L’origine del disastro liturgico-musicale. Prima parte: Che cos’è il gregoriano? Un inquadramento storico e documentale  –  di Mattia Rossi

di Mattia Rossi

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Abbiamo inaugurato questa rubrica mensile dedicata alla musica liturgica con una lunga presa d’atto di quella che è un’amara evidenza: la liturgia e la musica sacra stanno attraversando una crisi che non ha eguali, sia come mole della dissoluzione liturgica sia come livello qualitativo della nuova musica, causata dal sovvertimento del rito preparato dal Vaticano II e coronato con l’introduzione del Novus Ordo o altrimenti detto messale di Paolo VI. (vedi: L’origine del disastro liturgico-musicale – Introduzione)

Accanto a questa constatazione – sia pur non occupandoci della nuova Messa – denunciavamo come l’abbandono del canto gregoriano non rappresentasse solamente un fatto deprecabile sul piano estetico o formale, ma fosse un grave atto di abiura dell’autorità della Chiesa in quanto, al di là delle banali difese d’ufficio, esso incarna ontologicamente – e non solo accidentalmente o storicamente – la dottrina cattolica.

In questa puntata (e anche nella prossima) mi pare, dunque, utile tentare di rispondere con i lettori di “Riscossa Cristiana” a qualche domanda che non può rimanere inevasa: perché il gregoriano è così fondamentale tanto da definire il suo ripudio un’abiura? qual è la sua vera natura? da cosa nasce? che cosa rappresenta all’interno della liturgia cattolica?

Per rispondere a simili interrogativi, occorrerà definire preliminarmente alcuni paletti che ci consentano di aver chiaro di cosa si stia parlando quando menzioniamo quella categoria così generica che va sotto il nome di “canto gregoriano”.

Innanzitutto, è necessario compiere un inquadramento di natura cronologica. Come dicevamo, “canto gregoriano” si presenta come un maxi-contenitore nel quale comunemente si tende a far confluire di tutto: dal salmo in retto tono al tractus iper-melismatico, dalla Messa “de Angelis” ai canti vari come la Salve Regina o l’Adoro te devote. In realtà, quando parliamo di gregoriano, ci riferiamo a quel repertorio, definito tecnicamente “autentico”, composto ad uso liturgico grossomodo tra il IX e il X secolo e frutto di una “fusione” tra la tradizione romana, assai ricca dal punto di vista del ciclo di lezioni, e quella gallicana, molto più ornata dal punto di vista musicale, operata dai Carolingi.

I primi documenti relativi alla formazione del repertorio gregoriano affondano le radici nell’VIII secolo. A quest’altezza, però, i manoscritti non sono ancora notati musicalmente: la trasmissione delle melodie avviene ancora esclusivamente per via orale. E’ a partire dal X secolo che i testi dei manoscritti vengono sormontati da segni denominati successivamente dagli studiosi “neumi in campo aperto”: essi si presentano come punti, stanghette, vermicelli, chioccioline, lettere, e una miriade di altri segni. (clicca sull’immagine per ingrandirla)

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Tutti questi segni, si scoprì in seguito, non stavano ad indicare delle melodie precise (vedremo più avanti il loro significato). Le indicazioni melodiche precise vennero introdotte tra il X e l’XI secolo attorno prima a una e poi a due linee tirate a secco: rossa la linea del Fa, gialla la linea del Do.

A questo punto, ovverosia nel momento in cui si tende a perdere memoria delle melodie che prima erano trasmesse oralmente e quindi si sente la necessità di “notarle” sui codici, possiamo dire che il gregoriano ha già aperto le porte alla decadenza. Per questo, ciò che venne composto in seguito non si definisce più propriamente gregoriano autentico, ma post-classico perché muta in modo sostanziale le tecniche compositive. E fu un mutamento talmente sostanziale che, di lì a poco, portò alla nascita di un nuovo genere musicale: la polifonia.

