La scuola di base: dall'eccellenza al disastro

Di Miriam Pastorino

LA SCUOLA DI BASE: DALL’ECCELLENZA AL DISASTRO

Il ruolo, assai poco noto, degli enti locali nell’opera

di  destrutturazione della scuola italiana

 Alla metà degli anni Settanta il vento del Sessantotto aveva già travolto l’università, spirava violento su istituti tecnici e licei ma non aveva ancora toccato la scuola di base italiana, che poteva dirsi sostanzialmente sana. L’ordine regnava ancora tra le mura delle medie inferiori e delle elementari dove tutti continuavano ad assolvere ai propri doveri in un clima di grande e proficua collaborazione.

Ma tanta serenità non poteva non disturbare chi si era prefisso di sovvertire il mondo. In quegli stessi anni, come è noto, il Partito Comunista Italiano aveva compiuto grandi progressi politici e conquistato innumerevoli regioni e città, senza tuttavia arrivare direttamente al governo. Fu proprio attraverso l’amministrazione degli enti locali, quella dei comuni in particolare, che i vertici di tale partito misero in atto una strategia di sovvertimento delle due istituzioni ritenute “sorpassate e classiste”, nonché “borghesi e autoritarie”, riuscendo a stravolgerle completamente nel corso di una decina d’anni.

Benché da allora sia trascorso parecchio tempo, molti rammentano ancora le aspre battaglie ingaggiate dai vessiliferi del cosiddetto progresso contro i custodi della sana, seppur per certi versi manchevole, tradizione didattica italiana. Assai meno sono coloro che sanno come andarono veramente le cose e, tra di essi, pochissimi sono quelli disposti a parlarne. Alzare il velo su questa pagina di storia, cercare di capire quali furono le strategie adottate e quanta fu la determinazione profusa per trascinare tutta la scuola italiana nell’abisso dove oggi si trova, va oltre la semplice testimonianza, poiché consente di delineare le tappe di un possibile percorso di risalita: quello che ci porterà (forse) alla rinascita di questa fondamentale istituzione della nostra società.

A partire dalla metà degli anni Sessanta, la martellante propaganda progressista incominciò a parlare, in termini assai generici, di una scuola destinata a diventare democratica, finalmente aperta ai bisogni del popolo e delle madri lavoratrici. In realtà, a monte di tutto ciò stava ben altro progetto: quello di sfasciare l’istituzione deputata alla formazione e alla conoscenza primaria, con lo scopo di creare il caos, quello stesso caos dal quale sarebbe montata l’onda lunga dell’ignoranza generalizzata. Ovviamente, questo obiettivo, decisamente sconvolgente, risultava noto soltanto ad una ristrettissima cerchia interna al Partito Comunista Italiano, cioè chi aveva ben chiaro come anche il potere più vessatorio si conservi  solo e soltanto qualora abbia a che fare con masse di sprovveduti, privi di consapevolezza e di orgoglio. E’ importante rendersi conto di questo fatto, cioè che il ciclone che ha travolto la scuola italiana, come del resto tante altre istituzioni, tra cui la famiglia, non è nato dal nulla o dalla casualità, ma è stato fortemente voluto, pensato e programmato a tavolino.  

Nei mesi successivi la conquista politica dei comuni delle grandi città da parte del Pci, i reparti della pubblica istruzione (fin lì dediti solo a funzioni essenziali, come quella di mantenere in efficienza gli edifici scolastici e provvedere al personale non docente) vennero invasi da un’orda di personaggi tra i più disparati. C’erano intellettuali “organici” e ‘maestrini’ progressisti, presidi falliti e funzionari di partito, femministe d’assalto e rappresentanti di associazioni politicamente affini: tutti pronti a spacciarsi per esperti pedagoghi.

Dall’attività di questi consulenti ante litteram, che pareva esaurirsi nell’elaborazione di progetti di rinnovamento alquanto fumosi e nella messa in atto di più concreti atteggiamenti arroganti e provocatori verso chi mostrava di non apprezzarli, non era possibile comprendere in quale direzione si muovesse il nuovo corso politico, e già si alzava la protesta di certi progressisti in buona fede ed oltremodo ingenui, allarmati per il manifestarsi di tanta insipienza da parte dei suddetti esperti. Ma tutto ciò sarebbe diventato comprensibile se fossero state note le già citate finalità demolitrici perseguite dal Partito Comunista e la funzione di guastatori dell’intelletto deputata a quell’accozzaglia di personaggi destinati di lì a poco ad entrare ufficialmente nell’organico dell’ente e a formare un’onnipotente  “struttura politico-amministrativa” dai persistenti contorni magmatici. E non v’è dubbio che proprio quella stessa perdurante confusione giovasse allo sviluppo dell’aberrante progetto di distruzione della scuola, le cui tappe dolorose,  qualcuno prima o poi – come c’è da augurarsi – arriverà a raccontare per esteso. In questa sede ci limiteremo, infatti, a rammentare soltanto pochi punti salienti della triste vicenda.

