L’origine del disastro liturgico-musicale. Settima parte: La Pasqua  –  di Mattia Rossi

di Mattia Rossi

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La Pasqua è, per antonomasia, il tempo dell’alleluia. Tale canto, che letteralmente significa “lodate Dio” (allelu, lodate + Yah, contrazione del tetragramma sacro), nei primi manoscritti compare come canto precedente il vangelo riservato solamente al giorno di Pasqua. Venne poi esteso a tutto il tempo pasquale e, ai tempi di Gregorio Magno, a tutte le domeniche dell’anno, fatta eccezione per la Quaresima.

Storicamente, il carattere dell’alleluia era di “preparazione” alla lettura evangelica seguente (come il graduale era di “meditazione” sulla lettura precedente). Da un punto di vista compositivo, invece, soprattutto nella struttura del versetto, esso si presenta come brano molto ornato e di natura virtuosistica, ben lontano dall’“acclamazione” come è (erroneamente e antistoricamente) inteso oggi.

Questo, per inciso, dimostra quanto del tutto illogica, oltre che nefasta, fu la riforma di Bugnini & Montini: ad oggi, infatti, all’interno della “messa” Novus Ordo, è del tutto naturale considerare l’alleluia un’acclamazione e non un vero e proprio canto tanto da esser stato praticamente ridotto ad un breve intervento o ritornellino il più delle volte privo del versetto. Il “messale” montiniano ha tolto, in sostanza, la funzione liturgica propria dell’alleluia di canto interlezionale prima del vangelo.

Ma tornando al nostro discorso, ben più interessante delle porcherie moderniste, occorrerà notare il messaggio simbolico che l’alleluia propone. Quasi tutti gli alleluia, infatti, sono strutturati in maniera simile: le sillabe allelu- sono, generalmente, poco ornate, mentre sulla sillaba finale -ia sfociano lunghissimi vocalizzi detti jubilus. Questo sta a simboleggiare che sul nome DIO la musica ne trascende il concetto e il canto si trasfigura: Egli è l’impronunciabile per eccellenza e neanche la musica, nemmeno con un’infinità di note, riesce a descriverLo. L’alleluia è il canto che più ci ricorda la distanza incolmabile tra l’immanenza terrena e l’Immacolato Sacrificio, l’indispensabile distanza tra la debolezza umana e la potenza di Dio.

L’alleluia, dunque, nella sua concezione meta-sonora, diventa il canto nuovo del salmo 95: la letteratura patristica, vera fonte esegetica per il compositore gregoriano, ci insegna che dobbiamo «cantare un canto nuovo» perché nella risurrezione di Cristo «tutto è rinnovato» (Cirillo di Alessandria). E il canto della Pasqua è proprio l’alleluia.

Sul repertorio pasquale si può anche condurre un’analisi di carattere macroscopico leggendo questo tempo nella sua globalità.

Esso è interamente costellato, sin dal primo brano proprio del tempo (il I cantico della Veglia), da una sensibilità laudativa di stampo universalistico riassumibile in espressioni come «Iubilate Domino omnis terra», «Laudate Dominum omnes gentes» e simili. Nel repertorio pasquale, queste espressioni ricorrono complessivamente nove volte: I e IV cantico della Veglia pasquale; introiti della III, IV, V e VI domenica dopo Pasqua; alleluia e offertorio della V domenica dopo Pasqua; introito della domenica di Pentecoste.

È evidente come, con la risurrezione, abbia inizio l’annuncio di Cristo e del suo Regno a tutti i popoli: ecco, allora, chiaro perché tale repertorio insista a dismisura non tanto sulla risurrezione in sé, quanto, piuttosto, sulla funzione salvifica che essa assume dinanzi all’universo intero.

E ciò che completa questa struttura universalistica è il suo inserimento in una dimensione trinitaria: «Spiritus Domini replevit orbem terrarum» annuncia l’introito di Pentecoste – la solenne chiusura del tempo pasquale – a ricordare che la potenza del Padre che ha risuscitato il Figlio si manifesta ai popoli tutti per mezzo dello Spirito.

1 commento su “L’origine del disastro liturgico-musicale. Settima parte: La Pasqua  –  di Mattia Rossi”

  1. Per moltissimi, già il comprendere l’influenza dell’estetica moderna, è un traguardo ardito. Comunque il buon senso riesce ancora a individuare l’aggressione più evidente, come quella ostentata nell’arte. Mi chiedo invece, quanti sono quelli che registrano l’erosione, sottile e continua, che pervade le sonorità attuali? Non parlo del rock parasatanico. È un fenomeno più sottile e perfino più insistente della “musica”: sono i jingles. I ritornelli commerciali derivati dal coacervo scampanellante delle nenie, dal ritmo delle marcette, dall’enfasi di annunci di tromba e ritmi ipnotici, afro-orientali; il mondo pagano dell’antica suggestione, permeato di tecnica e sintesi moderna. Un potente repertorio di persuasione controtradizionale.
    Ci si può indignare di fronte a immagini equivoche, ma più difficilmente ascoltando suoni. La sacralità del Gregoriano emerse in un mondo naturale, silenzioso. Lo schitarramento Ecumenico nasce dalla stessa fonte dei jingles: l’incantamento sonoro moderno.

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