L’ERMENEUTICA DELLA RIFORMA : DISCONTINUITÀ DEL CONCILIO NELLA CONTINUITÀ? (secondo capitolo) – di Paolo Pasqualucci

di Paolo Pasqualucci

secondo capitolo

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4. I Martiri sono morti per render gloria a Dio e convertire i pagani, assai più che per la “libertà religiosa”. Bisogna quindi accertare se le testimonianze rimasteci dei primi Martiri mostrino in loro il desiderio di sacrificarsi per la libertà religiosa nel senso moderno del termine, per tutti e per tutte le religioni, come diritto universale della persona. Rileggendo gli Atti e le Passioni dei Martiri non si trova però traccia alcuna, a mio avviso, di riferimenti a siffatta “libertà”. Si ha anzi l’impressione che ai Martiri, che sembravano letteralmente posseduti dallo Spirito Santo, di questa famosa libertà importasse assai poco. Non voglio dire, con questo, che non sarebbero stati contenti di goderne. Non sono Donatista. Voglio solamente dire che nella loro testimonianza la sua rivendicazione resta generalmente implicita, come se costituisse un elemento secondario. Importava loro, soprattutto, non cadere nel grave peccato di apostasia. La morte era consapevolmente accettata e persino invocata per render gloria a Dio e come sacrificio per la conversione del mondo pagano. “Potessi io persuadere voi a farvi cristiani!” gridava alla folla persecutrice il martire Pionio mentre veniva condotto al supplizio, respingendo l’invito pressante ad abiurare per salvarsi la vita*1.

La religione cristiana, in quanto unica vera, perché l’unica sicuramente rivelata, era incomparabile (oltre che incompatibile) con le altre. Battersi per l’universale libertà di coscienza in religione avrebbe significato metterla sullo stesso piano delle altre, tutte false perché non rivelate da Nostro Signore. Esse non venivano da Dio ma dagli uomini, in particolare il paganesimo, impestato dal Demonio (Salmo 96, 5; 1 Cr 10,20). I Martiri volevano la libertà di martirio, di morire per la loro fede, e sembravano disinteressarsi completamente della libertà di professarla come una religione uguale alle altre, tra le altre. Quando S. Perpetua, condotta con gli altri a morire nell’Arena di Cartagine, vide che per dileggio e per farli in qualche modo apostatare volevano far indossare a tutti loro indumenti usati nelle iniziazioni ai misteri pagani, esclamò, ottenendo il contrordine: “Siamo giunti al martirio spontaneamente, proprio perché la nostra libertà non venisse incatenata (ne libertas nostra obduceretur); abbiamo rinunciato alla nostra vita proprio per non esser costretti a fare cose simili: questo era il patto che avevamo concordato [con le autorità]”*2. Quale libertà temevano venisse loro conculcata, quella “religiosa”, di “culto”, da riconoscersi per di più su di un piano di parità anche alle false religioni? No: era la libertà di poter correre subito con tutta l’anima e persino con gioia verso Cristo Risorto, grazie al “battesimo di sangue”!

Se poi guardiamo alla letteratura apologetica, non mi sembra che il quadro subisca mutamenti sostanziali. Gli Apologisti si preoccupavano soprattutto di dimostrare la vacuità e l’assurdità delle infami calunnie diffuse sui cristiani (“ateismo, cene tiestee e unioni edipodee” nelle parole di Atenagora), dimostrando la falsità del politeismo, le ipocrisie di chi li voleva giudicare, la dignità e l’onestà della loro religione; rivendicando la loro fedeltà all’impero, in quanto governo civile giusto ed efficiente, purché non pretendesse di usurpare gli attributi di Dio*3. Non mi sembra che gli Apologisti presentino i cristiani in generale quali vittime della mancata libertà di parola e di coscienza o i martiri quali caduti nella lotta per questo tipo di libertà. Di essa non troviamo traccia nella breve esortazione Ad Martyras di Tertulliano. La libertà di parola, per la mentalità romana, era da attribuirsi a chi possedesse auctoritas: non c’era il concetto moderno di un diritto universale della persona in quanto tale a siffatta libertà e pertanto a quella di manifestare comunque la propria fede religiosa, con l’obbligo da parte dello Stato di garantire tale manifestazione*4.

