Lettera aperta al Magnifico Rettore dell’Università di Padova – di Patrizia Fermani e Elisabetta Frezza

“Promuovere il linguaggio di genere”

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Ci informa il Corriere del Veneto di sabato 16 dicembre che è stato pubblicato il “bilancio di genere” dell’Ateneo di Padova, di cui tutti sentivamo fortemente la mancanza. È stato realizzato dalla “task force” della prorettora alle Relazioni di genere, la professora Annalisa Oboe, della cui preziosa opera Ella si avvale.

I dati emersi tratteggiano un quadro particolarmente fosco: «le cattedre parlano al maschile» (per non dire fischiano). Infatti, a fronte di una preponderanza numerica delle utenti di genere femminile e dei loro migliori risultati scolastici, si registra una loro minore presenza accademica. Anche se la stessa Sua prorettora ammette che, in un dipartimento in controtendenza come quello dei Beni culturali, le quote rosa sono schiaccianti; qui dunque, per fortuna, i cattedri parlano al femminile.

Ora, un intervento urgente e imprescindibile per sanare tali squilibri strutturali – ci dicono – sarebbe quello di «promuovere il linguaggio di genere».

E infatti la signora Oboe, quando ha assunto l’incarico di diffondere tra gli alunni delle elementari padovane la conoscenza di Tito Livio, si è subito accorta che nel doppio nome maschile dell’illustre storico era presente una eccessiva concentrazione di “genere”, e ha pensato bene di sdoppiarlo in «Tito e Livia».

D’altra parte, l’Università che si fregia di averLa quale Rettore Magnifico ha ospitato a fine novembre, nella Aula Magna, un imperdibile convegno sulle problematiche del “linguaggio di genere”, sempre organizzato dalla Sua alacre prorettora. Tali problematiche, in effetti, interessano da vicino la cittadinanza specialmente ora che, appunto in omaggio al “genere”, in asili nido comunali i bambini di sesso maschile vengono già truccati col rossetto e messi sui tacchi per abituarli al “rispetto delle differenze”.

Le prime relatrici del grande evento, tutte munite di autorità accademica o politica, hanno sviscerato a lungo i due (unici) concetti chiave di quello che è un intero pregnante orizzonte culturale.

Il primo concetto, di tipo per così dire fattuale, è il seguente: la lingua italiana appare gravemente deficitaria laddove non si articola in modo adeguato a rappresentare la parte femminile della popolazione. Un esempio che taglia la testa al toro (in senso letterale) sarebbe il caso del maschile generico, come l’impersonale “tutti”, in cui le tutte scompaiono e non possono dire la loro. La situazione si farebbe poi drammatica – secondo le brillanti conferenziere – quando termini che indicano libere professioni di prestigio e altrettanto prestigiosi incarichi amministrativi o istituzionali sono declinati soltanto al maschile: primario, presidente, amministratore delegato, magistrato, sindaco, ministro, eccetera, trascurando l’“altra metà del cielo” (e anche su quell’“altra metà” ci sarebbe molto da obiettare). Problema questo, del resto, già da tempo portato accoratamente alla luce dalla signora che accudisce con lodevole abnegazione la Camera dei deputati.

Il secondo concetto espresso, di natura teoretica, è che alla disforia linguistica si trova sottesa una ferrea ideologia di potere: il potere che, da secoli, l’uomo esercita impunemente e indisturbato sulla donna, per definizione emarginata, discriminata e oppressa.

Ma con il terzo intervento è stato annunciato un vero e proprio salto di qualità: si sarebbe passati dall’analisi della disforia di genere nel linguaggio comune, all’analisi di quella, ben più significativa, presente nel linguaggio giuridico.

L’impegnativo compito è stato raccolto da una filologa di professione, provvista di vasto curriculum ed esperta a tempo perso di germanistica. La signora ha affrontato il tema con baldanzosa sicurezza, incurante di come il linguaggio giuridico, in quanto linguaggio tecnico, per essere compreso appieno richieda la padronanza dell’intero sistema concettuale di riferimento. Infatti, trascurando come la estraneità alla materia trattata e troppo eclettismo possano nuocere alla comprensione e alla resa speculativa, ha elencato gli istituti che rappresenterebbero al meglio, attraverso un linguaggio “asimmetrico” e “sessista”, il potere soverchiante dell’uomo sulla donna.

Anzitutto, con riguardo al diritto civile, è stato preso di mira il frequente riferimento alla “diligenza del buon padre di famiglia”, che avevamo sempre ritenuto l’innocuo criterio per indicare la diligenza media richiesta al debitore nello adempimento della obbligazione, ma che alla attenta filologa si rivela quale plateale e intollerabile retaggio di una mentalità patriarcale incapace di accreditare virtuose attitudini di governo a suocere, cognate, compagne di merende, ecc.

