“Bildungsroman”, ebbene, questa volta mi son trovato fra le mani un “romanzo di formazione”. Per la verità – e per la canicola estiva – cercavo una storia che mi portasse qualche ora a bighellonare nel vecchio Sud degli Stati Uniti, così da chiudere gli occhi, assaporare mentalmente il gusto del caffè nero e delle pannocchie arrosto, ritrarre di scatto il collo per l’afrore misto di maiali, erbe di campo e sudore nero, salito alle bianche narici imborghesite. E, con un po’ di fortuna, magari sentirmi ancora bambino fra i filari di mais o sentire la brezza della sera fra i bottoni di una vecchia camicia smunta mentre guardo le lucciole. 

Forse volevo troppo. Forse ho trovato una lanterna. L’ultima caccia di Joe R. Lansdale, pubblicato da Einaudi, è un piccolo gioiello di narrativa, troppo breve, come un espresso, ma altrettanto suggestivo, se ci si vuole risvegliare. Se, come disse Steinbeck, «il Texas è uno stato mentale» – e lo è – sarà bene rifornire la nostra mente di una sana dose di Texas prima che sia troppo tardi.

Texas rurale, 1933, Grande Depressione. Questo è il racconto del giorno in cui un ragazzino, Richard Dale, vede svanire la propria infanzia per sempre. Ai ragazzi di ogni generazione necessitano esempi. Anche oggi, in questo tempo sciapo, in cui i nostri figli vivono dondolando fra l’irrealtà dei videogiochi e l’impossibilità di procurarsi esperienze vere, anche solo lo sbriciolarsi polveroso della corteccia secca dell’asse tarlata di un fienile dentro al colletto della maglietta, perché tutto è divenuto illegale, immorale o fa male alla salute, e l’assistente sociale è dietro l’angolo in attesa di rinfacciare certe incapacità genitoriali come la responsabilizzazione. 

Il lavoro di Lansdale, sarà forse una lettura semplice da un punto di vista strettamente linguistico letterario, ma è certamente adatto alle letture estive degli adolescenti, molto più di certi mattoni generatori di nichilismo cosmico o delle lagne politiche sinistroidi appioppate loro dai docenti per le vacanze. Prima di tutto è una storia di caccia, niente di più fuori moda e meno politicamente corretto. Poi è un libro formativo, perché, come raccomanda il padre agricoltore del protagonista accomiatandosi dalla moglie: «Guarda che i ragazzi facciano quello che devono, ma che facciano anche i ragazzi». Un concetto, derivato dalla semplice saggezza rurale, che vale più di un trattato di pedagogia urbana. 

Più che altro, questa storia narra del dovere, ma non quel dovere astrattamente moralistico, sciacquatura di coscienze adulte, parla del dovere morale come può concepirlo solamente il cuore onnipotente e innocente di un bambino. È un racconto che parla di vita e amicizia vissuta oltre il colore della pelle, oltre l’analfabetismo onesto di chi si mette in gioco anima e corpo prima di pensare ad accampare diritti. Ecco, in questa storia nessuno accampa diritti, a parte il diritto a sopravvivere, anzi il diritto a vivere una vita vera. Soprattutto è una storia sana, come quelle che si raccontavano una volta, tanto lontana dalle velleità pedagogiche plastificate, da cartellonistica pubblicitaria contemporanea, del pensiero imbellettato. Una storia mortale, come la vita.

Il retroterra inequivocabilmente autobiografico dell’autore passa in qualche modo, come in soluzione, ad essere la scoperta interiore del lettore. L’intento narrativo è formativo quanto al protagonista della storia, ma pone domande e soprattutto esige risposte dal lettore. Il Vecchio Satana scruta tutti noi. E almeno una volta nella vita ciascuno di noi ha dovuto affrontare – o dovrà farlo – il suo personale “Cinghiale del Demonio”. Il libro pone una domanda anche a me, perché, come il mulo Felix, anche di me, oltre a non essere mai stato pronto a morire di fatica, non si sarebbe certo potuto dire che fossi «un mulo con una missione nella vita». Lansdale ci conduce nella foresta umida del Texas orientale, dove vive (Nacogdoches, the oldest town in Texas), e dove ci mostra il male «nero come il cuore di un banchiere», lasciandoci infine con un ragazzo che diventa uomo e con la risposta al perché mai dovremmo raccontare storie. E un certo piacere dall’aroma di caffè che ci scivola nello stomaco.

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