di P. Giovanni Cavalcoli, OP
Come ho avuto modo di notare ormai più volte in questo sito, uno degli aspetti principali dell’attuale modernismo sta nel tentativo di concepire un nuovo cattolicesimo che interpreti la Rivelazione divina non più utilizzando, come tuttora prescrive la Chiesa, la filosofia di S.Tommaso d’Aquino, ma l’idealismo che va da Cartesio ad Hegel.
Alcuni, i più astuti, al fine di non dar nell’occhio in questa disonesta operazione, si sforzano, facendo i salti mortali, di mostrare che in fondo in fondo anche S.Tommaso era un idealista. E’ questa la linea iniziata circa ottant’anni fa all’Università Cattolica di Milano da Gustavo Bontadini, discepolo di Gentile, il principale degli hegeliani di Italia del secolo scorso. Di questi due filosofi ho già parlato di recente in questo sito.
Altri invece, consapevoli dell’incompatibilità dell’idealismo trascendentale col realismo tomista, fondato sul realismo biblico, ed approfittando dell’ingenuità o della connivenza o della mancata vigilanza dell’autorità ecclesiastica, hanno tranquillamente abbandonato S.Tommaso, per costruire un “Corso fondamentale sulla fede”[1], dove, pur con la pretesa di interpretare Scrittura e Tradizione, il realismo biblico è spudoratamente sostituito dalla cosiddetta “esperienza trascendentale atematica preconcettuale” di Karl Rahner, di chiara origine hegeliana ed heideggeriana, benchè furbescamente in questo libro Rahner non nomini mai questi autori.
Come è noto, il dogma fondamentale dell’idealismo è l’identificazione del reale con l’ideale[2], al contrario del realismo che invece distingue l’ideale dal reale e pone l’ideale (ens rationis) come rappresentazione o modello mentale del reale (ens reale), il quale è creato da Dio ed è esterno all’idea umana, distinto da questa idea, la quale è prodotto dalla ragione umana.
Invece per l’idealista non esiste un reale esterno a me – questo è “ingenuo realismo” – ma l’essere coincide col mio pensiero o con la mia “idea”. Non c’è un’idea del reale distinta dal reale, ma l’idea del reale è lo stesso reale. Per questo alla fine, poichè il reale è assorbito nel mio pensiero, non occorre più un Dio che giustifichi l’esistenza del reale e si finisce così nell’ateismo.
Da qui il nome “idealismo”. L’esperienza esterna è solo apparenza. L’unica verità è data dall’“autocoscienza”, inizio ad un tempo del pensiero e dell’essere (il cogito di Cartesio). La verità quindi non si ricava dai sensi, sia pur con l’intervento dell’intelletto, secondo la gnoseologia tomista, ma solo dal cogito.
Come idealista, quindi, io non affermo l’esistenza di quella cosa, perché ho contattato con i sensi quella cosa, esistente fuori di me prima che la pensassi e indipendentemente dal fatto che io la pensi, ma quella cosa esiste ed è quello che è in quanto la penso ed è pensata da me. Non si pone la necessità di distinguere un “fuori” (extra animam) e un “dentro” (in anima) rispetto al pensiero. Siccome non c’è nulla fuori del pensiero, non è neppure necessario dire che tutto è nel pensiero, ma si deve semplicemente dire che l’essere coincide col pensiero.
Alcuni, come Bontadini, che vanno addirittura oltre Gentile, che parla di “autoctisi” o “autoconcetto” come pensare che pone o “crea” l’essere ossia se stesso come essere, rifiutano anche questa posizione, in quanto – essi dicono – mantiene ancora un residuo di realismo, ossia di distinzione fra pensiero ed essere. Ma nel momento in cui penso, essi dicono, questo pensare è già essere come essere pensato. E d’altra parte l’essere non è altro che il mio pensiero.
L’essere, insomma, per gli idealisti, non è esterno al pensiero o presupposto al pensiero. Non trascende neppure il pensiero, né è regola di verità del pensiero[3], ma la verità sta solo nella “autocoscienza”, ossia nel fatto che, giusta il cogito cartesiano, il pensiero è cosciente di se stesso. La prima verità non sta nell’essere, ma nel pensiero. Dal pensiero si deduce l’essere e non viceversa. Il primum cognitum non è, come in S.Tommaso, l’ente, ma il pensiero (idea).