Che significato bisogna dare, allora, al riferimento alla “libertas religionis” negata ai cristiani, che ritroviamo in un noto passo di Tertulliano? A mio avviso, il riferimento del grande apologista più che a rivendicare un diritto mira a far vedere le contraddizioni della legislazione imperiale in materia. Ma come, esclama, voi ci perseguitate già solo per il nostro nome, mettendoci brutalmente di fronte all’alternativa: abiura o condanna (e spesso a morte); non ci lasciate esporre il vero contenuto del nostro credo, che è quello della fede nel vero ed unico Dio; voi vi preoccupate di “sopprimere la libertà religiosa” (adimere libertatem religionis) nei nostri riguardi mentre autorizzate tutte le religioni possibili ed immaginabili, tant’è che “è stato permesso agli Egiziani di praticare la loro fatua superstizione che è tutta nella celebrazione di uccelli e bestie, condannando a morte chiunque si renda reo di soppressione di uno qualsiasi di questi dèi. Non c’è provincia, non c’è città che non abbiano il loro dio: per la Siria Atargatis, per l’Arabia Dusares; per il Norico Beleno, per l’Africa Celeste, per la Mauritania i suoi reucci”. E nei municipi italiani, troviamo “Delventino a Cassino, Visidiano a Narni, Ancaria ad Ascoli, Norzia a Bolsena, Valenzia a Otricoli” e chi più ne ha più ne metta. “Solo a noi si contesta il diritto di una religione propria! (Sed nos soli arcemur a religionis proprietate!)”. Si arriva così all’assurdo che voi ammettete “il diritto di adorare chi si vuole fuorché il vero Dio, quasi questi non fosse piuttosto l’Iddio di tutti perché tutti siam suoi”*5.

Pur essendo qui evidente una rivendicazione implicita al riconoscimento della libertà di culto anche per i cristiani, che certo (ripeto) sarebbero stati lieti di vedersela attribuire, lo spirito che la informa non è sicuramente quello moderno della rivendicazione di un diritto universale della persona e quindi da riconoscersi a tutte le religioni. A Tertulliano preme soprattutto far vedere l’assurdità di una legislazione che permette libertà di culto a tutte le religioni, anche le più strane, e a tutti i culti del genius loci, mentre vieta l’unica dedicata al vero Dio e quindi intrinsecamente superiore a tutte le altre. Il suo rilievo sembra in realtà costituire un’ulteriore rivendicazione della superiorità assoluta del Cristianesimo, non una rivendicazione di una libertà religiosa uguale per tutti. È questa superiorità, che gli deriva dalla sua intrinseca, assoluta verità di unica religione rivelata da Dio, a rendere meritevole il Cristianesimo del riconoscimento di religio licita (che fu poi accordato tra il 311 e il 313).

Ma i “primi cristiani”, secondo il prof. Rhonheimer, si limitavano a richiedere “la libertà di poter confessare la loro fede senza esser vessati dallo stato”, senza “rivendicare la promozione da parte dello stato della verità religiosa”, facendo di fatto valere l’esigenza di una “libertà di coscienza” che “corrisponde esattamente” al modo nel quale la si intende oggi*6. E si limitavano a questo perché “a partire dal Vangelo e dall’esempio di Gesù Cristo”, il Cristianesimo “è stato concepito come fondato essenzialmente sulla separazione tra religione e politica”*7. Ma anche nei cristiani poco inclini al martirio dobbiamo sempre presumere la stessa convinzione di Tertulliano: che solo la loro religione fosse l’unica vera e che a questa, secondo il dettato evangelico, tutto l’orbe dovesse esser convertito, evidentemente a scapito delle altre, frutto di testarde apostasie o di perniciose superstizioni, onde la libertà di culto ad essa eventualmente concessa mai avrebbe potuto avere il significato che già aveva per le altre. E ciò a prescindere dalla “promozione” della verità religiosa da parte dello Stato. Ma si può dire che i primi cristiani si disinteressassero del rapporto tra Stato e religione, accontentandosi di ottenere il libero esercizio del loro culto da parte di uno Stato che si mantenesse neutrale ed imparziale in materia? Se rileggiamo un famoso passo di Tertulliano, non vi troviamo già inevitabilmente l’ipoteca cristiana sullo Stato?

