L’imperialismo americano e la menzogna manifesta

La follia imperiale statunitense (distruttiva e acquisitiva insieme) e la incapacità abbastanza diffusa di vederne la realtà e le conseguenze sono i due fenomeni complementari che dominano il nostro tempo. Mentre il mondo in cui ci troviamo ancora a vivere potrebbe dissolversi da un momento all’altro nell’incommensurabile rogo acceso da un qualunque Dottor Stranamore. 

Questo stesso pericolo fu vissuto pochi decenni fa con una qualche angosciata consapevolezza da un paio di generazioni, mentre oggi che lo spettro di una deflagrazione finale si fa concreto e incombente questa consapevolezza sembra paradossalmente sbiadita o del tutto assente, quasi a dare un senso alla strampalata affermazione marxiana per cui ogni epoca si pone soltanto i problemi che è in grado di risolvere. 

Un quadro nitido degli eventi che hanno preparato questa sconvolgente impennata della storia universale e la nuova minaccia di una sua definitiva conclusione è stato tracciato già anni orsono da Costanzo Preve in un libro intitolato Il bombardamento etico e che ha come sottotitolo: Saggio sull’interventismo umanitario, sull’embargo terapeutico e sulla menzogna evidente. Quattro ossimori i quali, secondo l’autore, segnando i due eventi bellici della “prima guerra del Golfo” e della “guerra del Kosovo”, nell’arco di tempo che va dal 1991 al 1999, hanno spianato la strada all’ossessivo quanto incontrastato piano di dominio americano universale da ottenere con ogni mezzo. 

Il libro è stato scritto prima che fossero allestite altre guerre persino più catastrofiche, miranti a distruggere stati sovrani e assoggettare intere nazioni, anche previa organizzazione di sanguinosi rivolgimenti interni, le quali continuano ad essere chiamate romanticamente rivoluzioni colorate in virtù del colore distintivo che si pensa scelto dai rispettivi promotori. Mentre il colore “rivoluzionario” era quello previsto e assegnato dagli apparati statunitensi ai beneficiari del piano di destabilizzazione preparato a tavolino per essere poi messo puntualmente in atto con dispiegamento di uomini e risorse finanziarie e magari coronato da successo come nel 2014 in Ucraina. 

Dunque, sta di fatto che, anche se riferita a eventi che hanno preceduto la distruzione dell’Iraq, della Siria e della Libia, o l’agonia inflitta al Donbass, l’analisi di Preve si adatta perfettamente anche a quelli successivi, perché tutti incastonati in una stessa degenerazione etica e culturale e di una distruttiva volontà di potenza i cui effetti, secondo un copione riproposto da decenni con maniacale, ossessiva precisione, ci investono ora da vicino. 

Il saggio mette a nudo il vero miraggio della globalizzazione imperialistica, da attuare attraverso la conquista militare, la conquisa economica, il sovvertimento etico e culturale di una tradizione che non era soltanto borghese, ma piuttosto “umana”. Va da sé che il termine “economico” non ha nulla a che fare nella realtà di oggi con la etimologia antica che rimanda ad una attività umana in sé del tutto virtuosa. 

La realizzazione di questo sconsiderato programma di dominio “globale” si è avvalsa e si avvale della impostura generalizzata, ovvero di quella menzogna evidente che prospera come una pianta maligna grazie alla diffusa volontà di non sapere, destinata a tradursi fatalmente in cinismo di massa. In questo senso quegli eventi bellici degli anni novanta hanno fissato il paradigma destinato a riprodursi e allungare la propria ombra sui destini universali, imbastendo la gabbia di quel “mondo nuovo” in cui tutti avrebbero dovuto essere imprigionati. 

Questo paradigma, inaugurato nel 91 dalla follia imperiale, è anzitutto quello in cui viene creata una giustificazione etica capace di coprire lo sterminio di popolazioni civili indifese attraverso la guerra aerea senza che questo crei un moto di ribellione collettiva. Appunto, il “bombardamento etico”. 

