La grande lezione di Giuseppe Capograssi
di Piero Vassallo
Prigioniera di una vita da zombi, l’ostinata passione degli antifascisti impedisce di capire che la dottrina del fascismo, espressione della scolastica neo-hegeliana, è una pagina di storia filosofica superata dalle giovani avanguardie e chiusa nella notte sul venticinque luglio 1943.
Il rispetto che si deve alla nobile figura di Giovanni Gentile non può nascondere il fatto che del fascismo rimane l’eredità dei protagonisti della scuola milanese di mistica, che, al seguito della scienza nuova di Vico, finalmente letta alla luce della fede cattolica, professata dal grande napoletano, tracciarono la via italiana al superamento delle abbaglianti dottrine di Hegel e dei neohegeliani.
Porto sicuro, aperto ai delusi dalle moderne rivoluzioni e ai refrattari allo storicismo, la restaurata filosofia vichiana testimonia la vitalità del Novecento italiano. Per questo la lettura della Scienza Nuova, è impedita dalla navigata perizia dei progressisti, naufraganti nei gorghi prodotti dell’immanentismo assoluto.
Contraddicendosi, l’università fascista ha nutrito il pensiero degli irriducibili oppositori all’idealismo e ai suoi succedanei. Fascisti stimati e approvati da Benito Mussolini furono i i commentatori continuatori di Vico, Giorgio Del Vecchio, Francesco Amerio, Nicola Petruzzellis, Carmelo Ottaviano, Marino Gentile, Niccolò Giani, Guido Pallotta, Nino Tripodi. E Giuseppe Capograssi (1889-1956), oggetto di un avvincente saggio di Vincenzo Lattanzi, edito in questi giorni da Solfanelli in Chieti e presentato con prosa vivida e amicale da Francesco Mercadante.
Agile e puntuale l’opera di Lattanzi ricostruisce la storia di Capograssi, la sua infanzia a Sulmona, la frequentazione del liceo a Macerata, il corso di laurea nella facoltà di giurisprudenza a Roma, l’inizio dell’attività pubblicistica nella redazione della rivista Coenubium diretta da Giuseppe Rensi, l’impiego nel Consorzio dell’Agro Pontino, la stesura di Pensieri a Giulia [Giulia Ravaglia, che sposerà nel 1924], i primi contrastati tentativi di accedere all’insegnamento universitario, il sodalizio con Giorgio Del Vecchio, l’assunzione del primo incarico universitario nel 1932, le riflessioni su Agostino, Tommaso, Vico Pascal e Rosmini, e lo svolgimento della sua geniale attività di interprete della filosofia del diritto.
Si affaccia la tentazione di attribuire a Capograssi il prezioso titolo di antifascista tesserato. Lattanzi scrive infatti che nel 1932 il filosofo si iscrisse al Partito nazionale fascista “prendendo la tessera del pane, come la chiamava“. Se non che di seguito Lattanzi, correggendosi, precisa che dell’espressione “tessera del pane” [che getterebbe l’ombra furbesca dell’ipocrisia sulla personalità del filosofo] “non si è rinvenuto mai alcun riscontro documentale, né nell‘opera né nella corrispondenza di Capograssi“.
Il fatto è che in quegli anni, la cultura italiana, grazie all’iniziativa dei giusnaturalisti pacificamente tesserati, quali furono appunto Del Vecchio e Capograssi, stava producendo gli antidoti alle suggestioni totalitarie ricevute dai neo hegeliani, Bertando Spaventa, Benedetto Croce e Giovanni Gentile.
Penetrato nel cuore della filosofia post–fascista di Capograssi, Lattanzi rammenta, infatti, che “E‘ in Vico che si ritrova l‘humus dal quale emergono i tratti profetici, più lungimiranti, più vividi e suggestivi del pensiero di Capograssi, quelli dedicati all‘individuo, allo stato ed al diritto e che preparano la critica dello stato contemporaneo, fonte di progressiva spoliazione dell‘identità del soggetto e di depauperamento della spontaneità della vita sociale“.
Ora la critica dello stato moderno è inseparabile dalla critica da quella filosofia moderna che ebbe origine dalla scolastica decadente e dalla rivoluzione cartesiana.
Nel solco della tradizione vichiana, Capograssi iniziò il suo cammino di ricerca dal riconoscimento dell’influsso decisivo che il vuoto intellettualismo di Cartesio esercitò nelle rivoluzione moderne: “Con Cartesio tutta la realtà nasce dal fatto del pensare che l’essere sparisce di fronte al pensare. La mente dell’uomo fa la realtà e Dio ridotto all’idea conserva la sua esistenza solo in virtù del grande e pericoloso argomento escogitato da Sant’Anselmo, fino a che anche questo è totalmente criticato e l’antica idea di Dio è abolita. Sulla direzione aperta da Cartesio col suo cogito lavora tutto il pensiero moderno. … La vera rivoluzione è qui e non nelle rivoluzioni politiche che poi seguirono. Da questo sovvertimento di tutto il reale nasce tutta la squilibrata epoca moderna e le sue rivoluzioni e le sue distruzioni” (1).
L’evidente prossimità del punto di vista di Capograssi con quello del Maritain maurassiano, l’autore di Antimoderno e dei Tre riformatori, dimostra l’infondatezza dei ragionamenti sull’antifascismo di Capograssi [al suo maestro Del Vecchio peraltro nessuno ha mai attribuito la passione antifascista] e avvia alla comprensione della natura atipica della sua presenza del partito democristiano.
Una presenza, quella di Capograssi, che purtroppo non ha lasciato un segno nel refrattario partito democristiano. Partito fin dalla fondazione indirizzato all’accoglienza di quella teologia unitiva del Vangelo e delle ideologie moderne, che causerà lo sfascio della società italiana, oltre che l’alterazione di vaste area delle cultura cattolica.
Se una politica conforme alla dottrina sociale della Chiesa cattolica è ancora possibile questa non può cominciare che dalla sostituzione dello storicismo maritainiano con la teologia della storia vichiana puntualmente interpretata e aggiornata da Capograssi.
NOTE
1) Cfr. “Riflessioni sulla autorità e la sua crisi”, Lanciano 1921, sta in Opere, Giuffré, Milano 1959, vol. I pag. 337.
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