Nel nuovo libro di Bruno Vespa famosi giornalisti e Premi Nobel voltagabbana

Enzo Biagi, Giorgio Bocca, Dario Fo, tra gli italiani famosi pronti a cambiar casacca al momento giusto. Il famoso giornalista Luciano Garibaldi, nostro collaboratore e amico, smascherò le bugie di Dario Fo.

Redazione

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zzlbrvspNel suo ultimo libro «Italiani voltagabbana» (Mondadori, 374 pagine, 20 euro), Bruno Vespa dedica un capitolo ai «Giornalisti famosi e Premi Nobel in camicia nera». Un capitolo breve e sferzante, che da solo vale la lettura del libro, uno dei tanti che Vespa ha regalato alla cultura e all’informazione del nostro Paese. Tra questi, ricordiamo «Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi», «Vincitori e vinti», «L’Italia spezzata», «L’amore e il potere».

Ma veniamo al capitolo forse più intrigante del nuovo lavoro del celebre giornalista. Vi si narra, tra gli altri, di Enzo Biagi, di Giorgio Bocca e di Dario Fo. Vespa ricorda che nel 1941 Enzo Biagi, allora ventunenne, recensì il film “Süss l’ebreo”, formidabile strumento della propaganda antisemita di Himmler, sul foglio della federazione fascista bolognese “L’Assalto” scrivendo che il pubblico «era trascinato verso l’entusiasmo», e «molta gente apprende che cosa è l’ebraismo e ne capisce i moventi della battaglia che lo combatte». Biagi era in buona compagnia, nota Vespa. Infatti sullo stesso giornale, fortemente antisemita, si scatenava anche il giovanissimo Giovanni Spadolini, futuro direttore del «Corriere della Sera», mentre una lusinghiera recensione allo stesso film fu firmata dal regista Carlo Lizzani. Biagi restò al «Resto del Carlino», controllato dai fascisti e anche dai nazisti, fino alla tarda primavera del ’44 ricevendo – come tutta la redazione – generosi sussidi economici dal Ministero della Cultura Popolare (il Minculpop). Dieci mesi dopo, Biagi entrava a Bologna con le truppe americane.

Ma veniamo a Giorgio Bocca, mito dell’antifascismo piemontese e non soltanto. Vespa riporta un articolo pubblicato da Bocca l’8 gennaio 1943 sul settimanale «La Provincia Granda», della federazione fascista di Cuneo. Nell’articolo, intitolato «La sberla e la bestia», Bocca racconta che il 5 gennaio aveva incontrato in treno, sulla linea Cuneo-Torino, l’industriale Paolo Berardi, il quale diceva ad alcuni reduci dalla Russia e dalla Francia che la guerra era ormai perduta. Bocca ascoltò, poi gli diede un ceffone e lo denunciò alla polizia per disfattismo. Due anni prima, sullo stesso settimanale, il giovane giornalista aveva scritto un lungo articolo sui «Protocolli dei Savi di Sion», che si sarebbero rivelati poi (ma lui, poverino, non lo sapeva) il falso più clamoroso della propaganda antisemita. Le prime righe dell’articolo recitano: «Sono i Protocolli dei Savi di Sion un documento dell’Internazionale ebraica contenente i piani attraverso cui il popolo ebreo intende giungere al dominio del mondo. . .». E le ultime: «Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell’Europa ariana al  tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù».

E veniamo a Dario Fo. Vespa racconta come Dario Fo si arruolò a 18 anni quale volontario prima nel Battaglione Azzurro di Tradate (contraerea) e poi tra i paracadutisti del Battaglione Mazzarino della Repubblica Sociale Italiana. Il 9 giugno 1977, quando Fo era ormai da anni celebre per i suoi lavori teatrali (tra i quali quello dedicato al commissario Calabresi, da lui ribattezzato «commissario Cavalcioni»),  un piccolo giornale di Borgomanero (Novara), «Il Nord», pubblicò una lettera del suo lettore Angelo Fornara che ne raccontava i trascorsi repubblichini. Fo sporse querela con ampia facoltà di prova, ma il processo non ebbe l’esito da lui sperato. Secondo quanto riferì «Il Giorno» (8 febbraio 1978), l’attore disse in aula che «il suo arruolamento era una questione di metodi di lotta partigiana» per coprire l’azione antifascista della sua famiglia. Ma le testimonianze furono implacabili. Il suo istruttore tra i parà, Carlo Maria Milani, mise a verbale: «L’allievo paracadutista Darlo Fo era con me durante un rastrellamento la Val Cannobina per la conquista dell’Ossola, il suo compito era di armiere porta bombe». E l’ex comandante partigiano Giacinto Lazzarini lo inchiodò: «Se Dario Fo si arruolò nei paracadutisti repubblichini per consiglio di un capo partigiano, perché non l’ha detto subito, all’indomani della Liberazione? Perché tenere celato per tanti anni un episodio che va a suo merito?». Una testimone, Ercolina Milanesi, lo ricorda «tronfio come un gallo per la divisa che portava e ci tacciò di pavidi per non esserci arruolati come lui. L’avremmo fatto, ma avevamo quindici anni…»

«L’11 marzo 1978» – scrive ancora Bruno Vespa – «mentre il processo contro gli accusatori di Fo era in pieno svolgimento, Luciano Garibaldi pubblicò sul settimanale “Gente” una foto dell’attore in divisa della Repubblica Sociale (altissimo, magrissimo come è sempre stato) e un suo disegno dove appaiono alcuni camerati con le anime dei partigiani uccisi che escono dalle canne dei mitra (“Sono apocrife e aggiunte da altri!”, si difenderà). Il 7 marzo 1980 il tribunale di Varese stabilì che “è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani”.  Il futuro Premio Nobel non ricorse in appello e la sentenza divenne definitiva».

2 commenti su “Nel nuovo libro di Bruno Vespa famosi giornalisti e Premi Nobel voltagabbana”

  1. Senz’altro quello di Dario Fo è il caso più vergognoso. Quando si cambia idea e casacca spesso può non essere un qualcosa di negativo (basti pensare all’ex radicale Danilo Quinto convertitosi al cattolicesimo). Il problema è non ammetterlo dopo come hanno fatto la gran parte dei comunisti italiani (falsamente) intellettuali del dopoguerra.

  2. Si sa da lungo tempo che i comunisti sono revisionisti storici provetti; nella mai rimpianta URSS i ritocchi fotografici e le modifiche dei testi di storia allo scopo di far sparire dalla memoria fatti realmente accaduti erano abituali, così come lo sono ancora oggi in Cina.

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