Secondo lo stesso rapporto della Commissione d’inchiesta presieduta dall’ex ministro Ramsey Clark, fino a trecentomila iracheni indifesi sono stati assassinati dalla aviazione statunitense, insieme alle decine di migliaia di soldati che si stavano ritirando dopo aver accettato le condizioni della resa. Mentre, a detta di Sergio Romano, “l’Onu ha recitato la parte del sacerdote che benedice gli stendardi del principe prima della battaglia e gli permette di proclamare al mondo che Dio è con lui”. Insomma, è stata legalizzata da allora l’inesistenza di quella legalità internazionale che pure era stata ritenuta l’antidoto contro nuovi avventurismi bellici di tipo nazi fascista. Nuovo punto di arrivo del processo di distruzione di ogni regola faticosamente elaborata nel sistema pur fragile del diritto internazionale, già individuata da Schmitt, ma che vedremo praticata in ogni ambito fino alla farsa dei trattati di Minsk ammessa candidamente dalla Merkel. 

La giustificazione elaborata ad uso delle masse occidentali teleguidate per abbattere il tabù della guerra “illegittima” veniva dall’essere Saddam Hussein il nuovo Hitler, mentre della guerra salvifica condotta contro le popolazioni civili le televisioni trasmettevano solo le immagini notturne in cui le luci indicavano al più i colpi inferti ad obiettivi smaterializzati, come si conviene ad un videogioco che, non contemplando reali presenze umane, non può turbare le coscienze degli spettatori. 

Allo sterminio per via aerea con l’impiego di uranio impoverito è seguito l’embargo terapeutico, esteso anche ad analgesici e chemioterapici, che uccideva ogni mese quattromila bambini iracheni in mezzo alla crescita esponenziale di tumori e leucemie infantili. In ogni caso, al di là di ogni illusionismo mediatico, era il nuovo Hitler incorporato con la sua nuova Auschwitz a mettere a tacere definitivamente ogni possibile scrupolo. Ma, allo stesso tempo, entrambi esorcizzavano Hiroshima, prototipo del bombardamento etico imperiale. La mancata espiazione di questo ne ha anche assicurato la impunità e quindi anche la ripetibilità. Fino a che poterono tornare a materializzarsi per giustificare una nuova impresa imperiale. 

Questa volta nel Kosovo, per il quale sono stati reinventati, oltre a Hitlerovic, l’olocausto, il genocidio e la pulizia etnica. Quanto necessario per bombardare per settantotto giorni una capitale inerme, distruggere i ponti sul Danubio, usare l’uranio impoverito i cui avanzi furono poi scaricati nell’adriatico, secondo il corretto smaltimento dei rifiuti, mentre a benedire la punizione dal cielo in partenza da Aviano, dove arrivano ora i nuovissimi bombardieri carichi delle nuovissime bombe atomiche, c’era il comunista d’Alema, assistito dal plauso della famosa intellighentja dei Bobbio. 

Dunque, questa volta a legittimare lo scempio non occorreva più neanche l’Onu, bastavano i “diritti umani” sui quali è sempre bello tacere. Perché, ricorda Preve, a detta dello stesso direttore dell’Istituto di Studi Strategici di Londra, Gerard Segal, essi sono “la chiave per aprire la porta della sovranità ed imporre il turbine della globalizzazione tridimensionale, politica, economica e militare”. Un anno prima dell’intervento militare, lo stesso Segal dava per scontato che esso rispondeva ad un calcolo politico del potere occidentale. Si è trattato, “della prima guerra della storia vinta esclusivamente dal cielo” e in cui si arrivò a seicento “missioni” al giorno. 

Per D’Alema era ovvio che la decisione di partecipare ad una guerra (di tal fatta) non dovesse passare per il Parlamento, mentre il buonista Veltroni arrivò a organizzare una manifestazione in favore della guerra, esperienza allora ancora inedita per un partito sedicente di sinistra. 

Ancora una volta la guerra era uno spettacolo virtuale in cui la CNN sostituiva il campo di battaglia con l’obnubilamento della sua percezione. Mentre l’impresa aveva avuto modo di realizzarsi ancora una volta senza costi umani propri. Gli unici costi realmente degni di essere quantificati. Non mancò, ricorda ancora Preve, la ripugnante messinscena del processo contro il nuovo mostro mediaticamente costruito, che doveva servire a ratificare la impostura “giuridica” di partenza.

Del resto a nulla come all’espansionismo americano, a partire dall’annientamento delle nazioni indiane, si è adattata la volgarizzazione del presunto finalismo machiavellico, corroborato dalla teoria delle opportunità individuali di matrice calvinista. 