Il pensiero quindi sostituisce l’essere o lo assorbe totalmente in se stesso o, come dicono gli idealisti, l’essere “si risolve nel pensiero”. Il pensiero non è relativo all’Assoluto come essere, non è relativo all’essere, ma è esso stesso l’Assoluto; è intrascendibile. Non c’è un essere al di là e oltre il pensiero, ma l’essere è solo nel pensiero, immanente al pensiero. L’essere è l’essere pensato. Non esiste un essere non pensato, in quanto l’idealista ritiene che nel momento in cui lo pensa, diventa pensato. Dunque non esiste nulla a cui l’idealista non pensi. Che intelligenza!
Tutto alla fine è pensiero, come dice Gentile, anche la materia. Tutto pensa e tutto è pensato. Dal che si può veder bene come l’idealismo si può rovesciare in materialismo e il suo finto teismo nasconda l’ateismo, come risulta storicamente con chiarezza dal fatto che Marx deriva da Hegel: se la materia si risolve nel pensiero, allora sarà possibile il processo inverso: risolvere il pensiero nella materia e il gioco è fatto.
Non c’è nulla per l’idealista che sia altro dal suo pensiero, nemmeno Dio. Anche l’altro, infatti, secondo lui, in quanto pensato da lui, si identifica col suo pensiero, con la sua idea. Quindi non esiste per lui un Dio reale e trascendente, ma Dio per lui esiste in quanto pensato da lui. Il Dio dell’idealista non ha creato l’idealista, ma è un Dio posto dal pensiero stesso dell’idealista, è un’idea dell’idealista, il quale quindi, nel momento in cui pensa Dio, è egli stesso Dio. Da qui l’esito panteista dell’idealismo.
Non esiste per l’idealista un pensiero come semplice facoltà di pensare o pensare in potenza, quindi inizialmente vuoto di contenuti (“tabula rasa”). Al contrario, il pensiero umano è concepito come originariamente (“a priori”) pensante (res cogitans), il pensiero è sempre “atto del pensiero”, come fosse lo stesso pensiero divino, progettatore delle cose o idea creatrice delle cose, prima ancora di fare l’esperienza delle cose o – diciamocela schietta – prima ancora dell’esistenza delle cose, visto che l’esistere coincide con l’essere pensato.
Insomma, l’idealista si considera un piccolo dio creatore del mondo e di se stesso, dotato quindi di una libertà assoluta e sconfinata, visto, che, modestia a parte, egli stesso in fondo (molto in fondo) è Dio. Infatti, come già diceva Fichte, l’Io, che è l’Assoluto, pone sè stesso. E quindi è legge a se stesso. Non deve render conto ad alcun Dio trascendente, che non esiste, perché nulla è fuori dell’io e del suo pensiero. E se si deve ammettere un “io empirico”, questo, come poi dirà Hegel, non è che un “momento” passeggero dell’Assoluto o, come dirà Severino, è l’“apparire” dell’“Eterno”.
Quali le conseguenze morali di questa visione? Quale etica discende dall’idealismo? Non è difficile immaginarla, anche se gli idealisti parlano poco di temi etici o sociali, tutti fissati come sono nella tematica dell’“io” e dell’“Assoluto” e consapevoli che quei temi li costringerebbero a moderare gli svolazzi del pensiero e a scendere a patti con quel realismo che essi aborriscono e che li costringerebbe a riconoscere i limiti, i condizionamenti e le miserie della natura umana, che essi invece vogliono risolvere con bolsa retorica nello “spirito che si autotrascende verso Dio come orizzonte della trascendenza umana”, per usare una definizione di Karl Rahner.
Lo stesso comportamento degli idealisti mostra nei fatti qual è la loro etica. Descriviamola con una serie di comportamenti che la caratterizza.
