Tempo di maschere e mascherine. Quelle che cerchiamo di procurarci contro il coronavirus e quelle che stanno cadendo dappertutto, svelando il vero volto di un’era bastarda, pardon meticcia. La nostra orgogliosa civilizzazione ha carenza di mascherine. Costruiamo computer potentissimi, investiamo in fibre per la comunicazione superveloce, spariamo nella biosfera satelliti per scandire con precisione infinitesima l’economia e la vita, ma abbiamo trascurato le mascherine. E’ la globalizzazione, bellezza. Abbiamo creduto all’ebreo inglese mezzo portoghese David Ricardo, il quale proclamava che dobbiamo produrre solo quello che si può realizzare ai costi più bassi. Padre della delocalizzazione, gran maestro di un cosmopolitismo ad esclusiva misura del denaro, enunciatore della legge ferrea dei bassi salari, Ricardo è, nell’Olimpo globalista, il dio più venerato. Adam Smith freme di rabbia: un dio minore, lui credeva ancora nelle nazioni, alla cui ricchezza intitolò la sua Indagine; per di più teorizzò che il mercato- con la sua manona invisibile dallo schiaffo pesante come un manganello- potesse essere derogato per motivi di salvezza pubblica.

Secondo Morgan Stanley, la grande banca d’ affari del mondo, covo di eleganti criminali in giacca e cravatta, l’85 per cento della produzione di mascherine e di fibre di polipropilene, capaci di filtrare la polvere e gli agenti patogeni nei respiratori medici si concentra in Cina. Sempre la Cina, fabbrica del mondo, è la maggiore esportatrice di tele non tessute. Così, in ossequio alla globalizzazione, con il suo carico di delocalizzazione, interdipendenza industriale e produttiva, abbiamo perduto settimane – e vite umane – per mancanza di mascherine. Siamo troppo superiori, troppo evoluti per fabbricare manufatti tanto modesti, dal basso valore aggiunto. Chissà che ne pensa la sartoria familiare sotto casa, fino a ieri impegnata in piccole riparazioni, adesso dedicata anima e corpo a confezionare mascherine per la cattività babilonese degli abitanti del quartiere San Fruttuoso.

Che bello, esultavano commossi, emozionati, i sostenitori del globalismo, un mondo interdipendente, dove tutti hanno bisogno degli altri e fanno qualcosa per gli altri. Favole. Esempio concreto: i limoni argentini fuori stagione viaggiano per settimane entro contenitori frigo su navi gigantesche costruite in cantieri altrettanto immensi situati laddove la manodopera è meno cara, alimentate ad idrocarburi estratti con i più vari metodi – alcuni distruttivi come il fracking -; sbarcano in porti sottoposti a enormi dragaggi per ospitare i mostri del mare, successivamente sono immagazzinati in orrendi parallelepipedi sparsi per le vie di comunicazione, in attesa di raggiungere i supermercati per entrare nei quali, dopo la coda all’ingresso (il distanziamento sociale) servono mascherina e guanti monouso, un sottoprodotto degli idrocarburi.

Sì, è un mondo in maschera, la cui nuova icona è la mascherina che indossiamo per uscire, furtivi come gatti, con il tasca l’autocertificazione (oh, la società aperta), rasentando i muri e maledicendo i concittadini, troppo vicini, uno stranutisce, forse mi sta contagiando. Perché non sta a casa, come ripetono in televisione? Homo homini virus. Ma è caduta la maschera: ognuno per sé e Dio per tutti. È un modo di dire, ovviamente, Dio non c’entra nulla, non ci crediamo, le chiese sono sigillate in tempo di quaresima. Non aspettano più la resurrezione, Fra Cristoforo è un pessimo esempio: morì di peste per non essersi “distanziato”, aver portato aiuto e speranza. Meglio Don Abbondio, il coraggio chi non ce l’ha non se lo può dare. Dal chiuso della sua fortezza semiabbandonata, la chiesa “in uscita” – i pastori che puzzano di pecora e trascurano la dottrina in quanto esaltano la profezia – invita su Avvenire a non chiedere a Dio il miracolo di allontanare il contagio. Sarebbe immaginare l’Altissimo come un mago, dicono, un prestigiatore armato di bacchetta. Cade un’altra maschera, quella della fede, centra il bersaglio l’orribile vignetta di Vauro in cui Gesù non esce dal sepolcro a Pasqua per mancanza di autocertificazione, non controfirmata dai nuovi teologi.