Ma questo delirio di onnipotenza non avrebbe trovato fin qui la strada aperta, come Preve aveva anticipato già nell’introduzione, senza “l’enigma originario” della vergognosa insensibilità della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica occidentale. Ed è questo enigma che deve essere indagato secondo l’autore. Preve si rifa a questo punto ad un saggio dell’irlandese Desmond Fennell secondo il quale, per capire l’inerzia diffusa di fronte agli scempi inediti inaugurati in quegli anni, occorre tornare ad Hiroshima. Hiroshima è un punto di svolta simbolico non a causa del massacro atomico, ma perché la potenza guida dell’occidente, invece di pentirsi, la approvò come un’azione virtuosa (accorciò la guerra, risparmiò la vita dei soldati, ecc.) e l’Europa approvò questa interpretazione, tradendo la propria morale, la propria filosofia, la propria cultura. Senza contare il fatto che la ripetizione dell’impresa dopo tre giorni (sic!) a Nagasaki, ne sancì la “normalità”. Alla fine, basta “un evento fondativo semplice” a mettere a nudo la struttura ideale della complessa società contemporanea e il suo rifiuto di pensare la realtà delle cose. Come è avvenuto, val la pena di ricordare, nel caso della fantasmagorica rappresentazione truffaldina dell’11 settembre. 

Preve concorda con Fennell nel ritenere che in fondo il nostro mondo da allora si sorregge proprio sull’autoinganno degli americani su Hiroshima e sulla rimozione di essa dalle loro menti. Nel senso che questa rimozione ha potuto abilitare il consenso e l’adesione politica diffusa nella forma dell’americanismo. Una visione oggettiva e realistica di Hiroshima avrebbe dissolto un credito mantenuto da allora del tutto indebitamente. 

Tuttavia, aggiunge Preve, per capire il “non pentimento” e le sue pesantissime conseguenze, occorre metterlo in relazione dialettica con il pentimento di Auschwitz, e con la sua quotidiana implementazione mediatica. Ed è proprio sul trattamento differenziato di questi due fenomeni che occorre appuntare la attenzione. 

Esso avrebbe anzitutto una base filosofica nella contrapposizione tra tecnica e filosofia: “Ciò che è tecnicamente possibile è parzialmente o totalmente giustificabile, mentre ciò che è ideologico non lo è: il massacratore tecnico è meglio del massacratore politico”. Infatti, come accaduto già per la prima guerra del Golfo, gli spettatori non sono costretti a vedere il sangue e vedono solo le tracce luminose degli ordigni di morte sugli schermi. Un po’ come, per stare alla vulgata attuale, la cremazione è più pulita della inumazione. O per converso, bisogna aggiungere, vedono solo il sangue delle rappresentazioni allestite per indirizzare politicamente le loro emozioni accortamente telecomandate. 

Costoro vanno a comporre la tribù popolosissima dei “grigi”, la maggioranza tra le minoranze dei neri e dei bianchi, come chiamava Primo Levi tutti quelli che per molto tempo non volevano sapere nulla di Auschwitz, prima di esserne reclutati come ricognitori quotidiani. 

Il pentimento di Auschwitz, invece, è amministrato come pentimento collettivo capace di assorbire ogni altra emozione. Potremmo aggiungere che è una edizione politicizzata del peccato originale, infatti non bisogna trascurare come esso si sia tradotto in un’arma politica di grande efficacia per svirilizzare la Germania attraverso la demonizzazione di un intero popolo, tornando essa utile fin dall’inizio sul piano geopolitico. Oggi, infatti, ne vediamo dispiegarsi tutta la portata storica nella sottomissione con cui i governanti tedeschi hanno incassato la chiusura prima e la distruzione poi dei gasdotti e siano costretti a dimenarsi spaesati per tentare di parare il disastro economico autoindotto con evidente ottusità a vantaggio della economia statunitense e a non privarsi di strumenti di difesa militare. 

La Germania non può e non deve saldare il proprio conto perché un debito perenne serve a tenerla sotto lo schiaffo di perenni e munitissimi occupanti, al pari dell’Italia. Solo che a questa non servono sensi di colpa per accogliere senza battere ciglio il proprio stato di sudditanza. Ora, come ai tempi delle passate guerre umanitarie, bastano “gli intellettuali organici alla legittimazione imperialistica” e i politici “maschere di una rappresentazione politica a pagamento”.

