L’angolo di Gilbert K. Chesterton – In favore degli eremiti– rubrica quindicinale di Fabio Trevisan

IN FAVORE DEGLI EREMITI

 

“Gli eremiti, specialmente i santi, avevano una solitudine in cui essere socievoli”

 

 

Nella raccolta di saggi del 1935: “Il pozzo e le pozzanghere” lo scrittore londinese dibatté, da pari suo, sul significato della solitudine ed a favore degli eremiti. Parteggiò fin da subito per la difesa del bambino vessato dalle angherie (oggi chiameremo bullismo) dei compagni di scuola. Quel grido naturale e istintivo: “Lasciatemi in pace!” esprimeva la giusta indignazione della persona tormentata. Chesterton desiderava cogliere in quell’affermazione spontanea l’appropriatezza della difesa semplice di chiunque si fosse trovato in quella spiacevole situazione. Nel tratteggiare quella situazione spiacevole, egli irrideva alle teorie intellettuali di chi osteggiava il senso comune: “E’ raro che il bambino nella sua spontaneità esclami: “Lasciatemi godere della solidarietà fraterna della vita di gruppo socialmente organizzata”. Chesterton intendeva così rimarcare quanto quel grido spontaneo sottintendesse la parola “solo”: “Lasciatemi da solo, in pace!”. La vastità della mente di Chesterton poteva così estendersi a confrontare altre situazioni in cui l’invocata solitudine fungeva da baluardo della persona, costretta a difendersi dall’aggressività, calunnia, maldicenza altrui ripiegando su se stessa. Il mondo moderno offriva innumerevoli esempi di tali deprecabili atteggiamenti, tanto da contrapporre allo spirito gaudente dei tempi la figura degli eremiti e dei solitari, come fossero quest’ultimi selvaggi o misantropi. Da questo punto di vista stolto e superficiale era ingiustificabile l’atteggiamento degli eremiti o dello spirito dell’anacoreta: “Senza dubbio, da un punto di vista moderno, gli eremiti erano dei pazzi”. Chesterton, prendendo lo spunto da questa superficiale osservazione, aggiungeva che gli eremiti erano dei pazzi piacevoli: “Basterebbero alcuni esempi per spiegare quello che intendo; ad esempio il fatto che gli eremiti potevano trasformare in bestie innocue gli animali selvaggi che venivano spontaneamente a loro. Molti di loro avevano una vera carità verso gli esseri umani. Avevano un atteggiamento più benevolo verso gli uomini di quanto non lo avessero gli uomini tra di loro…”. Chesterton distingueva gli eremiti in tipologie diverse: c’erano i lodevoli “pazzi piacevoli” ma anche “i solitari scontrosi” ed ancora i cinici “impostori e furbacchioni” come ad esempio il famoso Diogene. Diogene non era considerato da Chesterton un vero solitario, in quanto amava andare sempre per le piazze dei mercati come un qualsiasi demagogo: “Diogene non solo viveva in una botte, era anche una botte vuota!”. Con quell’amore per il paradosso che era “amore per la verità”, Chesterton poteva così definire ironicamente i solitari di professione, ossia i “solitari senza solitudine”. Al contrario, gli eremiti, specialmente i santi, avevano una solitudine in cui essere socievoli e questa solitudine era completamente diversa da quella di Diogene e della sua botte. La “vera solitudine” portava all’edificazione delle virtù ed al compimento della natura umana: “L’uomo che diveniva eremita era qualcosa di più degli altri esseri umani, non di meno”. Chesterton invitava così, nell’allargare la mente, a considerare gli argomenti solidi a favore della solitudine, in favore degli eremiti: “La ragione per cui anche l’essere umano ordinario dovrebbe essere un mezzo eremita è che questo è il solo modo in cui può prendersi una mezza vacanza”. Era il solo modo concreto per godere della bellezza della vita e per poter contemplare la grandezza del creato. Si trattava, secondo Chesterton, non tanto di fuggire (come da indimenticabile spot pubblicitario d’altri tempi) dal logorio della vita moderna ma di riflettere ed assaporare la consistenza delle relazioni sociali, spesso votate alla superficialità ed occasionalità del momento: “Se gli uomini fossero onesti con se stessi, riconoscerebbero che anche i rapporti sociali di oggi, anche quelli con le persone amate, appaiono spesso stranamente brevi, trafelati, vacui, inconsistenti”. Cosa significava allora essere un mezzo eremita? Che senso aveva questa sana provocazione chestertoniana ? Lo scrittore inglese aveva intravisto una via d’uscita alla spersonalizzazione delle masse, alla rabbia che già montava ai suoi tempi nella vita moderna, nella letteratura, nell’arte. Nell’esaminare le condizioni infelici dell’umanità che non sapeva più cogliere le gioie positive della vita, egli poneva come riferimento il “segreto dei santi” che si rifugiavano nel deserto: “Prima che l’uomo di mondo critichi il santo, sarà bene ricordargli che l’uomo del deserto spesso aveva un animo ricolmo di bontà umana, dolce come un vaso di miele, sebbene nessuno fosse lì per assaggiarlo”.

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