LE LACRIME DEGLI IPOCRITI. PRIMA DISOBBEDIVANO AL PAPA, ORA PIANGONO PER LA SUA RINUNCIA – di Giovanni Lugaresi

di Giovanni Lugaresi

 

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Rolando Rivi, martire a soli 14 anni. Nelle giornate terribili della guerra civile e dello scatenamento comunista, non volle vestire in borghese, anche se sapeva che indossare la talare era un rischio mortale. Non volle rinunciare alla veste che era il segno evidente della vita consacrata a Cristo. Dopo terribili sevizie, fu denudato e volle baciare la veste prima che i suoi carnefici lo uccidessero. Un giovinetto seminarista è divenuto un edificante esempio per tanto clero incerto e pavido. Piane di Monchio, 13 aprile 1945.

 

 

La situazione è grave ma non è seria, per dirla alla Leo Longanesi. Infatti, che senso può avere tutto il piagnisteo che si è levato e continua a levarsi dall’orbe cattolico per la rinuncia di Joseph Ratzinger al pontificato, da parte degli stessi che hanno disatteso e che continuano a disattendere le sue disposizioni, le sue esortazioni?

Non passa Messa festiva cui assistiamo, un po’ dovunque in chiese italiane, infatti, nelle quali non si tocchi con mano, per così dire, la disobbedienza al Papa.

Vale poco o punto infatti scagliarsi contro i media e contro il mondo profano per dire che essi inventano motivi, cause, della decisione di Benedetto XVI che nulla hanno che fare con la realtà, quando le “chiacchiere” sono nate e han cominciato a diffondersi proprio nel mondo clericale.

Un esame di coscienza (poco) reverendi preti, no?

Non più tardi di un mese fa, un sacerdote non più giovane, di fronte alle rimostranze di un laico perché si continuava a dare la particola consacrata sulle mani dei fedeli, mentre il Papa aveva esortato a conferirla sulla lingua e con i fedeli stessi in ginocchio, negava che Benedetto XVI avesse esortato in tal senso, talché il laico in questione non aveva trovato di meglio che navigare su internet (come si dice), trovare i documenti ad hoc, stamparli e spedirli al negatore!

Ancora: la sorpresa nel vedere uscire da un confessionale sacerdoti vestiti in borghese, quando in chiesa si dovrebbe (loro, i preti dovrebbero saperlo per primi) indossare la veste talare o il clergyman.

Anche qui, sappiamo bene che nessuna “liberalizzazione” sull’abito è venuta dal Papa, né dai suoi predecessori, anzi. E l’accento su questo aspetto del clero del nostro tempo l’ha posto recentemente Vittorio Messori in un lungo, articolato scritto, sul Corriere della Sera.

Fra le altre osservazioni del grande scrittore cattolico infatti, sentite questa: “A proposito di clero, di disciplina, di quella che fu un tempo la virtù dell’obbedienza: prendiamo un aspetto che sembra minore – quello dell’abito ecclesiastico – ma che ha in realtà un significato esemplare. Il nuovo Codice di diritto canonico, riscritto secondo le indicazioni del Vaticano II, recita, al canone 284: ‘i chierici secolari portino un abito ecclesiastico decoroso, secondo le norme emanate dalla Conferenza Episcopale del luogo’. E, per i membri di ordini e congregazioni, prescrive al 669: ‘I religiosi portino l’abito dell’istituto, fatto a norma del diritto proprio, quale segno della loro consacrazione e testimonianza di povertà’. Il Concilio stesso aveva ammonito di non abbandonare questo ‘segno’ di consacrazione sul quale, tra l’altro, Giovanni XXIII era rigorosissimo, imponendo al suo clero, nel Sinodo Romano che precedette il Vaticano II, la sola talare nera dai molti bottoni e vietando persino il clergyman. Ebbene: prima Paolo VI, poi Giovanni Paolo II, infine Benedetto XVI hanno moltiplicato le esortazioni, gli inviti, gli ordini, i rimbrotti, ma il risultato è sempre l’armata Brancaleone dei sacerdoti (vescovi, non di rado, compresi) abbigliati ciascuno secondo l’estro proprio. Dal completo da manager, al giubbotto da metalmeccanico, sino agli stracci ben studiati da clochard-filosofo: comunque, sempre indistinguibili dai laici. La raccomandazione di un Concilio Ecumenico e le ripetute disposizioni disciplinari di quattro papi non sono riuscite ad ottenere alcun ascolto, spesso neppure dalla gerarchia episcopale”.

Non è una questione secondaria, una questione dappoco. Infatti, Messori sottolinea con forza: “dietro il rifiuto dell’abito religioso vi è una teologia, vi è la negazione protestante di un sacerdozio ‘sacrale’, che distingue il prete dal credente comune; vi è il rigetto della prospettiva cattolica che, col sacramento dell’ordine, rende un battezzato ‘diverso’, ‘a parte’. Il sacerdote non come testimone del Sacro, non come ‘atleta di Dio’ (l’immagine è di San Paolo) in lotta per la salvezza dell’anima propria e dei fratelli contro le Potenze del male, bensì un uomo come gli altri, distinto semmai solo dal maggiore impegno socio-politico…”. E ci fermiamo a questo aspetto della realtà (di parte della realtà) cattolica.

Non diversamente, sull’importanza dell’abito, d’altro canto, ci eravamo espressi in altri interventi, definendo certi abbigliamenti come “da fighetti” o “da sensali al mercato”.

Messori mette il dito su una delle piaghe caratterizzanti preti e religiosi del nostro tempo. Che incominciano a voler vestire come ”gli altri”, per non sentirsi “diversi”, ma che poi in altri àmbiti “diversi” si considerano, eccome. Prendiamo il potere esercitato per esempio dai parroci alla faccia del ruolo dei laici tanto sbandierato. Ecco: nella liturgia, ampio (troppo) spazio ai laici, ma nella conduzione delle cose pratiche, materiali, della comunità, i cordoni della borsa, per esempio, li tengono ben stretti i preti! Che non possono portare la Comunione a un malato (ci mandano una donna qualsiasi), ma possono invece occuparsi della organizzazione di giochi, sagre, costruzioni varie. Il primato del Sacro passa in secondo piano. E certo: se un parroco deve occuparsi di tante cose pratiche, non avrà tempo per dedicarsi a quelle sacre.

Tutto questo fa a pugni con quella che un tempo era considerata e veniva definita missione sacerdotale e con le caratteristiche di tanti sacerdoti che abbiamo incontrato nella nostra (ormai lunga) esistenza. Eran preti, eran religiosi all’insegna di quelle che abbiamo definito le due P: Preghiera, Penitenza – oggi sostituite dalle due V: vanità, venalità. Ma vedendo quel che accade, c’è un’aggiunta da fare. Un tempo il clero cercava la santità e ci esortava in tal senso. Adesso? Cerca le… comodità, la vita agiata! Il che significa che si sta mondanizzando, anziché cristianizzare il mondo. Brutto segno.


 

questo articolo è stato pubblicato anche su:

La Voce di Romagna, 28 febbraio 2013

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