Egocentrismo, egoismo, assolutismo. Abbiamo visto che per l’idealista, tutto è suo pensiero, tutto si risolve nel suo pensiero, tutto è da lui pensato, tutto origina da lui e tutto è per lui, tutto deve ruotare attorno a lui. In sostanza esiste solo lui, così come l’Assoluto è uno solo. Tutto il resto deve essere ordinato a lui. E solo lui gli può dare il permesso di esistere. Ciò a cui egli non pensa, non esiste. Per fortuna però, come abbiamo visto, che non c’è nulla a cui egli non pensi.
L’alterità è qualcosa posto da lui e in lui, nell’orizzonte del suo pensiero e dei suoi interessi. Ma qual è il suo interesse di fondo? Evidentemente affermare sè stesso, visto che egli è l’Assoluto. Da qui il suo estremo egoismo, un egoismo vorace ed insaziabile e vorrei dire anche disperato, triste e malinconico, per il fatto che egli sa bene in fondo di illudersi e di non possedere ciò che crede di possedere, ma il suo orgoglio gli impedisce di riconoscere il suo errore, in forza della sua stessa visione di fondo che lo pone nella gabbia del proprio io, tremendamente solo ed isolato da tutto, in una specie di “autismo” spirituale, senza compagnie né umane né divine, senza poter comunicare realmente con altri soggetti reali che sono solo fantasmi del suo pensiero, senza quindi potersi arricchire dei tesori degli altri.
Illudendosi di essere la fonte dell’essere grazie al bel cogito di Cartesio rivisto e corretto da Fichte, si sente, come Heidegger, fondato in fin dei conti sul nulla. E’ quello che giustamente è stato chiamato “solipsismo”. Come risolvere questa situazione disperante? Non resta che attaccarsi furiosamente a questa vita in una ricerca spasmodica del consenso e del successo, perché egli è convinto di esistere solo se è pensato e stimato dagli altri. Per Hegel la dignità dell’individuo è data dal fatto di “essere riconosciuto dagli altri”, così come per il comunista il senso della sua esistenza è quello di essere membro del Partito.
Arrivismo, arroganza, prepotenza. L’idealista, che considera il proprio io come l’Assoluto, dovrebbe considerare, se fosse coerente, anche gli altri come altrettanti Assoluti. Tuttavia, consapevole del fatto che l’Assoluto è uno solo, avverte solo se stesso come il vero ed unico Assoluto. Gli altri, nella sua idea, li crede degli egocentrici come lui (e non ha sempre tutti i torti). Ma qual è la conseguenza che egli trae da questa convinzione? Che egli, per poter affermare se stesso come il vero ed unico Assoluto, non può che combatterli nella misura in cui gli fanno ombra, non si mettono al suo servizio e non riconoscono la sua divinità. Homo homini lupus.
Di solito l’idealista ha grandi capacità di imbonitore, è colto e dispone di un’oratoria affascinante. Propone ideali audaci ma fasulli, capaci di attirare gli allocchi e gli ambiziosi. Convince gli altri di essere apparizioni dell’Assoluto. A volte tra gli idealisti esistono tipi geniali. Ma anche l’eresia, come ha osservato di recente il Card. Biffi[4], può avere l’apparenza della genialità. Occorre pertanto guardarsi dagli idealisti con la massima circospezione.
Gli idealisti normalmente fanno comunella tra di loro, per impressionare i realisti, ma in realtà sotto sotto si fanno le scarpe a vicenda considerando la volontà di ciascuno di emergere sugli altri. Così vedi il dissenso di Kant verso Cartesio, il disprezzo di Kant per Fichte, la rottura di Schelling con Fichte, il rancore di Schelling per Hegel e così via.
Essi, a fine di soddisfare la loro ambizione di emergere su tutti e vorrei dire anche su Dio stesso, – qualcuno ha parlato di “oltre Dio” – usano verso il prossimo una duplice linea: coloro che cascano nella loro rete, li riempiono di attenzioni e di favori, rendendoli partecipi della loro divinità, ma allo scopo di crearsi un’accolta di fedeli servitori, pronti a difendere il Nume, magari con misure poliziesche, nel caso si osasse in qualunque modo oscurare la sua fama o profanare il suo Nome.