Ma, passando al diritto penale, ancora più significativo è apparso, alla eclettica conferenziera, il caso dell’articolo 575 del codice, che come tutti sanno punisce “chiunque cagiona la morte di un uomo”; qui la prospettiva maschilista assumerebbe aspetti davvero intollerabili. Ora, da questa inedita osservazione risulta evidente la carenza, per così dire epistemologica, di quanti come noi fino ad oggi avevano dato per scontato, perché noto lippis et tonsoribus, che nella lingua corrente, come in quella giuridica, l’“uomo” può essere sinonimo di essere umano. E ci siamo resi conto che neppure Darwin è andato troppo per il sottile quando, tirando su dalle quattro zampe l’individuo primitivo, lo ha chiamato con una definizione sessualmente tranchant come homo erectus. Anzi, eravamo arrivati perfino a pensare che l’homo homini lupus hobbesiano valesse anche per lady Macbeth, e si adattasse bene pure alle tristi vicende di Giasone, Hansel e Gretel e Biancaneve. Segno evidente che l’eclettismo vede più in là del senso comune.

Sempre secondo l’impavida relatrice, inoltre, neppure la nostra bella Costituzione risulterebbe monda del tarlo degli stereotipi di genere. Infatti, per esempio, due articoli diversi (il 36 e il 37) si riferiscono disgiuntamente ai “lavoratori” e alle “lavoratrici”, quasi ci fosse tra questi una differenza ontologica. Molti di noi pensavano, ingenuamente, che le norme costituzionali prevedessero una giusta protezione per la lavoratrice madre gravata da impegni famigliari. Grazie alla attenta conferenziera scopriamo ora che, invece, ne penalizzano il “genere”. Insomma, nessuno aveva avvertito il pericoloso pregiudizio degli stessi padri costituenti, che davano per scontato come la donna debba conciliare una impegnativa attività lavorativa con persistenti gravose incombenze famigliari. Questa donna, alle signore del “Se non ora quando” appare, giustamente, come l’esemplare di una sottospecie non protetta in meritata via di estinzione.

Non è necessario dilungarci oltre su una performance che, se si fosse tenuta al bar, sarebbe risultata quanto meno imbarazzante ma, esibita nell’Aula Magna di quello che è stato uno fra i più prestigiosi atenei del mondo, appare purtroppo tragicomica.

In quell’Aula, nelle cui adiacenze troneggia la cattedra che fu di Galileo, hanno tenuto le loro prolusioni i Manzini e gli Esposito, gli Ascarelli e i Crisafulli, i Guicciardi e i Bettiol. Lì si parlava in nome e per conto dell’Università e dell’Accademia, a vantaggio di chi era ansioso di conoscenza.

E invece, subito dopo il convegno di cui sopra, quella stessa Aula ha ospitato, ai primi di dicembre, anche la signora addetta all’istruzione, colei che firma le linee guida alla legge sulla scuola “Fedeli Valeria”, come si usava nelle caserme al tempo della leva obbligatoria. Forse perché la signora appare commisurata ad una nuova università che ha deciso di modellarsi sulle sempre più modeste esigenze culturali del popolo, in vista della svendita definitiva del proprio patrimonio culturale al miglior offerente, come richiede l’economia di mercato.

Solo che quel patrimonio non è né di chi manipolandolo lo snatura, né di chi se ne appropria per manometterlo. Quel patrimonio era rimasto intangibile perché destinato alla edificazione intellettuale e morale generale, non alla volgare banalizzazione verso un profondissimo nulla in cui tutti scompaiano, senza lasciare traccia.

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Patrizia Fermani Elisabetta Frezza

17 commenti su “Lettera aperta al Magnifico Rettore dell’Università di Padova – di Patrizia Fermani e Elisabetta Frezza”

  1. Cesaremaria Glori

    Mie care ed amabili signore, grazie per questa satira che ha addolcito la malinconia provata nel venire a conoscenza dello scadimento intellettuale di chi è chiamato ad insegnare ai giovani il frutto della Ragione e l’amore per la Sofia. Se questa è la moderna Sapienza cui s’ispira una prorettora che s’asside ove insegnarono geni e onesti cultori delle Arti e delle Scienze, quali potranno essere i frutti di tale scuola? Se simili ciarlatani salgono in cattedra vuol proprio dire che Dio ci ha abbandonato.