Silete theologi in munere alieno, intimava Alberico Gentili, primo giurista “positivo”, tacete, teologi, sulle questioni che non vi riguardano. Meglio Giorgio Calabrese, il paroliere di Domani è un altro giorno: “la mia fede è troppo scossa ormai, ma prego e penso fra di me, proviamo anche con Dio, non si sa mai.” Sta cadendo, in queste interminabili giornate scandite dai numeri dei contagi, dalle conferenze stampa di spettri mascherati da esperti o da responsabili politici, la maschera della libertà, insieme a quella della verità. Covid 19, il nome d’arte del virus, è esso stesso una maschera. Quella che sta indossando il potere per terrorizzarci e insieme rassicurarci: restate a casa, tutto andrà bene, grottesche maschere sotto le quali tenta di nascondersi l’impotenza, mentre incede una nuova, insidiosa tirannia che approfitta dell’emergenza per entrare nelle nostre vite, mascherata con il camice del medico, l’abito dell’esperto, il tocco e la toga del legislatore, per stringere il cappio, armata di droni, trojan informatici e decreti, le grida manzoniane al tempo della peste post moderna.

Se avremo torto, ce lo dirà il futuro prossimo; non teniamo al ruolo di profeti di sventure, la maschera di Cassandra non ci piace, ma grande è il timore per la maschera sorridente e benevola di una società che si proclama aperta e intanto sbarra, controlla, osserva, spia, segna a dito. Da uomini liberi, persone, a pedoni nel gioco degli scacchi. Persona fu, in origine, il nome della maschera dell’attore. Tutti recitiamo una parte, ce lo ha ricordato Luigi Pirandello. Vale innanzitutto per la maschera della serietà indossata dai governanti, per quella orgogliosa, tronfia, grassoccia dei pilastri della società, i padroni della scienza, della tecnica, della capacità predittiva, della statistica, i maestri della “soluzione”. Carnevale è finito, la quaresima rivela la verità. Non c’è stato bisogno di una mano umana per strappare la maschera, è bastato un esserino invisibile, in fondo fragile, con poche ore di vita, il Virus.

Siamo tornati all’origine, allo statuto incerto, caduco, di creatura timorosa, diafana come i guanti di protezione, un effetto placebo. Restate a casa, animali sapienti ridotti a nuda vita, alito da allontanare, materiale biologico teso a sopravvivere un altro po’. Uomini o topi, poca differenza, condividiamo gran parte del DNA, basta con la maschera di creatura superiore, divina. Il virus ha preso in ostaggio le nostre vite e qualcuno si frega le mani. Tutto tempo guadagnato nel progetto di riduzione zoologica degli umani, specie troppo numerosa, titolare di vacui, ma costosi diritti, in gran parte superflua per l’oligarchia dominante. Il problema, per loro, è che sono cadute altre maschere.

Quella del mercato misura di tutte le cose: chi ha le mascherine, chi possiede gli apparati di protezione se li tiene, a nulla vale che in molti casi siano state già pagate. È nel fango la maschera della scienza onnipotente. Il Virus è arrivato in un baleno, forse già corre a 5G. Quando troveremo i mezzi per affrontarlo sarà comunque tardi. La natura, una volta di più, presenta la fattura; nessuno sconto, nessuna esenzione. Dopo il Covid19, arriveranno, chissà quando, chissà da dove, il 20 e il 21. Nulla di nuovo sotto il sole, mentre rifanno capolino le maschere del teatro popolare. Arlecchino servitore di più padroni, i politici di servizio. I più spudorati si travestono da Pierrot, con la lacrimuccia. Per noi popolaccio, doppia maschera: Pantalone, che pagherà il conto per tutti, e Pulcinella, a cui ci stanno riducendo. Pigro, vorace, opportunista, sfrontato, bastonatore bastonato, Pulcinella rappresenta l’abbandono agli istinti.

