Lo strano caso del dottor Grossman, intellettuale

Consolata era intenta a sfornare dei grossi panini dorati quando il dottor Grossman entrò in cucina con lo sguardo eccitato che gli si stampava in viso ogni qualvolta si convinceva, in modo assoluto e partecipe, di qualche strampalata nuova teoria.

Intendiamoci, il dottor Grossman non era uno scienziato, ma un letterato, per l’esattezza uno dei più rinomati e premiati scrittori della città, faro della classe intellettuale moderna e guru di tutto rispetto, che tuttavia tentava, più che di far tendenza, di rincorrere il nuovo millennio senza incespicare in vecchie ottusità degli ‘Anta ormai passati e senza mai destare segnali di cedimento. Allora eccolo battersi in prima fila per le più sentite cause della nuova umanità, che dispiegava in ampi e contorti ragionamenti, muovendosi dall’epistemologia alla sociologia in un coro di elogi e applausi.

La vecchia Consolata ci era abituata e ormai non si stupiva più di niente. Quando lo scorse entrare in casa con quello sguardo che valeva più di mille parole e che conosceva a memoria, sospirò con pazienza, pronta ad ascoltare la nuova sentenza. In effetti, sebbene il suo ruolo di governante la relegasse a un rispettoso silenzio, gli anni trascorsi nella casa del professore l’avevano accreditata come migliore alunna e interlocutrice del maestro, che trascorreva buona parte del suo tempo ad illustrarle gli ingranaggi del mondo moderno, convinto che prima o poi le seduzioni del pensiero corrente avrebbero fatto presa anche su di lei.

Inoltre Consolata era colei su cui gravavano, suo malgrado, tutte le stramberie che si inventava il professore. Non bastava scrivere un articolo di sensibilizzazione alla salvaguardia del pappagallo rosso del Venezuela, bisognava impegnarsi personalmente nella ripopolazione di questo simpatico uccellino, e così la casa diventava una voliera e la governante una domatrice di pappagalli che a furia di sentirla inveire avevano preso l’abitudine di ripetere “vieni qui bestiaccia”, “non farla sul divano!”, frasi che il dottor Grossman trovava sconvenienti e non in linea con la sua sensibilità di animalista.

Dopo una settimana la situazione rientrava, il professore si ritrovava allergico alle piume di pappagallo e tutto si acquietava, fino alla stramberia successiva. La governante si apprestava dunque ad ascoltare la nuova trovata e ad ascoltare i nuovi ordini del suo datore.

Buongiorno Consolata, mi ritiro nel mio studio, vorrei che nessuno mi disturbasse mentre resto di là e tento di ubriacarmi, intesi? Ah, la bottiglia di whisky? Un’ottima annata, me l’ha garantito il commesso. Siamo d’accordo allora”.

La donna guardò il professore con gli occhi sgranati e gli chiese se per caso fosse impazzito o se la stesse prendendo in giro. Gli ricordò che a capodanno era finito gambe all’aria dopo un bicchiere di spumante e gli suggerì di mollare la bottiglia onde evitare brutte conseguenze.

Cara la mia governante, tu del mondo della letteratura non sai proprio niente. Non ti biasimo, sei una perfetta donna di casa e non potresti occuparti di nulla meglio di come pieghi i calzini e prepari il risotto, ma lascia che ti spieghi. Ecco, devi sapere che ogni scrittore che si rispetti ha un vizio. Ci sono giornalisti che non riescono a pensare senza la sigaretta in bocca, romanzieri con il vizio del gioco, novellieri con la passione per le donne e così via. Per essere un vero uomo di pensiero anche io devo trovarmi un vizio. Si tratta di una questione di principio. Dunque per me, ho scelto il vizio dell’alcool perchè, mi pare, è il più confacente alla mia indole”.

Consolata obiettò che la teoria non le sembrava molto sensata dal momento che un uomo, dovrebbe, secondo il buon senso, allontanarsi dal vizio e ricercare la virtù. Questo le avevano insegnato da piccola e a questo si atteneva con ostinata convinzione.