Viceversa, nei confronti di coloro che osano muover loro qualche critica, anche fondata, chiunque sia, fosse anche il Papa, o il Magistero della Chiesa, assumono un atteggiamento di disprezzo che può arrivare anche alla vendetta e ad un odio implacabile. Siccome si ritengono “teofania dell’Assoluto”, non sopportano di ricevere alcuna osservazione, così come per l’uomo pio non avrebbe senso criticare Dio o tentare di correggerlo.
Questi idealisti, infiltrati nella Chiesa, aspirano ai primi posti e a salire i gradi della Gerarchia, magari affettando dottrine come quelle della “Chiesa dal basso” o dei “gruppi di base” o della “Chiesa popolare” contro la visione “piramidale”, “monarchica” ed “autoritaria” del Papa e della Gerarchia. Arrivati poi a questi posti o con l’astuzia o con l’adulazione (anche con qualche bustarella?), atteggiandosi a continuatori del Concilio Vaticano II, ed esponenti di una Chiesa “moderna”, diventano una vera e propria disgrazia per i buoni cattolici, che essi cominciano a perseguitare, non importa se son teologi o vescovi, mentre favoriscono e difendono gli eretici e i modernisti, in aperta o coperta disobbedienza al Papa e al Magistero della Chiesa.
Euforia spavalda, allegria sboccata. La visione immanentistica e panteistica porta l’idealista a credere che la pienezza della gioia non sia da rimandare a un mondo futuro al di là della morte, ma si trovi già adesso qui su questa terra. Per questo uno di loro dice: “tutto va bene così com’è”. Senonchè però egli non può ignorare l’esistenza del male e della sofferenza, anche se, finchè tutto gli va bene, egli gode più che può i piaceri della vita presente senza preoccuparsi di altro.
Ma giunge anche per l’idealista il momento della disgrazia e della sventura, a parte il continuo rimorso della coscienza per la sua superbia e la sua empietà: il “verme che non muore” (Mc 9,48). Egli, per non riconoscere di aver torto, affetta un comportamento spavaldo, sicuro di sé, una specie di atteggiamento di sfida, per non far apparire il suo interno tormento, che sarebbe l’unica dignità che gli rimane, la vera voce di Dio, rallegrandosi invece smodatamente delle banalità e delle stupidaggini del quotidiano. Così dà agli altri l’impressione della bontà delle sue idee, che in realtà cerca di accantonare appunto gettandosi nei piaceri del giorno. In particolare egli prova gusto nel far ciò davanti a suoi nemici, nella speranza di turbarli.
Tuttavia, al momento della sofferenza che Dio gli manda, l’idealista non ne approfitta affatto per pentirsi ed espiare, dato che per lui il sacrificio di Cristo è un “mito”, ma ha già pronta la spiegazione di quanto gli avviene: la sua visione dialettica della vita e della divinità, dove il bene è necessariamente ed eternamente connesso al male. La sofferenza non si toglie: si deve godere con essa e quasi anche per essa. E non perché si pensa al sacrificio di Cristo, ma perché è valida in se stessa. Come dice Nietzsche: “Danzare nell’inferno”.
Si tratta, come già diceva Hegel sulla scorta di Giordano Bruno, del “magico potere del negativo”, che fa scattare la molla del “progresso” e rende possibile l’attuazione della divina potenza dell’uomo. Infatti, come è noto, nella dialettica hegeliana l’identità non scioglie la contraddizione, ma esiste accanto alla contraddizione. Così per un idealista di oggi, Dio non annulla la sofferenza, ma esiste “accanto” alla sofferenza.
Ad ogni modo l’idealista cattolico pratica con circospezione una specie di esoterismo, un po’ come nelle società segrete, ossia, sul piano dei rapporti pubblici, con una condotta esternamente normale, mira ad attirare nella sua rete quegli incauti o quegli ambiziosi (pochi eletti), che aspirano alla sua “anagogia”, e che, colpiti dalla sua genialità, desiderano mettersi sotto la sua guida di maestro di mistica e mistagogo, e a salire verso le vette ineffabili della Sapienza suprema, del “Puro Pensiero”, dall’alto del quale – ecco lo gnosticismo – gli stessi dogmi del cattolicesimo appaiono come favole per bambini.