5. I primi cristiani già miravano a convertire lo Stato. Respingendo l’accusa di “lesa maestà” per via del rifiuto a sacrificare per l’imperatore, Tertulliano replica che i cristiani pregano per l’imperatore invocando su di lui la protezione del vero Dio, che gli ha conferito la sovranità per il bene dei popoli. Gli imperatori “sanno molto bene chi ha loro conferito l’impero”. E ognuno di loro deve capire che “è sovrano in virtù di colui da cui dipende come uomo prima che come imperatore; la potestà gli viene là donde gli viene pure l’anima”*8. I cristiani dunque possono dire, con pieno diritto: “Cesare è più nostro che vostro, perché è il nostro Dio che l’ha costituito come tale”*9. Ma che significa ciò se non auspicare da parte degli imperatori la presa di coscienza della giusta origine divina del loro potere; presa di coscienza che poteva aver luogo solo mediante la loro conversione a Cristo? La missione di convertire tutti i popoli e le nazioni, e non solo Israele, ordinata da Cristo risorto (Mt, 28, 18-20), non poteva certo limitarsi alla coscienza individuale dei privati: essa doveva necessariamente investire anche i governanti, in quanto individui preposti al bene dei popoli, e quindi mirare a render cristiano il governo dello Stato. E uno Stato cristiano avrebbe potuto limitarsi ad una posizione neutra ed equidistante nei confronti della vera religione, senza promuoverne gli insegnamenti nella società, a cominciare da quelli morali, e senza difenderla dall’attacco delle eresie, corruttrici delle anime e dei costumi, e in generale da ogni tipo di ostilità e pericoli? Mi sembra pertanto assai poco credibile fare dei primi cristiani una sorta di liberali ante litteram, preoccupati soltanto della libera manifestazione del loro particulare confessionale, nel rispetto della “libertà religiosa” altrui, garantita dallo Stato.

6. Il significato dottrinale delle condanne preconciliari. E vengo ora al modo nel quale l’Autore, proseguendo nel suo commento al pensiero del Pontefice, espone le ragioni delle condanne preconciliari della “libertà religiosa”. Infatti, perché Gregorio XVI e Pio IX, “per non citare che questi due papi, avevano identificato il fondamentale diritto alla libertà di religione, di coscienza e di culto del cittadino moderno con una negazione della vera religione”? Perché “essi non potevano immaginare che una verità religiosa e una vera Chiesa potessero esistere senza che quest’ultima non fosse anche sostenuta dallo stato e dalla politica, e rispettata dal diritto civile. In effetti, un gran numero dei loro avversari liberali rivendicavano la libertà di religione presentando l’argomento esattamente contrario: una tale libertà è necessaria perché non c’è affatto una verità religiosa”*10.

