di Dionisio Di Francescantonio
Vittorio Sgarbi è personaggio estroso, ma sbaglierebbe chi volesse circoscriverlo nei limiti del polemista facilmente incline alla veemenza del linguaggio che ci restituisce talvolta lo schermo televisivo. A contraddire quest’immagine basterebbe citare la sua instancabile attività di critico e storico dell’arte, tradottasi nella pubblicazione di numerose opere in volume nonché in un’infinità di articoli apparsi su giornali e riviste, da cui emerge non solo la sua profonda competenza e passione artistica, ma anche la sua capacità di distinguere a colpo d’occhio, direi quasi per istinto, i prodotti del genio artistico autentici da quelli scaturiti da una malintesa o fallace interpretazione dell’arte figurativa e della sua funzione, specie nell’ambito dell’arte contemporanea, dove gli equivoci abbondano anche per opera degli stessi critici o cosiddetti esperti, coi quali Sgarbi non si è mai imbrancato, rivendicando nei loro confronti la sua autonomia di giudizio e dimostrando così il suo anticonformismo. Anticonformismo, peraltro, manifestatosi già diversi anni fa quando, in piena dittatura astratta o informale, che imperversava da decenni soprattutto in Italia, fu tra i primi (se non addirittura il primo in assoluto) a rivalutare la pittura e la scultura di figure, restituendo dignità a quei pochi artisti che, non piegandosi al diktat della scomparsa dell’essere umano dall’arte figurativa e costretti quindi a un esilio forzato dal circuito delle gallerie d’arte, avevano continuato a lavorare in solitudine per sé e per una ristretta cerchia di amatori.
Ma qui ci interessa porre in rilievo soprattutto la sensibilità che Sgarbi ha dimostrato per l’arte religiosa, manifestatasi in diverse occasioni nella condanna di chiese come quella, ad esempio, concepita da Massimiliano Fuksas per Foligno, un edificio di straordinaria sciatteria e bruttezza che fa pensare più a un magazzino che a un edificio religioso e che induce a pensare, come sottolinea lo stesso Sgarbi, “a una relazione immediata tra la perdita della centralità dell’uomo in generale, la perdita della centralità della persona con riferimento alla visione religiosa e la perdita dello spazio architettonico inteso come volta celeste o come rappresentazione di uno spazio di elevazione”. A sostegno del proprio giudizio, il critico ferrarese cita i concetti espressi dallo stesso Papa Benedetto XVI nella sua Teologia della Liturgia: “Come nella liturgia ci può essere solo una comunità aperta, così anche il vano dell’edificio sacro non dovrebbe avere niente in comune con quei blocchi di cemento che si chiudono alla creazione, dandosi da se stessi la loro luce e la loro aria… L’edificio sacro deve, dovunque sia possibile, essere collocato nell’ampio spazio della creazione e mostrare il contatto con essa e così avviare il cammino pieno di speranza verso il Signore che viene”.
Opinioni, queste, che Sgarbi scrive in questo suo L’ombra del divino nell’arte contemporanea, un libro corredato da bellissime illustrazioni nato dall’esperienza della ricostruzione della Cattedrale di Noto, colpita nel 1996 da un crollo fisiologico; un’esperienza che a mio parere rappresenta uno spartiacque rispetto all’andazzo costruttivo e ricostruttivo che ha disseminato l’Italia di un’architettura ignobile e desolante dal dopoguerra ad oggi, colpendo, come abbiamo visto, gli stessi edifici ecclesiastici (“scatole da scarpe” le definisce Sgarbi citando l’espressione impietosa usata da un’anziana conoscente), e un modello d’intervento inedito che fornisce un indirizzo di straordinario interesse per il futuro, un indirizzo di speranza anche per i tanti crolli dovuti ai recenti e recentissimi terremoti che hanno colpito alcune zone del nostro paese.
L’esperienza di Noto nasce da circostanze insolitamente felici, quella di affidare i finanziamenti del restauro della Cattedrale alla Protezione Civile diretta dall’allora commissario Bertolaso, noto per la sua efficienza e intelligenza, e di istituire una commissione tecnica per l’esecuzione e il controllo dei lavori nella quale viene chiamato a far parte Vittorio Sgarbi. La commissione è costituita da persone sensibili alla tradizione, ma la presenza al suo interno di Sgarbi si rivela decisiva. La ricostruzione della Cattedrale barocca, concepita per restituirla “com’era e dov’era”, viene affidata all’architetto Salvatore Tringali, “modesto e prudente”, alieno dal narcisismo egocentrico e devastante dei cosiddetti archistar alla Fuksas o alla Gregotti, artefici, oltretutto, atei, incapaci quindi di ispirarsi a una senso del sacro a loro ignoto. Il lavoro è durato circa un decennio ed oggi la chiesa barocca è tornata al suo splendore di un tempo. Ma la fedeltà mantenuta per la struttura s’imponeva anche per gli arredi e per le decorazioni; e, anche qui, è stato determinante l’apporto di Sgarbi nel pervenire alla decisione di chiamare quegli artisti figurativi che “non desiderassero mostrare la loro diversità di atei o la loro condizione di uomini dell’età dell’ansia, ma mostrassero invece una poetica assolutamente adeguata al luogo, con la piena disponibilità ad eseguire un’arte devozionale sia rispetto all’iconografia, sia rispetto alla forma”.
E quegli artisti hanno saputo rispondere alla chiamata (non ve ne sono molti in giro capaci di farlo, ma Sgarbi, che se ne intende, ha saputo scovarli, anche se probabilmente ve ne sono altri che egli ancora non conosce), affrescando le volte, rifacendo le vetrate, dipingendo tele per la Via Crucis, scolpendo figure di santi da collocare nelle nicchie, ecc. (il cantiere è ancora in fieri e il lavoro di decorazione deve essere completato) realizzando quella specie di miracolo che è di ricreare, come dice ancora Sgarbi, “uno spazio nel quale siamo tutti chiamati a risarcire quanto è andato perduto. E’ un risarcimento che richiede umiltà rispetto all’architettura e alla pittura, per ricreare l’effetto di un luogo che non è del nostro tempo – come di fatto è, essendo ricostruito – ma del Settecento, dell’Ottocento, del primo Novecento… Al termine di tutti i lavori sarà interessante capire fino a che punto questa sfida è stata vinta e se è stata favorita dalle circostanze o meno. Occorrerà, in questo, tenere presente che si è operato non in una chiesa nuova, senza nessun riferimento alla tradizione architettonica, ma nell’ambito della ricostruzione di un edificio del Settecento. E quindi, quando entreremo, e già entrando oggi, nella Cattedrale di Noto avremo la sensazione di vedere un cantiere, un laboratorio dell’arte contemporanea, senza che questa debba necessariamente essere legata al preconcetto o al pregiudizio dell’avanguardia, dell’astrazione, dell’informale, delle ricerche profane che hanno caratterizzato gran parte del Novecento”.