soltanto un esatto inquadramento del fenomeno sulla base delle sopra descritte categorie politico-filosofiche, può contribuire a fornire gli strumenti per un’efficace azione di contrasto nei suoi confronti.


 


[1] “Il Sole 24 Ore”, 21 gennaio 2012, pag. 10.

[2] Gabriele Repaci, “Liberalizzazioni e privatizzazioni: le realtà oltre l’ideologia”, in “Geopolitica”, rivista on line dell’Istituto di alti studi in geopolitica e scienze ausiliarie, 5 febbraio 2012.

[3] Carlo Lega, voce “Ordinamenti professionali”, in “Novissimo Digesto Italiano”, vol. XII, pag. 10, Torino, 1965.

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