Consolata, il tuo pensiero è molto nobile e adattissimo per la gente comune. Per i letterati tuttavia è molto diverso. Il vizio per noi è insieme alimento dell’arte e tormento dell’anima. Viviamo in un rapporto di dipendenza da ciò che ci uccide e che lascia una traccia indelebile sul foglio. Prova a pensare, in particolare al vizio dell’acool. Fizgerald, Joice, Hemingway e moltissimi altri lo avevano eletto come dolce supplizio e, inoltre, nel mio specifico caso, opererei la scelta migliore dal punto di vista salutare”.

Consolata chiese cosa ci fosse di salutare nello scolarsi una bottiglia di whisky e il dottor Grossman attaccò con un articolato ragionamento che filava più o meno così:

Vedi, se dovessi per esempio pensare di iniziare a fumare, dovrei subito ravvedermene, poiché questo non è il momento più adatto. Sì, abitando io al quinto piano di un palazzo che al momento è sprovvisto di ascensore a causa di un guasto i miei polmoni ne risentirebbero troppo violentemente e questo sarebbe oltremodo dannoso. Allo stesso modo non potrei mai pensare di intraprendere con metodo il vizio del gioco, essendo io un uomo abituato ad andare a letto molto presto e a svegliarmi all’alba. La vita del giocatore d’azzardo, si sa, è per lo più notturna e a me non sembra possa fare bene cambiare abitudini tanto radicate all’età dei cinquant’anni. Senza contare che la mia ipertensione mi rende abbastanza nervoso persino quando devo scegliere un film al cinema, figuriamoci puntare una cifra. Credimi Consolata, ho passato in rassegna ogni vizio possibile e mi pare che l’alcol sia il migliore per me”.

Consolata non sembrava molto convinta della sua scelta. Si ricordava che la Mitchell aveva scritto Via Col Vento durante il periodo di immobilità per la rottura della gamba e che d’Annunzio aveva dettato alla figlia Notturno quando ormai era praticamente cieco. Si chiedeva, traendo le conseguenze del ragionamento, se fosse preferibile distruggere il fegato piuttosto che rovinare i polmoni, rischiare un infarto, perdere una gamba oppure rinunciare alla vista. Passarono in rassegna ogni parte del corpo umano e alla fine convennero che il fegato era l’organo meno essenziale di tutti e che per tanto l’alcolismo era il vizio migliore.

Soddisfatto dell’approvazione il dottor Grossman si ritirò nel suo studio e con rigore monacale iniziò a versare il suo whisky nel bicchiere. Non rinunciò all’impresa nemmeno quando la testa girava a tal punto che era diventato oltremodo complesso avvicinare il bicchiere alla bocca. Continuò con fatica, arrancando, ma alla fine sgolò la bottiglia e si abbadonò a un sonno profondo.

Consolata aprì appena l’uscio dello studio e vide il professore affondato nella poltrona, bottiglia in mano e qualche foglio sparso per terra. “Ora sì che è un vero scrittore”, pensò soddisfatta, e lasciò il tormentato pensatore alla sua profonda russata.

La situazione si ripeté per qualche tempo. Il dottor Grossman entrava in casa soddisfatto, con un qualche liquore in mano, si chiudeva nel suo studio e iniziava la sua ubriacatura scientifica. Per la verità Consolata lo vedeva ogni giorno un po’ più pallido, un po’ più cupo, ma del resto tutto ciò doveva essere perfettamente consono all’immagine del poeta maledetto che il letterato si era messo in testa di personificare e, sebbene si sentisse privilegiata spettatrice di un processo di trasformazione straordinario, non vedeva l’ora che il professore tornasse al suo caffè e latte mattutino, che forse non era baudelairiano, ma che lo teneva di buon umore fino all’ora di pranzo. Il vizio dell’alcool poi, più che alimentare la sua arte alimentava delle lunghe dormite e le giornate scivolavano via senza che nemmeno se ne accorgesse.

Tuttavia la donna decise di starsene buona, la nuova filosofia non sarebbe durata, la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso stava per arrivare e, infatti, come aveva previsto, non tardò.

Tre giorni dopo, intorno alle undici del mattino, il dottor Grossman scivolò fuori dal letto, ancora in pigiama entrò in cucina, si abbandonò sconsolato su una sedia e con due occhiaie nerissime chiese:

Consolata, il mio caffè e latte, per cortesia”.