Uno degli obiettivi prioritari del piano messo a punto dalle forze progressiste consisteva nella “demolizione della fiducia”: quella che i maestri e i professori della vecchia guardia avevano in se stessi, e quella delle famiglie nei confronti della scuola tradizionale. Il primo scopo fu raggiunto attraverso la programmazione di innumerevoli corsi di aggiornamento con i quali taluni esperti di area, docenti universitari o addirittura laureandi in pedagogia, pretesero di insegnare le autentiche basi della didattica ad ottimi professionisti, con decenni di esperienza alle spalle. Tali docenti possedevano un’elevata considerazione del proprio ruolo ed erano abituati al rispetto della collettività; amavano il proprio mestiere e, considerandolo una sorta di missione, lo reputavano il migliore del mondo. Improvvisamente, però, tutto il loro modo di essere e di pensare fu messo in discussione, in qualche caso addirittura ridicolizzato. Presto si accorsero, ad esempio, che i cosidetti corsi di aggiornamento altro non erano che veri e propri “campi di rieducazione” a frequentazione obbligatoria, concepiti per confondere e quindi annientare l’identità originaria dell’insegnante. Il secondo scopo fu ottenuto istituendo gruppi di genitori “militanti” e ovviamente politicamente orientati, pronti a pretendere dalla scuola servizi che non erano mai stati di sua pertinenza, accusandola ben presto di fallimenti educativi non ascrivibili a sue dirette responsabilità, bensì ad un nuovo e sempre più generale stile di vita delle famiglie, meno attento ai doveri di un tempo ed estremamente esigente nel richiedere il soddisfacimento di nuovi bisogni che, proprio in quegli anni, si stavano affermando e diffondendo nel nostro Paese. In altre parole, gli strateghi del progetto di demolizione della scuola si servirono dei mutamenti sociali allora in atto, e da loro stessi propiziati, per trasformare in aperta ribellione il consenso che aveva sempre circondato l’insegnamento di base, un consenso che altrimenti avrebbe permesso di portare a compimento tutte le modifiche rese necessarie dallo spirito dei tempi, senza stravolgere un’istituzione efficiente ed economica che, a certe condizioni, avrebbe potuto funzionare da argine alle crescenti manchevolezze di una generazione di madri e padri intenzionati a voltare le spalle alle responsabilità proprie del loro ruolo.

Di fondamentale importanza, specie nelle fasi iniziali del percorso, fu la strategia del “metti una mela marcia in ogni paniere”. Alla fine degli anni Settanta, i maggiori comuni avevano già provveduto ad inserire i loro cavalli di troia in  tutte le direzioni didattiche, assumendo centinaia di “operatori” (il termine “maestro” era stato messo al bando in onore dell’interscambiabilità dei ruoli di ispirazione maoista, allora in auge), destinati ad ampliare l’orario scolastico richiesto dalle madri lavoratrici. Le fortune professionali di tali operatori, a partire dalla loro assunzione, non dipendevano da un concorso statale, bensì da selezioni gestite dalle giunte “rosse” con l’avvallo dei sindacati amici che, ovviamente, privilegiavano giovani compatibili con il loro orientamento ideologico. Gran parte di costoro svolsero un’azione di “contropotere” nei confronti del direttore didattico, strumentalizzando e ingigantendo ogni motivo di dissenso e spesso creando ad arte situazioni di forte tensione. A dare man forte al ricambio dei dirigenti e dei docenti (soprattutto a livello di scuole medie inferiori) arrivò ben presto il Provveditorato che, operando in sinergia con gli strateghi degli assessorati alla pubblica istruzione, immise negli istituti altro personale neo assunto soltanto in base all’appartenenza ideologica. Intanto, l’avanzare della destabilizzazione della scuola spingeva verso il pensionamento anticipato migliaia di insegnanti “tradizionalisti”, ormai ridotti all’esasperazione in quanto completamente impotenti di fronte all’affermarsi del nuovo corso.

