Un saggio storico di Tommaso Romano
di Piero Vassallo
La diffusione dell’ideologia cosmopolita soggiacente all’europeismo ha indebolito e sfibrato l’amor di patria provocando l’insorgere di progetti secessionisti, animati da un paradossale e contorto nazionalismo antinazionale.
Causato dagli iniziati ai misteri d’Europa, l’oscuramento dell’amor di patria ha incoraggiato le attività di politici avventizi, che, senza accorgersi di scivolare lungo la china del cosmopolitismo e della mistica liberale, progettano l’uscita dall’unità nazionale e il ritorno alle piccole patrie, contemplate dal Congresso di Vienna.
Ciò non ostante, la rivendicazione di un passato, forse amabile, certamente irrevocabile, ha incoraggiato l’attività preziosa e meritoria di valenti storici revisionisti, quali Anna Pellicciari, Roberto De Mattei, Luigi Copertino e Tommaso Romano.
I critici delle disgraziate modalità d’attuazione del progetto unitario sono seriamente impegnati in un’impresa faticosa, che sarebbe follia censurare e demonizzare in nome del pensiero unico.
L’instabile patriottismo italiano, infatti, si può restaurare soltanto conoscendo gli errori ideologici e correggendo le gravi ingiustizie consumate durante gli anni tormentati del primo e del secondo risorgimento.
Il perdurare delle infelici alterazioni o addirittura delle brutali negazioni sofferte dall’autentico patriottismo durante gli anni dei due risorgimenti ha destato, in un numero crescente di italiani, l’intenzione di rigettare il presente unitario e di promuovere precipitose fughe nel particolarismo del passato.
Non si può negare seriamente che i due risorgimenti sono stati compiuti nel segno di una repressione della fede cattolica, che aveva educato e nobilitato gli italiani.
L’orgogliosa coscienza di appartenere a una nazione cristiana, desta in Dante e in Petrarca come in Vico e in Gioberti, fu alterata dai protagonisti dell’unificazione compiuta dai liberali nel segno del più ottuso anticlericalismo e appiattita sui valori edonistici dai liberatori-americanizzatori della penisola.
Giovanni Gentile aveva intravisto la radice spirituale dell’unità italiana nell’indirizzo autenticamente patriottico delle insorgenze antigiacobine attuate dai Viva Maria!
Purtroppo quelle ragioni furono tradite dai falsari, prima liberali e massoni quindi ciellenisti, che, in obbedienza alle imperiose potenze anticattoliche d’Europa e d’America, hanno usurpato l’autorità del popolo, trascinando l’Italia sulla rovinosa china dell’irreligione esoterica e della affamatrice superstizione liberale.
L’attività degli storici revisionisti deve essere pertanto apprezzata quale indispensabile antidoto alla mitologia europeista e quale strumento del risveglio della coscienza patriottica.
Sostenuto da un alto numero di documenti inediti, l’ingente saggio di Tommaso Romano, “Sicilia 1860-1870 Una storia da riscrivere“, uscito in questi giorni dagli infaticabili torchi del palermitano Isspe, ha il profilo del patriottismo cattolico.
L’autore dimostra che il vero nemico dei garibaldini e dei liberali era la Cristianità romana, un disegno che contemplava l’alleanza con la falsa destra liberale: “La tappa di conquista del potere in senso anticattolico, massonico e repubblicano di Garibaldi presupponeva un tratto di strada, un‘alleanza nei fatti con Torino, laica e liberale, ma strettamente legata ai poteri forti europei“.
Purtroppo i Savoia tradirono la loro storia e diventarono complici dell’anticlericalismo professato dai liberali e dai garibaldino.
Al proposito Tommaso Romano cita l’eloquente testo di un regio decreto del 7 luglio 1866, firmato da Eugenio principe di Savoia-Carignano, luogotenente di Vittorio Emanuele II: “Non sono più riconosciuti nello Stato gli Ordini, le corporazioni e le Congregazioni religiose regolari e secolari, ed i Conservatorii e Ritiri, i quali importino vita comune ed abbiano carattere ecclesiastico“.
Ebbe così inizio quel periodo infelice che l’insigne padre Mario Sciortino o. f. m. capp., autore di un saggio edito dalla palermitana Thule nel 2011, definì “ventennio terribile per i cappuccini“.
Dal suo canto Tommaso Romano sostiene che “Grave in Sicilia fu la soppressione della case religiose perché proprio nell‘isola la cura pastorale si basava non tanto sulle parrocchie quanto sulle case religiose e sull‘impegno dei regolari“.
Il criterio applicato dagli occupanti piemontesi era il medesimo che Urbano Rattazzi aveva imposto al parlamento subalpino del 1854: “La Chiesa è nello Stato, il quale esercita su di essa tutto il suo potere sovrano“.
Tommaso Romano conclude il suo ragionamento citando il giudizio di Maria Teresa Falzone, secondo cui “se si esclude il periodo della dominazione araba mai vi era stata una soppressione così violenta e di così ampia portata“.
I soprusi e le ingiustizie del potere centrale ebbero effetti devastanti: “alla nuova povertà frutto di un liberalismo economico centralista che privilegiava solo i possessori di capitali, i grandi manovratori di interessi, gli usurai, i nuovi capitalisti alleati con gli inglesi“.
Di qui l’esplosione di una violenta rivolta di popolo, detta del “Sette e mezzo“, perché durata sette giorni e mezzo.
Il detonatore della rivolta fu l’insofferenza dei fedeli, stanchi di subire umiliazioni da parte dello sconsacrato potere piemontese.
Nelle schiere degli insorti, insieme con i fedeli, si incontravano nostalgici dei Borboni, garibaldini delusi, mazziniani e affamati anodini.
Si costituì una solidarietà generale, che dimostrava l’isolamento del potere sabaudo e la sua dipendenza dall’esercito regio, che, intervenuto per sedare la rivolta, uccise oltre mille insorgenti.
La fedele appassionante ricostruzione del “Sette e mezzo“, compiuta da Tommaso Romano è la figura dell’insofferenza popolare al liberalismo affamatore, una passione che fa cadere le distinzioni ideologica – destra e sinistra – e indirizza i popoli alla riscoperta delle sue autentiche radici.
Una storia esemplare che gli italiani d’oggi dovrebbero meditare in vista della liberazione dalle catene che la costringono all’appiattimento sulle infami leggi dell’usura europea.
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