Detto questo, però, non bisogna correre il rischio di ritenere il canto liturgico nato nel IX secolo. Le radici del canto cultuale cristiano risalgono alle prime comunità. Anzi, a Nostro Signore stesso che, come narrano i vangeli, può essere considerato il “primo cantore”: «E dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il Monte degli Ulivi». In ogni caso, come ho scritto nel mio Le cetre e i salici, il canto sacro è certamente attestato da san Paolo: «Quando vi adunate alcuni tra voi cantano il salmo» (1Cor 14,26); «[…] trattenendovi fra di voi con salmi, inni e cantici spirituali» (Ef 5, 19); «Ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando nei vostri cuori a Dio, per impulso della grazia, con salmi, inni e cantici spirituali» (Col 3, 16); «Verso mezzanotte Paolo e Sila, in preghiera, cantavano inni a Dio, mentre i carcerati stavano ad ascoltarli» (Atti 16, 25).

Dal II secolo abbiamo altre diverse testimonianze: Tertulliano, nel De anima, descrive come si svolgeva la liturgia di allora citando espressamente «psalmi canuntur» (canto dei salmi). Interessantissima (anche in relazione all’attualità, se vogliamo) l’ammonizione di Clemente Alessandrino che, a fine II secolo, nel Pedagogo scrive: «Si scelgano musiche dignitose, allontanando il più possibile le musiche di effetto svenevole atte a sollecitare il nostro prepotente istinto».

La musica sacra e liturgica cristiana, dunque, nasce in seno alle prime comunità e, gradualmente e organicamente, progredisce e accresce per circa otto secoli fino a giungere ad un repertorio stabile e organizzato nei secoli dell’apogeo gregoriano.

La seconda necessaria restrizione che occorre fare riguarda il repertorio: il discorso che condurremo già a partire dalla prossima puntata e finalizzato a comprendere correttamente l’essenza del gregoriano, riguarderà solamente i brani del Proprium Missae, cioè le parti cosiddette variabili: introito, graduale, alleluia, offertorium e communio.

Queste cinque parti si possono ulteriormente dividere in altre due categorie: i canti della schola cantorum (introito, offertorio e communio) e i canti del salmista (graduale e alleluia o tractus). Sono i canti sui quali si intervenne maggiormente, i canti che meglio di tutti potranno darci l’idea di cosa sia realmente il gregoriano così da rispondere a quelle domande che ci eravamo posti poco sopra.

Le parti del Proprium, come noto, sono anche dette “parti variabili” in quanto cambiano ad ogni Messa, mentre le parti dell’Ordinarium (Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus e Agnus Dei) sono dette “parti fisse” proprio perché sempre presenti (fatta, naturalmente, eccezione per il Gloria in Avvento e Quaresima). Ed è proprio questa terminologia a farci comprendere il perché noi ci occuperemo quasi solamente dei brani del Proprio: è perché essendo i brani che caratterizzano la domenica o la festa si presentano, a differenza dei brani fissati dell’Ordinario, come i più ricchi di melodie e di informazioni retoriche che, durante il corso dei nostri appuntamenti, cercheremo in parte di analizzare.

Un’ultima chiarificazione sempre legata a questo discorso sul repertorio, ci può giungere dal fondo documentale al quale attingeremo. I principali manoscritti contenenti il Proprio della Messa e che, sin dalla prossima puntata, verranno utili per le nostre analisi sono, sostanzialmente, appartenenti a due famiglie: quella sangallese e quella metense.

Al primo ramo appartengono diversi codici (San Gallo 339, Cantatorium 359 o Einsiedeln 121, ad esempio), mentre alla seconda appartiene praticamente un solo manoscritto fondamentale, il Laon 239. Sulla decifrazione di queste due scuole – argomento che costituirà l’oggetto della prossima puntata – si sono concentrate tutte le conquiste semiologiche che ci hanno permesso di riscoprire la vera essenza del gregoriano.

Ecco, queste erano le principali indicazioni metodologiche che mi sembrava doveroso definire cosicché, nel prosieguo del nostro addentramento nel canto sacro liturgico, quando ci riferiremo al gregoriano daremo per scontato il fatto che esso sta ad indicare il repertorio del cosiddetto “fondo autentico” e riguardante il Proprio della Messa.

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