MA CHE MUSICA MAESTRO – rubrica quindicinale di Fabio Trevisan

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Paolo Conte. Il provincialismo dandy di un ex avvocato

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“Il dandy è più puro e più profondo, lo snob è più raffinato, ma anche più superficiale”

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In uno dei suoi ultimi album,“Snob”, del 2014, Paolo Conte criticava il modus vivendi ricercato e falsamente aristocratico: “Perché adesso tu parli così? Stai arrotando tutte le erre, forse tu pensi che tutto sembri più nobile, snob”. Allo snobismo vacuo egli preferiva l’ostentazione provocatoria, capace di far riflettere, seppur ambiguamente, di un dandy come ad esempio Oscar Wilde.

L’astigiano avvocato Paolo Conte, conscio del provincialismo italico (“Le mie canzoni rappresentano la peculiarità di tutta la cultura italiana, che ha una forte connotazione provinciale”) ha alternato brani popolari e irrisori di costume a rimandi esotici, di località, personaggi e lingue diverse. In una delle sue più conosciute canzoni, Bartali, Paolo Conte lasciava trasparire la fatica del vivere quotidiano: “Quanta strada nei miei sandali, quanta ne avrà fatta Bartali, quel naso triste come una salita, quegli occhi allegri da italiano in gita…”. Anche nella saga dedicata all’ “Uomo del Mocambo”, quel proprietario di un bar immaginario rifletteva la tristezza ed il grigiore di un uomo comune, specchio di quel malessere esistenziale tipico della contemporaneità, a cui Conte ha sempre cercato di fuggire, come asserito dalle sue testuali parole: “Un invito a distaccarsi dalla barbarie del quotidiano”. In un’altra sua celebre canzone, “Onda su onda”, resa famosa nell’interpretazione di Bruno Lauzi, Conte usava la metafora della nave per ripudiare il mondo da cui si doveva fuggire per approdare su un’isola deserta: “Che acqua gelida qua, nessuno più mi salverà. Son caduto dalla nave, son caduto mentre a bordo c’era il ballo. Onda su onda il mare mi porterà alla deriva, in balìa di una sorte bizzarra e cattiva. Mi sto allontanando ormai, la nave è una lucciola persa nel blu, mai più ritornerò…”. Anche nel pezzo “Un gelato al limon”, portato in tournée con successo negli stadi nel 1979 da De Gregori e Lucio Dalla, Paolo Conte denunciava il non sense di una vita amara, resa un po’ più dolce dal sapore effimero di un gelato: “Sprofondati in fondo a una città, mentre un’altra estate se ne va”.

La ricerca dell’esotismo, oltre a qualificarne il provincialismo dandy, permetteva così al cantautore e pianista piemontese di ammorbidire l’impatto con una realtà da cui fuggire, come espresso nella canzone Aguaplano: “Scendi, pilota, fammi vedere, scendi a bassa quota, che guardi meglio e possa raccontare cos’è che luccica sul grande mare…gira, pilota, recuperiamo il cielo ad alta quota, torna nel mondo dal bel colore baio…”. Per Conte l’esotismo era espresso con queste sue parole: “Il mio esotismo è un malessere che i francesi chiamano ailleurs, il senso dell’altrove, ed è una forma di pudore, in modo che certe storie della vita reale vengano trasferite in un teatro più lontano per attutire il senso della realtà”. Come indicato nel brano “Il quadrato e il cerchio”, in Paolo Conte si riflette una filosofia pessimistica e disillusa, “Il tempo è un cerchio che finisce là dove comincia”, a cui si cerca inutilmente di fuggire. Così anche l’appello all’andarsene, ripetuto nella canzone “Vieni via con me” rimane senza contenuti e reso ironico e triste da un improbabile “It’s wonderful”. Paolo Conte ha fatto riferimento pure alla vita circense, come rimarcato dalla sua stessa voce e dal pensiero che sottende alle sue canzoni: “Il tipo di applauso che io desidero è quello circense. Lavoro con lo spirito dell’acrobata che in equilibrio cammina sul filo teso”.

Nella deformazione della realtà e nell’obliquità del suo sguardo, manifestato anche dalla posizione ricurva sul pianoforte e da quella voce rauca e dimessa, Paolo Conte ha palesato quanto espresso nel titolo significativo (Una faccia in prestito) di un’altra sua canzone: “Con una faccia imprestata da un altro, che se ti fa comodo, d’altra parte vorresti la tua da offrire a quel pubblico, che ti guarda come a carnevale si guarda una maschera”. Nella celeberrima Genova per noi traspare ancora il triste e incomprensibile apparire del quotidiano e la mancanza di senso che rende la realtà ottusa e quasi impenetrabile: “Con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così che abbiamo noi prima di andare a Genova, che ben sicuri mai non siamo che quel posto dove andiamo non ci inghiotte e non torniamo più”.

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