L’accenno dell’Autore al nucleo filosofico e teologico della dottrina preconciliare, merita ulteriori approfondimenti. Per i Papi, infatti, non si trattava di difendere “una verità religiosa” ma “la verità religiosa”, l’unica autentica verità perché rivelata da Nostro Signore Gesù Cristo, consustanziale al Padre, seconda Persona della Santissima Trinità. I liberali, più ancora che negare l’esistenza “di una verità religiosa”, negavano la possibilità stessa dell’esistenza di una verità assoluta, sulla fede e sui costumi, come quella costituita appunto dalla Verità Rivelata. Ciò era conforme alla loro nozione soggettivistica della verità, cui non conferivano un sicuro fondamento oggettivo fuori di noi, dipendendo essa sempre (dicevano) dai nostri sensi e dal concetto elaborato dalla nostra mente e pertanto dalla nostra opinione, dal nostro modo di sentire. Per i liberali, la S. Bibbia era (ed è) nient’altro che mitologia, allo stesso modo, per dire, del Rig Veda. Tra Cattolicesimo e Liberalismo c’era (e c’è) un contrasto insanabile nel modo di intendere la verità e per conseguenza la libertà. Il soggettivismo e relativismo del punto di vista liberale privilegiava la “libertà” intellettuale, morale e pratica del soggetto, dandole un valore assoluto, prevalente sulle esigenze della verità, che non potevano mai esser tali da impedire quella libertà (veritas ancilla libertatis, potremmo dire: della libertà incondizionata del nostro io, condizionata solo da esigenze esterne quali la correttezza contrattuale, l’ordine pubblico e la pace sociale). Il punto fu colto egregiamente da Leone XII nella Mirari vos (1832). Egli sottolineò come l’indifferentismo, che metteva sullo stesso piano tutte le religioni, fosse figlio della “libertas opinionum” proclamata dalla coscienza moderna, noncurante dell’ammonimento di S. Agostino: “At quae peior mors animae, quam libertas erroris?”*11. Il fatto è che, per la coscienza moderna, “l’errore” non esiste, negando essa assurdamente l’esistenza di una verità oggettiva, tanto più se assoluta, perché di origine sovrannaturale. Le condanne preconciliari della “libertà religiosa” riposavano dunque su di un solido nucleo dottrinale, ad un tempo metafisico e teologico. Non erano semplici “provvedimenti disciplinari”, come ha sostenuto qualcuno*12. “Per Pio IX era in pericolo la salvaguardia stessa dell’essenza della Chiesa, della sua rivendicazione di essere l’unica verità e causa di salvezza”, essendo negata tale rivendicazione dall’indifferentismo e relativismo religiosi*13. Mantenendo nel deposito della fede la verità assoluta che è la Verità Rivelata, la Chiesa ­­ è necessariamente l’unica “causa” della Salvezza e fuori di essa non si dà salvezza (tranne – ricordo – nei casi individuali di Battesimo di desiderio, implicito o esplicito, perché gli uomini giusti e pii che senza colpa non conoscono la vera religione, non vanno in perdizione)*14.

 

 

(segue)

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NOTE


(1) Atti e passioni dei Martiri, nell’ edizione critica apparsa nella collana della Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano, 1995³, p. 167. Dichiararsi cristiano significava rischiare la condanna a morte, se non si abiurava sacrificando agli dèi del culto ufficiale o per o all’imperatore. Ma compiere questo sacrificio significava appunto apostatare, violare il Primo Comandamento.

(2) Ivi, p. 141.

(3) ATENAGORA, Supplica per i cristiani, tr. it. introd. e note a cura di P. Gramaglia, Ed. Paoline, 1965, p. 36, per le calunnie. Sembra che queste mostruose falsità trovino ancora largo credito tra le plebi musulmane. Ma le calunnie più incredibili investono di nuovo il Cattolicesimo in Occidente grazie alle campagne mediatiche organizzate sulla scorta di romanzi d’accatto, che sembrano scritti con il preciso scopo di attaccare la nostra religione, quali il tristemente noto: The Da Vinci Code, dell’americano Dan Brown.

(4) Sul nesso libertà di espressione-autorità, cfr. : A. MOMIGLIANO, La libertà di parola nel mondo antico (1971), ora in ID., Sesto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Ed. di Storia e letteratura, Roma, 1980, pp. 403-36; p. 432. Sottolinea inoltre l’illustre Autore: “Per quel che ne so, nessuno presentò la disputa pro o contro il cristianesimo come una questione che coinvolgesse il principio della libertà di parola” (ivi, p. 433). La libertà di parola è sempre stata considerata aspetto essenziale della libertà di coscienza e religiosa nel senso moderno del termine.

(5) Apologeticum, 24, tr. it. con testo a fronte di E. Buonaiuti, introd. revis. e commento di E. Paratore, Laterza, 1972, pp. 150-3.

(6) ER, ed. it., p. 4.

(7) Ivi, p. 11.

(8) Apol., 30, ed. cit. pp. 175-7.

(9) Ivi, 33, pp. 181-3.

(10) ER, ed. it., p. 4.

(11) DS, 2731.

(12) ER, p. 10, ed. it.

(13) Ivi.

(14) Rm 2, 9-16; Civ. Dei, I, XXXV; Denz.-Stahl, 1504 (Alloc. di Pio IX Singulari quadam del 9.12.1854); Denz.-Schönmetzer, 3866-3873 (Epist. del S. U. dell’8.8.1949 che condanna il rigorismo).

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