La governante lo guardò di sottecchi abbozzando un sorriso. Tuttavia fece finta di niente e domandò se per caso non preferisse del Cognac, un goccio di Rum o qualche altro liquido più impegnativo di un caffè e latte. Del resto aveva smesso di comprare tutto ciò che potesse distrarre il professore dalla sua nuova condotta di vita.

Ah, cara mia” sospirò, “credo che l’alcolismo non faccia per me. Non sai cosa ho passato questa notte!”

La governante, incuriosita, chiese cosa fosse successo di tanto terribile e il professore iniziò a raccontare:

Bene, ieri pomeriggio come da abitudine mi ritirai nel mio studio insieme ad un’ottima bottiglia di liquore, per dedicarmi alla mia bevuta pomeridiana. Pensavo che un po’ di ebbrezza mi avrebbe dato lo spirito giusto per concludere il capitolo del mio libro, ma, in realtà, al terzo bicchiere mi venne un gran sonno e poco dopo mi addormentai. Quando mi svegliai era ormai sera inoltrata. Come ben sai, mi capita molto raramente di essere sveglio intorno a mezzanotte. Questa alterazione involontaria delle mie abitudini mi colse alla sprovvista e, per distarmi, decisi di scendere a fare quattro passi. La testa girava ancora e, all’improvviso, mi venne una gran voglia di una sigaretta. Si dice spesso che bere mette voglia di fumare, proprio così Consolata, chiesi una sigaretta a un passante, me la feci accendere e tirai qualche boccata nella notte umida. Mi sentii elettrizzato da questo nuovo me così trasgressivo e attaccai discorso con il parlante. Gli chiesi cosa ci facesse in giro a quell’ora e mi disse che si stava recando al casinò poco distante. Si sentiva fortunato quella sera e aveva qualche risparmio da puntare. Mi invitò con lui e senza che neanche me ne accorgessi, un quarto d’ora più tardi stavo ritto dietro al banco a giocarmi gli spiccioli che mi ero infilato nella giacca. Improvvisamente mi ricordai che il gioco avrebbe potuto alimentare la mia ipertensione e mi venne il terrore di agitarmi aggravando la situazione. Così mi agitai definitivamente e a ciò conseguì una violenta tachicardia. Uscii di gran fretta dal casinò e attraversai la strada buia. Qualche donna mi afferrò per il bavero e mi propose di trascorrere la notte insieme. Non risposi neanche, ero troppo teso per cedere alla tentazione e, girata la chiave di casa, ormai alle tre del mattino, mi stesi sul letto esausto”.

Consolata ascoltò il racconto del professore a bocca aperta e, alla fine, concluse che il vizio dell’alcool non faceva proprio al caso suo. Lei, del resto, lo aveva avvertito che evitare i vizi è la prima regola che insegnano da bambini e se certe cose le sanno tutti, un motivo ci sarà.

Uno poi” concluse “non può neanche dedicarsi a un vizio come si deve, che subito, per una svista, gliene si parano davanti agli occhi altri tre o quattro e così va a finire che ci rimane invischiato con entrambe le scarpe, senza sapere come uscirne o, se come lei riesce ad avvedersene prima del tempo, si ritrova esausto steso sul letto alle tre del mattino. Avere a che fare con un vizio è una cosa, uno ci si dedica con perizia, ma gestirne diversi diventa un’impresa. Dia retta a me professore, lasci perdere gli intellettuali e i loro tormenti, prenda la sua tazza di caffè e latte e stia lontano da certe diavolerie, non ha il fisico”.

Il Dottor Grossman bevve un sorso di caffè e latte e, vuoi per il sapore dolce della colazione vuoi per la fine di quella disavventura fu colto da un moto di improvvisa consolazione e sentenziò sorridendo:

Deve essere come dici tu, Consolata, gira e rigira va a finire che uno, per dedicarsi a un vizio, deve diventare un asceta”.

2 commenti su “Lo strano caso del dottor Grossman, intellettuale”

  1. Mi auguro che molti intellettuali, alla fine si ravvedano come il dottor Grossman, ma temo che la realtà sia più triste della fantasia. Il personaggio si presta ad altre avventure/disavventure. Ci saranno?

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