di P. Giovanni Cavalcoli, OP
Lutero alla famosa Dieta di Worms, in una vasta sala dell’episcopio, davanti ai membri della Dieta chiamati nell’episcopio presso l’Imperatore Carlo V, assemblea presieduta dal giureconsulto Giovanni von Eck e dall’ufficiale dell’arcivescovo di Treviri Riccardo di Greiffenklau, all’ingiunzione dell’Eck di ritrattare le sue eresie già da tempo condannate dal Papa, si rifiutò con la famose parole “l’andare contro coscienza non è cosa sicura né cosa buona”[1].
Lutero invocò un principio in sé giusto così come suona. Ma il problema è quale concetto Lutero aveva della coscienza. La coscienza – lo aveva già fatto notare S.Tommaso[2] – va certo seguìta anche se erra in buona fede. Tuttavia la coscienza è tenuta ad aderire alla verità oggettiva e quindi ad informarsi presso di essa, perché la coscienza non è principio primo ed assoluto della verità, ma è retta e buona solo se si regola sul dettame della verità oggettiva. Diversamente, essa non è scusabile, ma pecca ed è tenuta a ritrattarsi e a correggersi per essere nella verità.
Ora Lutero era stato informato più che chiaramente dall’autorità del Papa che le sue dottrine erano false, per cui egli, come teologo e sacerdote cattolico, cattolicamente educato e compos sui, oltre che membro di un Ordine religioso quale quello di S.Agostino, era cosciente che le due dottrine erano false, per cui il suo appellarsi alla “coscienza” in questa circostanza non poteva costituire una scusante, sì da esonerarlo dal ritrattare i suoi errori, ma al contrario metteva in luce la malizia, la protervia, l’ostinazione e disobbedienza della sua volontà.
Lutero si era fatto quel concetto di coscienza che poi nella storia delle eresie sarebbe stato chiamato “soggettivistico” e che purtroppo avrebbe fatto scuola nei seguaci di Lutero sino ai giorni nostri: una “coscienza” che non regola sulla verità oggettiva, perché questa non esiste o è irraggiungibile, ma che è regola a se stessa, sotto eventuale pretesto di essere direttamente illuminata da Dio indipendentemente e contro l’interpretazione della Parola di Dio data dall’autorità della Chiesa.
Naturalmente i seguaci di Lutero non si sono limitati a scusare Lutero quasi sbagliasse in buona fede, ma ne hanno fatto un riformatore della Chiesa decaduta a causa del Papato, un ricopritore della verità evangelica oscurata dalle eresie di Roma, mentre nel contempo l’idea luterana di coscienza veniva corroborandosi e arricchendosi di nuovi sofistici argomenti che potessero coonestare la ribellione di Lutero dandole una parvenza di “libertà evangelica”.
A questo punto il cattolico Cartesio venne, non sappiamo se coscientemente o senza accorgersene, a dare una mano al concetto luterano di coscienza, che aggravava la tendenza illuministica teologica agostiniana (“Dio luce immediata della mente”) con la sua diffidenza nei confronti della conoscenza sensibile, l’ “interiorità” della verità e l’accentuato coscienzialismo.
Tuttavia mentre Agostino, sulla scorta dello stesso insegnamento biblico, salvava tutto sommato il realismo del senso, l’oggettività della comunità ecclesiale e il principio di causalità come via verso Dio, Cartesio faceva partire la conoscenza dal cogito, intendeva Dio come un’idea innata ed accettava le cose esterne solo in quanto rivelate da Dio. Tutto ciò, benchè giustificato con la “ragione” dava un buon appoggio al fideismo irrazionalista luterano, perché in fin dei conti anche Cartesio era scettico nei confronti della ragione sensibile e confondeva la stessa ragione con una divina rivelazione, cosa che poteva ben conciliarsi con l’illuminismo fideistico luterano.
Nacque così il nefasto connubio Cartesio-Lutero sviluppato dal sec,.XVII sino ai nostri giorni in Germania per produrre prima il razionalismo di Leibniz e Wolff e poi l’idealismo trascendentale di Kant, Fichte, Schelling ed Hegel, sino agli epigoni di ieri, Spaventa, Gentile e Croce, e quelli dei nostri giorni, Heidegger e Severino.
La conoscenza di sé certamente è un’istanza antichissima del filosofare, testimoniata tra l’altro dal famoso “conosci te stesso” dell’oracolo di Delfi, citato persino nell’enciclica Fides et Ratio del Beato Giovanni Paolo II. Platone era ben consapevole dei logoi interiori come modelli del pensare e dell’agire, Aristotele conosceva bene la dottrina del pensato, tanto da elaborare in base ad esso la scienza della logica, S.Paolo ci parla con l’autorità della parola di Dio della coscienza morale della legge naturale, presente anche nei pagani, Agostino ha il famoso “si fallor, sum”, l’Aquinate ha splendidi e profondi pensieri sulla conoscenza-esperienza abituale che l’anima ha di se stessa (De Veritate, q.10,a.8), Caterina da Siena, sulla scorta di Agostino, parla da maestra del “cognoscimento di sé”.
Ma tutti questi autori non si sognano neppure di fare di quello che Kant chiamerà l’“Io penso” (Ich denke überhaupt) il punto di partenza e l’assoluto essere dal quale partire per lo sviluppo del sapere, come apparirà chiaramente in Fichte.
Per tutti questi autori invece l’autocoscienza non costituisce affatto un principio fondante dell’essere e del sapere, ma, per quanto preziosa e preziosissima, non è che una luce interiore creata da Dio e coltivata dalla buona volontà, un criterio morale, che guida nel compimento del bene e giudica delle opere compiute sulla base di una legge morale oggettiva, emanata da Dio e dalla comunità, quindi da una norma esterna alla coscienza, norma che la coscienza è tenuta a conoscere, senza che per questo le sia proibito in base a quella norma ma solo in base ad essa elaborare direttive più concrete come applicazione della norma morale ai casi della vita.
Il concetto veramente saggio e cristiano di coscienza importa quindi la coscienza dell’universalità e dell’oggettività del vero, precedente, superiore e indipendente dalla coscienza, proveniente da Dio magari per il tramite dell’autorità civile o ecclesiale, e norma sicura e vincolante per ogni onesta e leale coscienza che voglia guidare i costumi alla vera felicità.
[1] Cf Hartmann Grisar, Lutero, la sua vita e le sue opere, Società Editrice Internazionale, Torino 1944, p.175.
[2] Summa Theologiae, I-II, q.19.