L’origine del disastro liturgico-musicale. Ottava parte: l’Ascensione e la Pentecoste  –  di Mattia Rossi

di Mattia Rossi

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Se è vero che con l’Ascensione e la Pentecoste si chiude liturgicamente il ciclo pasquale, è anche vero che, da un punto di vista simbolico e retorico, le due feste hanno anche una stretta correlazione con l’Avvento e il Natale dei quali sono il completamento.

Duplici sono i richiami, nel repertorio dell’Ascensione, all’attesa per la seconda venuta – propria dell’Avvento – e all’Incarnazione. Basta leggere l’introito Viri Galilaei, che “cita” melodicamente il communio d’Avvento Ecce Dominus veniet, e l’offertorio Ascendit Deus dove, per ben due volte, ricorre lo stesso intervallo melodico di quinta che apre, sulla parola «puer», l’introito del giorno di Natale Puer natus.

Come nel Natale si era celebrata l’Incarnazione, ovvero la discesa del Figlio di Dio sulla terra, così nell’Ascensione si celebra l’ascesa dello stesso Figlio di Dio: e il gregoriano rammenta questo con un segnale musicale che diventa, così, un segnale teologico.

L’introito della solennità di Pentecoste, invece, ha il preciso scopo di chiudere il tempo pasquale. Scrivevamo nella scorsa puntata di questa rubrica come il repertorio delle domeniche dopo Pasqua fosse interamente costellato da una sensibilità laudativa di stampo universalistico: erano ricorrenti, infatti, le espressioni come «Iubilate Domino omnis terra», «Laudate Dominum omnes gentes», «Iubilate Deo universa terra…», «Nuntiate usque ad extremum terrae…», «Benedicite gentes Dominum Deum nostrum» e simili.

Ebbene, queste costanti sottolineature dell’universalità della redenzione pasquale trovano sintesi e compimento proprio nel giorno di Pentecoste: «Spiritus Domini replevit orbem terrarum, alleluia, et hoc quod continet omnia, scientiam habet vocis, alleluia, alleluia, alleluia» (Lo Spirito del Signore riempie l’universo, alleluia, e, abbracciando ogni cosa, conosce ogni voce, alleluia, alleluia, alleluia), canta l’introito.

Anche la musica delle prime parole sembra tradurre questa “universalità” partendo dal punto più grave del brano, la prima nota su «Spiritus» (incipit melodico ricavato dall’omonima antifona del repertorio dell’Ufficio), per arrivare all’estremo acuto su «orbem» formando un ideale abbraccio in musica dei due antipodi melodici del brano, figura degli antipodi dell’orbe.

Una piccola chiosa, per tornare da dove eravamo partiti, ovvero all’Incarnazione, va fatta anche sull’antifona di comunione Factus est repente. Anche questa composizione è strutturata attraverso una connotazione fortemente trinitaria e simbolica: il brano che narra la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli si apre con la stessa formula d’intonazione dell’introito natalizio Puer natus, il brano della kenosis, della discesa sulla terra di Cristo. Ancora una volta, il Puer natus, il brano che celebra il Natale, la discesa terrena, connota specularmente anche quello dell’ascesa al cielo.

La Pentecoste, conservando una sequenza propria, il Veni Sancte Spiritus, ci permette di spendere finalmente qualche riga di questa rubrica per analizzare questa forma musicale.

Come abbiamo avuto modo di vedere la scorsa puntata, la struttura compositiva di quasi tutti gli alleluia è pressoché simile e comune: le sillabe allelu- sono poco ornate, mentre sulla sillaba finale -ia sfociano lunghissimi vocalizzi. Gli jubilus, che in alcuni casi sono costituiti anche da centinaia di note, diventano ben presto difficilmente memorizzabili. Da qui, nacquero le sequenze. La loro origine è narrata da Notker Balbulus, un monaco del monastero di San Gallo nato nell’840 nell’odierna Zurigo. Egli, che deriso dagli amici per un difetto di pronuncia, dovuto alla mancanza di un dente, si affibbiò il soprannome di “balbulus” (balbuziente), fu l’autore del Liber Hymnorum, la prima raccolta di sequenze dedicata all’allora vescovo di Vercelli Liutwardo.

Notker, nella prefazione del suo Liber, dichiara che ebbe, fin da giovinetto, grandi difficoltà a ricordare le lunghissime catene di note, le longissimae melodiae che caratterizzavano gli jubilus degli alleluia: viste, allora, tali difficoltà egli salutò con gioia le novità apportate da un monaco francese in fuga dopo la distruzione dell’abbazia di Jumièges, ad opera dei Normanni, nell’anno 851. Quel monaco aveva con sé un Antifonario in cui vi si potevano leggere «aliqui versus» in corrispondenza delle sequenze: il melisma, cioè, era suddiviso in sillabe. L’espediente è chiaro: per facilitare la memorizzazione degli jubilus alleluiatici, vennero inseriti dei testi che, poco a poco, divennero autonomi nella loro composizione testuale e musicale.

A partire dal XII secolo, si tentò di avvicinare la sequenza alla forma dell’inno (facilmente memorizzabile e dallo scopo catechetico) introducendo la composizione in versi e la rima. A questo stadio avanzato appartengono le sequenze che il Concilio di Trento mantenne (è stato calcolato che, nelle varie tradizioni manoscritte tardomedievali, si è arrivati a raccogliere circa cinquemila sequenze), e che ancora oggi noi conosciamo, come il Veni Sancte Spiritus, sequenza di Pentecoste, attribuito, probabilmente in modo verisimile, a Stephan Langton (1150 ca.-1228), cardinale e arcivescovo di Canterbury.

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