L’idealista deve regolarsi però con molta prudenza in questo suo procedere, perché deve saper dosare il momento nel quale può istillare il veleno e quello nel quale deve apparire un cattolico normale, così da non destar sospetti da una parte, ma dall’altra, poter attuare il suo diabolico piano.
Ipocrisia, empietà, doppiezza. Gli idealisti infiltrati nella Chiesa hanno così uno stile simile all’esoterismo della massoneria. Lavorano nei loro rapporti sociali su di un duplice piano: un piano esterno, sotto gli occhi di tutti, che nel linguaggio iniziatico si chiama, con antico termine che risale alla filosofia greca, “essoterico”. Su questo piano, al fine di procurasi la stima delle persone oneste e dei buoni cattolici, appaiono ortodossi e moralmente irreprensibili.
Ma in particolare, dato che a loro in fin dei conti non interessano i valori veramente onesti, ma semplicemente ciò che va di moda, onde attirare consensi, fingono di credere a quelli che sono i valori del nostro tempo che maggiormente attirano – per esempio, gli ideali del progresso, della libertà, del dialogo, del pluralismo, della tolleranza. Dopodichè si studiano di apparire perfetti modelli nell’attuazione di tali ideali, anche se intimamente non ci credono o li alterano a seconda dei gusti della gente. Ecco l’ipocrisia.
Sanno poi barcamenarsi molto bene, soprattutto se sono Superiori, fra i cattolici normali e i modernisti, senza far capire da che parte stanno, nella convinzione che agendo in tal modo sono al di sopra delle parti, favoriscono la pace e fanno contenti tutti, mentre in realtà non accontentano nessuno, lasciano che i prepotenti opprimano i deboli, che il Vangelo venga insultato, che Cristo venga bestemmiato, mentre non correggono gli errori né tolgano le ingiustizie. Ecco la doppiezza, compagna della viltà. Non sono “né freddi né caldi” (Ap 3,15).
Infine – la cosa peggiore di tutte – l’empietà. Il Dio dell’idealista non è il vero Dio trascendente del cristianesimo, ma è un falso Dio, che alla fine coincide con loro stessi ovvero, essendo immanente al mondo, senza i veri attributi divini (per esempio il “divenire” di Dio o la compresenza in lui di bene e di male), ricorda da vicino il “Dio di questo mondo”, del quale parla Cristo e che non è altro che il demonio.
Conclusione. Cristo ha fondato la sua Chiesa prevedendo in essa l’esistenza di peccatori e di scandali, ma anche dando ad essa, nella sua santità, gli esempi santi da seguire, i mezzi validi per purificarla. Essa non ha bisogno come altre società, di attingere al di fuori di sè i mezzi e gli obbiettivi delle sue riforme, ma, grazie alla presenza in essa dello Spirito Santo, ha sempre la forza di risollevarsi da qualunque decadenza e di ripararsi da qualunque pericolo. Non perdiamoci d’animo e da buoni cattolici non lasciamo che i modernisti ci distolgano dai nostri obbiettivi e facciamo uso di questi mezzi, che sono numerosi e che nella storia della Chiesa sempre si son mostrati efficaci e forieri di nuovo e luminoso progresso.
[1] Tale è il titolo di un famoso libro di K.Rahner, edito dalle Edizioni Paoline nel 1978, in chiara opposizione a quello che sarebbe stato pubblicato dall’Editrice Vaticana come Catechismo della Chiesa Cattolica.
[2] Vedi il famoso detto di Hegel: “Ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale”.
[3] Viene quindi negato il concetto tomista di verità come adaequatio intellectus ad rem. La verità, come dirà Kant, non è che “adeguazione del pensiero con se stesso”.
[4] Cfr Card.Giacomo Biffi, Il culto della verita’, ne Il Timone, Anno XIV,- Novembre 2012 , n. 117, pp.48-49 – (documento PDF – 610 KB) , oppure visitare il Sommario Il Timone.