Quest’ultimo, delineato fondamentalmente dall’assessorato all’Istruzione consisteva: a) nella messa al bando del rapporto gerarchico docente-allievo. Una cura particolare venne adottata nel promuovere l’abolizione della cattedra rialzata e dell’allineamento tradizionale dei banchi per una sistemazione per così dire conviviale (e “democratica”), ricalcata sulla disposizione dei tavoli del bar o del ristorante. Ovviamente, la cattedra al livello del banco era funzionale al “depotenziamento” dell’autorità del docente e alla conseguente diminuzione della concentrazione da parte dei discenti; b) nella morte della memoria e nella cancellazione dell’identità. Tali scopi vennero realizzati con la frammentazione e la parcellizzazione delle materie confuse nella cosiddetta “interdisciplinarietà” dell’insegnamento, da cui derivò l’abolizione dell’apprendimento mnemonico dei testi poetici, delle date e del succedersi coerente degli eventi storici; del senso dell’orientamento basato sul possesso dei punti cardinali e sulla conoscenza della carta geografica, a cui si aggiunse l’esaltazione delle culture primitive o comunque “altre” rispetto alla nostra; c) nella creazione del mito della “creatività” infantile. Ogni produzione infantile venne considerata ed esaltata come un’espressione in ogni caso meritevole. Quanto più gli elaborati – non importa se disegni o componimenti – si presentavano rozzi e approssimati, tanto più venivano considerati autentici e sinceri, e quindi degni di apprezzamento. Per promuovere questa nuova delirante tendenza, apparentemente innocua, ma il cui proposito perverso era niente di meno che quello di abbattere il concetto del merito e quindi dell’impegno per conseguirlo fino dai primi passi dell’apprendimento, vennero allestite mostre e pubblicati innumerevoli articoli e saggi. Questo approccio nefasto all’impegno didattico, diffuso alla fine degli anni Settanta, è stato naturalmente la causa prima di una sequenza infinita di guai e di guasti. Giacché a chi sia dotato di buon senso non sfugge che un conto è lodare un piccolo talento o incoraggiare una manifestazione creativa, ma ben altra cosa è fare credere a un bambino che tutto quello che scarabocchia è apprezzabile quasi alla stessa stregua di un “opera” adulta, senza fargli capire che deve applicarsi per impadronirsi veramente delle varie forme d’espressione di cui dovrà avvalersi nella vita e nei mestieri o professioni. Non più stimolato nel migliorarsi, il bambino non sentirà più, o avvertirà solo in parte, il bisogno di imparare; d) nell’introduzione di un’infinità di iniziative dissennate, finanziate grazie alla pressoché illimitata disponibilità di cui gli assessorati alle scuole poterono disporre da un certo momento in poi. E’ questo un capitolo a parte nel processo di distruzione della scuola avviato e portato a compimento dalle forze cosiddette progressiste che in quegli anni servì, tra l’altro, a favorire l’irruzione del mondo esterno all’interno di un’istituzione chiusa e giustamente protetta.  Se in un primo tempo i pedagogisti “organici” e la pletora dei loro accoliti facenti capo agli assessorati ebbero modo di lavorare in regime di ristrettezze economiche e qualche volta addirittura a titolo di volontariato, ben presto si riversò sui capitoli di spesa dei bilanci comunali un vero e proprio fiume di denaro che prima consentì loro di collocarsi nella scuola a titolo definitivo, spesso con cariche direttive, e quindi ad avviare un numero abnorme di iniziative sedicenti didattico-culturali la cui strampalata varietà rifletteva l’avvento della cosiddetta “fantasia al potere”. In soldoni, il mondo della scuola venne letteralmente sommerso da ogni genere di sperimentazione didattica: dal “giochino che stimola l’intelligenza” al “ciclo di proiezioni educative”, dalla “biblioteca parlante” al “laboratorio dei linguaggi”, dal “concorso finalizzato allo stimolo della fantasia” alla “costituzione di centri di documentazione sperimentale”, dal “magazzino delle tecniche espressive” all’ “agenzia della creatività”, dall’ “incubatoio del fumetto” al “polo di animazione socioculturale”. Per partorire queste, e infinite altre idee scriteriate, molto presto i pedagoghi ormai entrati in ruolo non bastarono più, per cui cominciarono ad essere ingaggiati consulenti esterni, rigorosamente scelti, com’è ovvio,  tra gli amici o i politicamente sodali. E questo perché attorno alla scuola ormai si agitava un mondo avido, portatore di interessi più disparati: ideologici, ma anche materiali, cioè puramente commerciali; un mondo costituito spesso da cooperative e associazioni costituite ad hoc. Attraverso la formula della prestazione professionale o con quella più anonima e assolutamente priva di risvolti fiscali del contributo finanziario, dietro cui si celavano tali associazioni, sedicenti senza scopo di lucro, venne creata una delle più intricate (e assai poco trasparenti) reti di finanziamento a sostegno del serbatoio pressoché infinito delle proposte demenziali scaturite dalle menti dei sedicenti “intellettuali” progressisti. Un vero “sistema” a fine di lucro che si è tradotta in sprechi inimmaginabili e che ha contribuito a demolire il “senso” della scuola e delle sue reali funzioni e, cosa assai più grave, il senso del dovere, riducendo centinaia di migliaia di ragazzini in confusi asinelli destinati a sicura disoccupazione

 

 

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