Sul piano della politica internazionale, osserva Preve, il pentimento di Auschwitz ha portato anche il Giudeocentrismo per cui diventano antisemiti anche i critici del sionismo imposto a scapito dei Palestinesi che, non per nulla, sono ormai ridotti ad una riserva indiana di cui nessuno più si interessa. Esso ha portato anche il pentimento obbligatorio del cattolicesimo in via di estinzione per il quale “l’unico monoteismo ammesso è quello economico crematistico del mercato”. Un monoteismo che Preve, tuttavia, non ha potuto vedere dispiegarsi in tutta la sua ampiezza sotto il pontificato bergogliano. 

Benedetto XVI, che si pensava dovesse a pagare ad Auschwitz il tributo della responsabilità tedesca davanti alle schiere giornalistiche ammaestrate e fameliche, riprese il tema del misterium iniquitatis nella prospettiva di un perenne e irrisolto problema teologico. 

Quale che sia la spiegazione che si preferisce dare al trattamento differenziato tra Auschwitz e Hiroshima, dovrebbe apparire evidente che, al di là di tutte le differenze specifiche oggettive, e di quelle filosofiche e persino psicoanalitiche avanzate anche da Preve, prevalgono in ogni caso le ragioni brutalmente politiche e propagandistiche. Ragioni che evidentemente non hanno aiutato a tenere viva la memoria collettiva del genocidio armeno, di certo non meno efferato di quello hitleriano. 

Auschwitz serve all’America per confermare una superiorità morale che Hiroshima avrebbe tutta la capacità di dissolvere se il suo significato non fosse stato depotenziato ad arte anche attraverso la differente raffigurazione del genocidio. 

Preve ricorda come, prima che l’unione Sovietica di dotasse di armi atomiche, furono messi a punto ben 18 piani per la sua distruzione in via nucleare, con annesso implicito genocidio. E ricorda anche i vergognosi film sul Vietnam in cui non si trovava mai traccia dei milioni di morti vietnamiti, ottenuti con tutti i mezzi più micidiali a disposizione.

Infine, se è stato proclamato a gran voce che Auschwitz mai potrà essere ripetuta, Nagasaki ha già stabilito la ripetibilità di Hiroshima, avvalorata dalla corsa planetaria alla dotazione di ordigni nucleari sempre più potenti e certificata dalla uscita puntuale dagli accordi sulla non proliferazione nucleare.

Infatti, nel vuoto delle parole senza copertura di pensiero messe in bocca alle masse telecomandate, si fa strada il lemma delle armi nucleari tattiche, di cui dotare gli ucraini, dove l’aggettivo suggerisce l’idea dell’innocuo videogioco da esportazione in cui esse potranno essere impiegate senza danneggiare lo schermo del computer. Ancora una volta lo svuotamento del significato reale delle parole resta l’arma più potente per l’annichilimento collettivo, la vera atomica del cervello a rilascio lento ma continuo di materiale tossico. 

La comprensione a scartamento ridotto della realtà è alimentata circolarmente dalla volontà di non sapere e quindi di non capire. Infatti, anche di fronte allo svelamento dei segreti più terribili e alle rivelazioni più sconvolgenti, osserva ancora Preve, non succede assolutamente nulla. Oppure, come nel caso di Assange, si imprigiona chi ha osato squarciare i veli della ipocrisia democratica in barba a tutti i principi sventolati per secoli da una rinnegata tradizione giuridica.

Dietro alla catastrofica involuzione di una civiltà, alla perdita delle sue coordinate filosofiche politiche e religiose, va da sé che la inoculata tragica indifferenza suicidaria per il “modello geostrategico” di Hiroshima avvia fatalmente l’umanità verso la propria autodistruzione. Intanto ci si distrae con gli orologi di Messina Denaro in attesa dell’evento che meglio rappresenta una morte cerebrale già avvenuta, ovvero il Festival di Sanremo.

2 commenti su “L’imperialismo americano e la menzogna manifesta”

  1. So di andare “fuori tema”, cara Patrizia, ma pare che, grazie alle manovre sotterranee congiunte di anglo-americani e Caschi Blu dell’Onu, in Congo in questo momento stia avendo luogo un orribile genocidio. Ma da noi tutto tace…
    Bruno PD

  2. Meritava più spazio la questione teologica. Di come negli ultimi 70 anni la Chiesa cattolica sia succube di questo potere. Per evitare l’imperialismo a casa nostra esiste una sola strada: investire in eserciti! Solo un esercito europeo potrà rivendicare la giurisdizione sul proprio territorio! Ma come detto dall’autore tra poco c’è il festival di Sanremo.

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