“NIKOLAJEWKA: C’ERO ANCH’IO”, A CURA DI GIULIO BEDESCHI. RICORDO DI UN SACRIFICIO E TESTIMONIANZA DI UMANITA’ – di Giovanni Lugaresi

di Giovanni Lugaresi

 

 

lbcFra i tanti anniversari che ogni anno si ricordano, e/o si celebrano, questo 2013 ne è particolarmente ricco quanto ad opere letterarie legate ad eventi storici. Mezzo secolo fa, arrivava nelle librerie “Centomila gavette di ghiaccio”, di uno sconosciuto ufficiale medico della Julia reduce di Russia, che prima di vederselo stampato da Ugo Mursia, aveva subìto il rifiuto di ben sedici editori.

Quell’autore si chiamava Giulio Bedeschi, morto improvvisamente nel 1990 all’età di 75 anni (era nato ad Arzignano, in provincia di Vicenza, da padre romagnolo), e quel titolo segnò uno dei “casi” non soltanto della letteratura di guerra, ma della letteratura tout court. Ad oggi, se ne sono venduti oltre quattro milioni di copie.

Ma Giulio Bedeschi, che avrebbe raccontato gli eventi successivi a “Centomila gavette di ghiaccio” in un altro volume dall’emblematico titolo “Il peso dello zaino”, già con alle spalle un successo straordinario, aveva pensato a qualcosa d’altro. Perché sì, la sua esperienza l’aveva raccontata, e raccontando di sé aveva rivelato le vicende di tanti altri compagni d’arme, quelli della 13^ batteria del Gruppo Conegliano della Julia, rendendo partecipi i lettori di eventi di sofferenza e di sangue, di dolore e di disperazione, ma anche di solidarietà e di speranza.

Nacque così un nuovo volume: nel trentennale della battaglia famosa, risolutiva in un certo qual modo del ripiegamento delle truppe dell’Armir, ecco “Nikolajewka: c’ero anch’io” (Mursia, 1973).

Una chiamata a raccolta – come lo stesso Bedeschi avrebbe scritto nella Prefazione – dei superstiti di quelle vicende “che volessero in piena libertà e senza schemi prefissati rievocare un particolare, un episodio, uno stato d’animo… in modo da costituire, anche se incompleto e frammentario, un mosaico che avesse al tempo stesso un suo significato rievocativo e votivo”.

Scopo? Contribuire, innanzitutto, “alla faticosa ricomposizione di una verità storica di cui si conoscono le grande linee, ma sono ignorati gli occulti risvolti individuali, le innumerevoli facce, all’infinito moltiplicate per la sofferenza di ognuno che lassù patì, o addirittura morì…”.

Una storia fatta dal basso, insomma, raccontata da semplici alpini come da ufficiali di carriera (e compaiono nomi indimenticabili come quelli di Reverberi, Signorini, Rossotto, Cimolino, Signorini, Gariboldi), da sottufficiali come da tenenti di prima nomina. Un quadro ampio e ampiamente articolato, dal quale emergono situazioni incredibili, inimmaginabili, terribili.

Quel libro più volte ristampato, proprio in questo 2013, settantesimo anniversario di quella battaglia, quarantesimo della prima edizione (e nel cinquantesimo anniversario di “Centomila gavette di Ghiaccio”), esce nuovamente, sempre per i tipi dell’editore Mursia (a cura di Giulio Bedeschi; pagine 672 – Euro, 24,50).

E lo si legge, o rilegge (come è il caso nostro) con vivo coinvolgimento, con emozione e a volte con una commozione da groppo alla gola e da ciglia inumidite.

Perché, se da queste pagine emerge la sciagurata decisione di un dittatore cinico e irresponsabile, dall’altra parte si rivela lo spirito di tanti che seppero soffrire l’indicibile, affrontando condizioni ambientali e situazioni belliche terribili, come già detto. Emerge, cioè quel che nel bene e nel male l’uomo riesce in certe condizioni e situazioni a rivelare di sé stesso. Qui, più nel bene, che riguarda anche la popolazione civile russa, ricca di pietas, generosa con quelli che erano pur sempre “nemici”. Distinguendo, peraltro, fra nemico e nemico, per così dire.

Non diversamente si spiega quel che si legge nella testimonianza di Mario Rigoni Stern: la vecchia Magda con figlio partigiano, che accoglie nella sua isba il sergente alpino mandatole dal giovane, e alla fine li segna con la croce… entrambi, quando se ne vanno, prima il figlio, poi l’italiano.

Ed è di una eloquenza straordinaria, questa testimonianza, proprio per via di quel segno di croce che una donna del popolo russa non ha smesso di fare, nonostante l’ateismo del regime comunista imperante!!!

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