La maschera fu un elemento importante delle società tradizionali. L’antropologo Claude Lévi-Strauss le dedicò un saggio, La via delle maschere, in cui spiega la loro importanza nei riti di iniziazione, dove simboleggiavano il mistero e il sovrannaturale. L’essere umano ha sempre avuto l’esigenza psicologica di adottare delle maschere di fronte agli altri, come spiegò il sociologo Erving Goffman nella “Vita quotidiana come rappresentazione”. Per Goffman la libertà individuale è un’utopia e la vita dell’essere umano ha i tempi di una rappresentazione teatrale dove ciascuno non può fare a meno di interpretare una parte. “Quando un individuo interpreta una parte, implicitamente richiede agli astanti di prendere sul serio quanto vedranno accadere sotto i loro occhi. Egli chiede loro di credere che il personaggio che essi vedono possegga effettivamente quegli attributi che sembra possedere, che la sua attività avrà le conseguenze che implicitamente afferma di avere, e che in generale le cose siano quali esse appaiono”.

Noi viviamo in un mondo di rappresentazioni nel quale tutti recitano una o più parti. La modernità ha introdotto nella cultura una modalità, ovvero un potere, per mettere a tacere i dubbi e l’ansia dell’individuo. Il mercato globale impone le maschere suggerite dall’economia di mercato: stili di vita e di comportamento espressi in abiti, automobili, case, viaggi e tutta una serie di feticci (smartphone, marchi) che consentono di conformarsi alla società a scapito della propria individualità, ovvero indossare costantemente una maschera, sentendosi nudi quando la togliamo. Luigi Pirandello, significativamente, intitolò Maschere nude la raccolta delle sue opere teatrali, per esprimere il rapporto problematico tra identità e ruolo, realtà e rappresentazione.

Nel teatro va in scena lo smascheramento dei cliché cui gli uomini sono costretti. Il personaggio (la maschera) viene mostrato nudo, cioè inerme, incapace di opporre resistenza alla frammentazione dell’identità cui è sottoposto. È il palcoscenico a mostrare la falsità delle convenzioni, dei giochi di ruolo, l’incomunicabilità che mina ogni relazione umana. La globalizzazione occidentale è la maschera di milioni, miliardi di esemplari diversamente identici della nostra specie, manovrati da maschere più grandi, il danaro, l’informazione, la pubblicità, la moda, l’apparenza. “Nella società moderna, i cittadini non indossano maschere per rivendicare una coscienza che non possiedono, ma per celare a se stessi qualcosa che è andato perduto. Le nuove maschere della modernità delineano figure costruite dalla razionalità sociale. Sono i personaggi che circoscrivono ed incarnano ruoli e status definiti e pietrificati in una fissità che fa della maschera un collettivo calco mortuario”. (Claudio Bonvecchio).

La vita è una rappresentazione teatrale, affermava Socrate, indicando nella tragedia la raffigurazione più adatta all’esistenza umana. Ebbene, il Coronavirus è la maschera del “deus ex machina”. L’espressione indicava, nel teatro antico, la divinità scesa a sorpresa dall’alto mediante un meccanismo per sciogliere l’intreccio della trama, non risolvibile dai protagonisti umani. Il Covid 19, deus ex machina imprevisto, è arrivato e ha spazzato via d’un colpo tutte le illusioni su cui si sostenevano la globalizzazione mercatista e l’unificazione europea. Osserva Giulietto Chiesa che “non sappiamo quasi niente di lui. Né dove è nato, né come è nato, né quali sono i suoi scopi, sempre che ne abbia, né quanto tempo si fermerà dalle nostre parti. (…) . Si può già dire che questo nuovo e imprevisto, indesiderato ospite, cambierà il mondo intero, a cominciare da tutti i capisaldi del vivere comune che hanno caratterizzato gli ultimi due secoli di storia della civiltà umana, di quei due miliardi e mezzo di individui che hanno vissuto, dalla fine della seconda Guerra mondiale, la cosiddetta globalizzazione americana. La quale si proponeva di smantellare non solo tutte le abitudini e le idee correnti del mondo del XX secolo ma (…) puntava a demolire addirittura gli Stati nazionali, ostacoli inutili alla trionfale marcia delle libertà essenziali del neo-liberismo anglosassone dominante.”

