Le inchieste di un bibliotecario di campagna

Non faceva che aprire e richiudere il suo taccuino. L’inseparabile taccuino, più che un feticcio, quasi un amico che portava sempre con sé, conforto solitario da quando aveva smesso di fumare ormai dieci anni prima. Ogni tanto lo toglieva dalla tasca della giacca o dei pantaloni e segnava le proprie riflessioni o copiava qualche apoftegma interessante, o qualche frase acuta che avrebbe voluto riciclare. Quella mattina, la brezza odorosa della riva istriana lo aveva reso irrequieto, sarà stato lo sciabordio delle onde sui sassi, sarà stato l’ondeggiare dei bassi rami di pino marittimo che coprivano in un moto alternato la vista dell’orizzonte, quasi potesse presentarsi una nave corsara e passare oltre il capo senza esser notata.

Così lo apriva, puntava la matita, poi lo riponeva. Come il peccato, il taccuino nero stava lì, sul tavolino di vimini, a fianco della caraffa gelata. Il solo vederlo gli procurava un pensiero costante, per quanto non ossessivo, solo sembrava come Dio, eterno. Voleva scrivere. Il racconto giallo che aveva in cantiere non procedeva speditamente come avrebbe sperato.

«Canticchiava il vecchio Domagoj mentre il sole era già alto sulle alpi dinariche. La caccia era stata buona quella mattina, due coturnici erano ancora tiepide nel carniere. Così canticchiava Domagoj:

– E i dodici cugini di buona famiglia
mai disgiunti né poi ricongiunti,
uscirono a caccia sul Lička Plješevica,
e uno disse alla moglie Nika:
così finì quella buona famiglia,
non per odio, né per vendetta,
ma per celia di qui volarono, come quaglia
la distrazione è già morte in vetta.
Mai disgiunti, nel crepaccio, ricongiunti».

Il guaio era che il signor Matej, modesto bibliotecario di campagna, non sapeva scrivere – o almeno così credeva. Se ne stava al bar della spiaggia, davanti al suo taccuino e al corrispettivo slavonico della birra, chiedendosi perché si fosse intestardito con quella storia, che sembrava ora troppo più grande di lui. Troppo oltre le proprie capacità.

Perché scrivere, Matej Dončić, quando hai un buon posto statale, retribuito il giusto, alla famiglia il pane non manca, e nemmeno il vino? Tutto sommato, accontentati, è pur sempre meglio che lavorare. Rimuginava spostando lo sguardo con soddisfazione quasi coatta qua e là intorno al bar. Ora, definirlo bar era un’esagerazione romantica, una storia romanzata degna di un idealista sognatore. Più che altro era un chiostro di legno male in arnese, anche se l’insieme spartanamente ben armonizzato col paesaggio circostante dava un senso rassicurante di compiutezza. E poi, da dove era seduto si vedeva, nell’intera curva di una delle magnifiche baie di Premantura, la spiaggia. La spiaggia era una pietraia. Ma il mare, il mare laggiù sembrava toccare la terra come il vertice d’angolo della serenità. Un trasparente e languido specchio d’acqua turchese che scivolava nel blu più intenso senza prendersi la briga di attraversare le diverse gradazioni di colore.

Era una giornata di quelle che possono capitare in agosto, con il sole cocente del meriggio che viene d’un tratto coperto da nuvole bigie che fanno del mare una lastra argentata e si rimane incantati. Matej si risvegliò dall’incanto naturale sentendo le prime gocce fresche di pioggia sulla pelle accaldata delle braccia scottate. Forse era per questo motivo che aveva lasciato moglie e figli sulla pietraia, per prendersi una pausa dalle vacanze.

Vedere dal seggio dove stava, in realtà un trono di bancali industriali ridipinti verde pisello, i propri figli giocare in mare lo riempiva di gratitudine. Osservava il piccolo Ilija ora sbracciare ora penzoloni sulle spalle del maggiore, Tomislav, entrambi in acqua come una creatura fantastica brillante e vivace, una metafora della storia umana se l’uomo non fosse stato una creatura tanto idiota. Ormai il cielo si era abbassato e i suoi figli si ergevano felici in una lastra increspata di piombo liquido che arrivava all’orizzonte e il bibliotecario dimenticò per un attimo il chiasso volgare dei turisti italiani, con le loro pance da bancari in vacanza, attenti solamente a consumare il più possibile la vita, nell’illusione del divertimento più forte, nell’oblio del ritorno in ufficio, nella disperata felicità che ostentavano come le effimere abbronzature a olio.

Si era distratto da tanta bellezza naturalistica e da tanta miseria umana per riflettere, non sapeva perché, anzi lo sapeva, come sapeva che l’ultimo goccio birra era ormai caldo, sul fatto che suo padre era morto come un idiota, scivolando mentre raccontava una barzelletta ancora più idiota su un sentiero di montagna. Come i dodici cugini della canzone narrata nella storia che stava scrivendo. La cosa gli procurava un dolore enorme. Ma i suoi figli erano là, questo contava.

Erano là, davanti al mare, davanti al mondo, davanti ai suoi occhi e davanti a quelli di Dio. Era l’unica cosa che contava in quel momento.

Lo annotò sul suo taccuino, insieme con la frase: «la morte arriva come arriva la vita, sottovalutare la potenza dell’una o dell’altra è da idioti. Ma molto comune».

(Continua)

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