  2. Il problema è grosso! Perfino Repubblica, quando è morto Glenn, è caduta su di una buccia di banana scrivendo “è morto l’astronauta John Glenn” anziché l’ “astronauto” come sarebbe stato corretto. Certo una volta andava peggio: pensiamo alle povere massaie che, per fare il bucato, erano costrette a comprare il detersivo “Omo +”.
    Però limitarsi a due generi usando la “o” e la “a” non va bene dato che, come ci insegna Facebook, i sessi sono almeno 58. Propongo quindi di usare il numero e quindi, invece di ministro o ministra dire, ad esempio, ministr34 oppure ministr09 e così via. Resta però il problema che, facendo un lista, sembra che si dia anche un ordine di importanza ai sessi. Per evitare ciò occorre un’autorità internazionale che modifichi casualmente l’elenco dei sessi a intervalli regolari, per cui, per indicare un ministr, oltre al numero, serve l’indicazione di quale elenco si è usato avremo quindi “il ministr34 [2018-2] ed il ministr09 [2017-8] hanno inaugurato …”. Se il sesso è ignoto basterà scrivere il ministr?? ma, se non vuole si sappia il suo…

  3. quando uno o una sono imbecilli maschio o femmina pari sono. Se sono intelligenti maschio o femmina pari sono.Idiozia contare se in un posto di lavoro ci sono più donne o uomini. Due pieni non si completano e così due vuoti .Questa la Natura, il resto menzogna e contro Natura.La donna è donna e non può essere maschio e così l’uomo è uomo non può essere femmina.

  4. Come è potuto accadere che l’imbecillità pervadesse buona parte delle menti? Siamo davanti ad un plagio planetario oltre che italiano.Se uno avesse fatto affermazioni di questo tipo, tempo addietro e non tanto, sarebbe stato invitato ad andare a casa, sarebbe stato da ridere. Credo che il lassismo universale abbia contaminato le menti. Vediamo ora con chiarezza che gli eccessi, liberamente praticati da un popolo, deteriorano non solo il corpi ma, anche l’anima,lo spirito, quindi l’intelligenza. Il pensiero è diventato in moltissime attività umane sessualmente orientato e le attività umane lo manifestano appieno proprio nella decadenza macroscopica raggiunta da ognuna di esse. La vecchia Chiesa non sbagliava a far tener su le mutande, dunque!

  5. Il flatus vocis della signora Oboe la fa somigliare più a un trombone (non coniugo al femminile perché temo suoni osceno).
    Care signore, date un’occhiata al sigillo della vostra università, e ravvedetevi.

  6. Si sono fulminati i cervelli a studiare troppo, ne ho visti diversi ritrovare la sanità mentale lavorando la terra con zappa ed aratro.

  7. “in asili nido comunali i bambini di sesso maschile vengono già truccati col rossetto e messi sui tacchi per abituarli al “rispetto delle differenze”.”: come non ricordare qui la profezia di Sant’Antonio Abate, che dice “Verrà un tempo in cui gli uomini impazziranno, e al vedere uno che non sia pazzo, gli si avventeranno contro dicendo: “Tu sei pazzo !”, a motivo della sua dissomiglianza da loro”. Ci siamo dentro in pieno, né? bisognerebbe essere ciechi (o pazzi, ovviamente) per negarlo. Ma consoliamoci, non potremo andare molto oltre con l’obnubilamento delle menti e delle coscienze, toccato il fondo, o ci sarà un suicidio collettivo (come in certi gruppi fanatici amercani) oppure la gente riacquisterà il ben dell’intelletto.

  8. A cosa serve una Università? Perché gettare alle ortiche anni di studio (se ho letto bene lingue e letterature straniere), accantonando una prestigiosa tradizione accademica? Perdersi in un mare di inutili distinguo, inventare di sana pianta una grammatica palesemente grottesca, falsare i rigorosi principi della genetica? Si consideri il merito, e tanto basta. Conta solo che il “medico” sia in grado di formulare diagnosi esatte, uomo o donna che sia. E ciò vale in ogni settore, per tutte le branche della scienza. La competenza, of course. L’onestà. La morale. L’impegno di vita. Tutto quanto possa contribuire nei fatti, e non nel vuoto chiacchiericcio ideologico, ad edificare la persona e il suo prossimo.

  9. Cosa dire se non articolo meraviglioso. Ha un grosso difetto, è TROPPO bello per essere capito dai destinatari. P. S. Essendo il sottoscritto un integerrimo osservante delle nuove disposizioni, nel mio prossimo biglietto da visita, anziché agente di commercio, scriverò; agentO di commercio. Che l’Accademia della Crusca abbia pietà di me

  10. Fra le gemme della signora Fedeli Valeria vorrei ricordare anche il “più migliore” ed il “tiutor” sfoderati con grande serietà. Purtroppo, questo è quello che ci meritiamo!

  11. il volgere tutto al femminile offende in primis proprio le dirette interessate ovvero le donne, hanno inventato parole orrende come femminicidio, sindaca, ministra e altre amenità ammirevole l’esempio di un maresciallo donna dei carabinieri nominata comandante di una stazione CC del torinese in un’intervista ad un giornale locale ha detto queste testuali parole: “NON CHIAMATEMI MARESCIALLA”

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