Come un esercito vittorioso dalla marcia fulminea, Alessandro Magno più Gengis Khan più Napoleone, il virus ha strappato le maschere e imposto le mascherine. Ha assunto l’iniziativa, si è appropriato della distruzione creatrice già appannaggio del capitalismo. La maschera della solidarietà europea è nel fango, i suoi attori recitano una farsa che non muove al riso neppure i bambini. La Natura ha preso il sopravvento sulle pretese e i regolamenti umani. Addirittura disintegrata è la maschera orgogliosa, che sembrava di marmo, della libertà di movimento degli individui. Era uno dei capisaldi della vanagloria europea. Tutti a casa, distanziamoci, e nessuno invada lo spazio vitale altrui, il nuovo lebensraum sanitario. Le frontiere conoscono nuova popolarità, ai doganieri è restituito il ruolo di custodi e decisori di ciò che è “dentro” e ciò che è “fuori”, persone, merci, servizi. La durata è indeterminata, dipende da un virus. Ritorniamo protezionisti, in economia e non solo. Sventolano le bandiere nazionali, si ammainano o si deridono insegne-maschera come quella blu stellata dell’Unione Europea. Macron in televisione promette: “la Nazione proteggerà i suoi figli”. Molto francese, ma è simile l’approccio di Putin, del re di Spagna, che accorre con guanti e mascherina negli ospedali madrileni, della vegliarda regina Elisabetta che si rivolge ai britannici. Tacciono solo i nostri reggitori: facce di bronzo più pesanti della maschera di ferro di Alexandre Dumas, rintanati nei quartier generali con gel disinfettante.

Avanzano, purtroppo, vecchie maschere riverniciate. La più sinistra ha il ghigno di Mario Draghi nel ruolo del Salvatore. L’uomo per tutte le stagioni, il brillante tecnocrate del panfilo Britannia, consigliere dei vampiri delle privatizzazioni, nostromo della nave finanziaria, ha dismesso la maschera di Dracula per indossare quella seduttiva di Capitan Harlock, il pirata dello spazio che difende dall’ invasione dei signori del denaro, con la benda sull’occhio, la cicatrice sul volto, il capello selvaggio, il fisico sottile avvolto in un mantello nero e l’inseparabile spada laser. C’è qualcosa di nuovo, anzi d’antico nell’ultima prestazione en travesti del gran camerlengo della finanza. A spese degli Stati, ovvero di noi stessi, afferma di voler restituire liquidità a chi sta perdendo lavoro, reddito, servizi, consumi. Riuscirà a imbrogliarci: è un attore consumato, ha alle spalle una claque potente e interessata, dal Quirinale in giù. Dicono sia “l’ultima occasione”, ma è piuttosto la maschera d’emergenza che è urgente strappare, trucco e parrucco.

Inforchiamo la mascherina, indossiamo i guanti, strappiamo il travestimento e gettiamolo tra i rifiuti pericolosi. Esiste una maschera collettiva chiamata popolo. Nel teatro di Lope de Vega, una comunità intera giustizia il prepotente, maschera del potere. Alla domanda dell’inviato del re su chi lo abbia ucciso, la risposta è corale e risolutiva, senza mascherina: todos a una, Fuente Ovejuna, Tutti insieme, il paese di Fuente Ovejuna.

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