L’eresia e/o l’ottimismo infondato
di Piero Vassallo
Per ricostruire il cammino sotterraneo che va dal modernismo al progressismo, è indispensabile rammentare l’allarme lanciato da San Pio X attraverso il motu proprio Sacrorum Antistitum, un documento pubblicato tre anni dopo la solenne sconfessione e condanna delle infondate e avventurose teorie modernistiche.
Papa Sarto, infatti, metteva in guardia i vescovi cattolici, svelando l’insidia costituita dalla nuova strategia degli eretici: “I modernisti, anche dopo che l’enciclica Pascendi Dominicis gregis ha tolto loro la maschera, non hanno abbandonato i loro propositi di turbare la pace nella Chiesa. Infatti essi non hanno smesso di ricercare nuovi adepti e di riunirli in una società segreta. … Essi sono avversari tanto più temibili quanto più vicini”.
Mentre i modernisti usciti allo scoperto, ad esempio Alfred Loisy ed Ernesto Bonaiuti, allontanandosi dalla Chiesa cattolica riversavano la loro confusione ruggente nei circoli del socialismo ateo, i modernisti più scaltri e coperti mettevano la maschera dell’ortodossia, per compiere indisturbati la semina di verità dimezzate, suggestioni devianti e stati d’animo febbrili.
L’eresia modernista, che aveva esordito con squilli di trombe trionfali, si appiattì sulla figura dell’eresia nascosta, minimalista e ipocrita e perciò insidiosa.
Gli errori, un tempo proclamati apertamente, discesero nell’area umbratile dei dubbi striscianti in mezzo alle verità dimezzate dall’untuosa docilità, al fine di rassicurare e illudere la gerarchia.
Negli scritti degli eretici nascosti circolava, accompagnato da tortuose professioni di fedeltà e ortodossia, il pregiudizio che aveva nutrito i modernisti, ossia la tesi sull’evoluzione inarrestabile del pensiero umano.
Piero Nicola, autore del robusto saggio L’ottimismo ereticale, uscito in questi giorni dai torchi di Solfanelli editore in Chieti, dimostra appunto la presenza, negli scritti pseudo-mistici di Pierre Teilhard de Chardin e nei commenti del garante Henri De Lubac, di errori discendenti, per sentieri obliqui, dall’evoluzionismo, dal materialismo e dal collettivismo.
La definizione dell’errore soggiacente alla mistica teilhardiana è stata formulata magistralmente da Pio XII nell’enciclica Humani generis: “Alcuni senza prudenza né discernimento, ammettono e fanno valere per origine di tutte le cose il sistema evoluzionistico pur non essendo esso indiscutibilmente provato nel campo stesso delle scienze naturali e con temerarietà sostengono l’ipotesi monistica e panteistica dell’universo soggetto a continua evoluzione“.
Opportunamente Nicola cita un brano in cui la stralunata e bizzarra dottrina di Teilhard è oggetto da un commento di De Lubac, teologo illuminato dal sole dell’avvenire collettivista: “Per lui [Teilhard] zoologicamente e psicologicamente parlando, l’Uomo considerato infine nell’integrità cosmica della sua traiettoria, è ancora a uno stato embrionale, oltre il quale già si profila una larga falda di Ultra-umano. … L’ominizzazione ci ha quindi gettato sull’oceano di un avvenire immenso, in cui non c’è più arresto possibile prima dell’apparizione di un Centro unico della Noosfera. … La nostra specie tende a costituirsi in un sistema chiuso, vero superorganismo, in cui la pluralità delle riflessioni individuali si raggruppa e si rinforza nell’atto di una Riflessione unanime“.
Negli scritti teilhardiani, filosofia e teologia latitano. Lo sguardo acuto del cardinale Alfredo Ottaviani vi aveva visto l’irruzione di una fantasia incontrollata: “Teilhard non è un teologo, ma un poeta che fa teologia e talvolta è un panteista che identifica Gesù con il cosmo volendo naturalizzare il soprannaturale”.
Nella dottrina teilhardiana sono ben visibili le apertura alla mitologia comunista intorno al progresso del genere umano verso gli orizzonti dell’ateismo e del collettivismo.
Teilhard, e al suo seguito i cattolici progressisti, anziché riflettere sugli orrori del comunismo, spalmavano sull’ideologia del gulag i colori soavi di un ottimismo pseudoteologico irriducibile alla visione della realtà.
Il delirio teologico teilhardiano diventò il battistrada di un ottimismo diffuso anche in ambienti non contagiati dall’eresia modernista. Nella chiesa cattolica si diffuse un ottimismo infondato, che suggeriva addirittura la contemplazione del progresso spirituale in atto nel vertice dell’apostasia moderna.
Trasportato dalle ali dell’ottimismo galoppante Jacques Maritain, pensatore fino ad allora non iscritto al club delle fughe in avanti, nel saggio À travers la victoire, sostenne senza imbarazzo che “Lo spirito della Resistenza ha modellato tra gli uomini della rivoluzione e quelli della speranza cristiana vincoli d’intesa e di collaborazione, che, liquidando i vecchi pregiudizi, hanno aperto la strada ad una nuova democrazia”.
Nel giro di pochi anni il miraggio di una città terrestre costituita a somiglianza della città celeste generò gli entusiasmi dei novatori rampanti nel Concilio Vaticano II.
Di qui una pastorale paciosa e sognante, che padre Giovanni Cavalcoli o. p. definisce “venata qua e là da atteggiamenti un po’ ingenui, un po’ troppo indulgenti, ottimisti e a volte anche troppo generici e superficiali nell’evidenziamento e nella messa in guardia contro mali, vizi ed errori pur sempre presenti anche negli uomini e nelle società del nostro tempo”.
Piero Nicola porta agli estremi il giudizio critico sull’ottimismo professato da Giovanni XXIII e sostiene l’influsso dell’eresia modernista nella dottrina del Vaticano II.
La strutturale ereticale della teologia professata da alcuni padri conciliari (ad esempio Karl Rahner ed Eduard Schillebeeckx) è sostenuta da numerosi e autorevoli teologi.
A nostro avviso, invece, l’influsso dell’eresia modernista non è visibile nella dottrina affermata solennemente da Concilio, in continuità con la Tradizione.
La soluzione dei dubbi intorno al Vaticano II, pertanto, si trova nella severa revisione della pastorale, in cui sono visibili i segni di un ottimismo in conflitto aperto con la realtà.
La pastorale che contemplava il dialogo con il regime comunista trionfante, ad esempio, si rivela ridicola nella stagione presente, che è segnata dal completo fallimento dell’ideologia comunista.
Insieme con la revisione della pastorale sembra altresì urgente un’aperta sconfessione delle sconclusionate teorie di Teilhard, De Lubac, Rahner, Schillebeeckx.
Il drastico rifiuto e il bombardamento a tappeto del Vaticano II e la sconfessione dei successori di Pio XII, proposto invece dai sedevacantisti, non risparmierebbe la dottrina sull’origine divina dell’autorità cattolica e perciò aprirebbe un varco proprio al disordine che i sedevacantisti intendono evitare, ossia all’opposizione democratica alla gerarchia e la contestazione del primato petrino.
Ha scritto il cardinale Ottaviani: “Chi vuol essere una pecora di Cristo deve essere condotto al pascolo da Pietro che è il Pastore. Non sono le pecore [i vescovi] che devono dirigere Pietro, ma è Pietro che deve guidare le pecore [i vescovi] e gli agnelli [i fedeli]”.
Opposizione che Paolo VI, in sintonia con il cardinale Ottaviani, ha stroncato pubblicando la nota previa al documento sulla collegialità.
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