NON DOBBIAMO CHIEDERE NESSUNA SCUSA PER I BOMBARDAMENTI DI BARCELLONA NEL 1938, NE’ TANTOMENO PER IL FONDAMENTALE CONTRIBUTO DELL’ITALIA FASCISTA ALLA VITTORIA DELLA SPAGNA CATTOLICA – di Policraticus

La richiesta di scuse è un tristo rito del “politicamente corretto” e si accompagna spesso a grossolane falsificazioni storiche

 

di Policraticus

 

 

adbIl  Corriere della Sera ha iniziato da qualche tempo quella che sembra una vera e propria campagna di stampa (sostanziatasi recentemente in un paginone ospitante anche l’articolo di Enric Juliana, condirettore de La Vanguardia di Barcellona – Cds, 17.3.13, p. 17) il cui scopo è quello di ottenere le “scuse” dell’Italia “democratica” nei confronti dei catalani, per bombardamenti compiuti “dagli aerei di Mussolini” sulla popolazione civile durante la Guerra di Spagna, in particolare per quello su Barcellona nel marzo del 1938.  “A Mussolini il progetto di trasformazione antropologica del popolo italiano [in una dura razza guerriera] non riuscì ma il fascismo portò “la brava gente” a macchiarsi di crimini di cui dobbiamo chiedere scusa”. Così termina l’articolo del giornalista Dino Messina nel medesimo paginone.  Argomentare singolare il suo, poiché non si capisce in base a quale logica l’Italia “democratica” debba  chiedere scusa per “crimini” che non ha commesso.

La richiesta di scuse è un tristo rito del “politicamente corretto”.  Da alcuni decenni è invalsa questa pratica del “chieder scusa” in pubblico da parte di rappresentanti di istituzioni o di popoli per misfatti veri o presunti non compiuti  da coloro che chiedono scusa né da coloro che essi al momento rappresentano. Il “chieder scusa” ha un senso se è fatto da colui che ha compiuto l’azione incriminata o da chi (genitore, tutore, superiore gerarchico) aveva istituzionalmente il dovere di impedire che il misfatto avvenisse.  Al di fuori di questi casi, appare del tutto assurdo.  Ma tant’è.   Questa pratica abnorme è diventata una liturgia essenziale dell’ideologia dominante: il democraticismo politicamente corretto, ossia anticristiano, pacifista disarmista, libertario-libertino, femminista e omofilo, che trova ovviamente nei riti stantii dell’antifascismo sempiterno ed onnipresente la vena iugulare che lo nutre.  Le odierne, inflazionate, “richieste di scuse” hanno in realtà lo scopo di umiliare e mettere alla gogna un individuo o un’istituzione o addirittura un intero popolo.  Ma quasi mai sono prive di un risvolto mercantile, visto che le dichiarazioni di scusa vengono in genere intese quali assunzioni di responsabilità anche in senso giuridico,  obbligando chi si è scusato ad erogare somme spesso notevoli a compensazione delle vittime o dei loro discendenti o di intere comunità.  Alcuni anni fa, il presidente statunitense Bush jr. si rifiutò di scusarsi a nome del popolo americano nei confronti degli afroamericani per via del periodo di schiavitù da loro passato in quel paese. La sua dichiarazione avrebbe avuto valore giuridico, autorizzando di per sé tutti i neri degli Stati Uniti, in quanto discendenti degli schiavi di un tempo, a far causa al Governo Americano per ottenere individualmente un risarcimento a titolo “morale” per i “diritti umani” violati dei loro antenati.  La pretesa era palesemente assurda, visto che la schiavitù era per i neri africani di un tempo istituzione ben radicata e del tutto normale, sulla quale si basava in pratica l’economia primitiva della loro società tribale.  Erano poi quasi sempre gli stessi capitribù a vendere i loro schiavi ai trafficanti arabi ed europei, ricavandone lauti guadagni.

I catalani ci hanno già provato. Per la verità, è la seconda volta che i catalani ci provano.  “Prendendo spunto dalle scuse tedesche per Guernica, il 19 marzo del ’99 la Commissione di Cultura del Parlamento regionale catalano ha invitato le Camere italiane a chiedere ufficialmente scusa per i bombardamenti di Barcellona da parte dell’aviazione di Mussolini.  Alla mozione, presentata dall’estrema sinistra, hanno aderito tutti i partiti ad eccezione dei popolari di Aznar, che si sono astenuti:  “Ora che faremo – ha domandato il capogruppo Escartin – chiederemo le scuse dei francesi per i danni inflitti da Napoleone?” (S. MENSURATI, Il bombardamento di Guernica.  La verità tra due leggende, 2004, Ideazione Ed., Roma 2004, p. 388, nota n. 15.  La richiesta provocò un ironico commento dello scomparso Presidente Francesco Cossiga, ivi, p. 389).   Ma quale popolo non ha scheletri nell’armadio? Se poi, viene da domandarsi, per esser “democratici” bisogna “chiedere scusa” ed umiliarsi di fronte agli altri popoli per i misfatti del proprio,  non dovrebbero farlo tutti e senza limitarsi ad eventi recenti, scelti ad hoc in base all’ideologia dominante, che pretende le scuse (con accluso assegno) sempre dalla stessa parte?  Ma quando finirà questa oscenità del “chieder scusa politicamente corretto”?

La “bufala” di Guernica.  Perché i tedeschi odierni hanno dovuto chieder scusa per Guernica?  La vicenda è più o meno nota.  La nazista Legione Condor fu accusata di aver scientemente sperimentato nuove micidiali tecniche di bombardamento sulla pacifica cittadina di Guernica, di cinquemila abitanti, città aperta, centro spirituale dei Baschi, lontana dal fronte, scegliendo un lunedì giorno di mercato per far più strage.  A  Norimberga, Göring avrebbe pubblicamente ammesso l’esperimento delle nuove, micidiali tecniche, in Ispagna.  Quasi tutta l’antica cittadina fu distrutta dalle “bombe incendiarie” e i morti si fecero ascendere a cifre elevate che si stabilizzarono ufficiosamente (perché i baschi non hanno cdpmai fornito dati ufficiali) sul numero (non si sa perché) di 1.654, più 889 feriti.  Picasso avrebbe poi dipinto il famoso “Guernica”, su commissione dei baschi stessi.  Un quadro per la verità singolare, visto che sembra rappresentare più una tauromachia che le vittime di un bombardamento (ammesso che si possa dare un senso alle demenziali tele del Picasso astratto, di sicuro un grande pittore ma nel periodo iniziale, quello figurativo).  Una trentina d’anni fa i baschi chiesero un semplice “gesto di riconciliazione” ai tedeschi.  Si mobilitò la sinistra verde-rossa tedesca e alla fine, dopo varie vicende e anni di tam tam mediatico, il Governo tedesco dovette scucire gli immancabili quattrini, ossia 6 milioni di euro per costruire un “moderno ed attrezzatissimo centro professionale a Guernica”.  I baschi e le sinistre tedesche lamentarono che i soldi erano comunque pochi e il governo tedesco dovette prosternarsi in scuse sempre più umilianti, sino alla formulazione che piaceva a baschi e sinistre udire (MENSURATI, op. cit., pp. 375-389).  Mensurati dimostra altresì, con accuratissima ricostruzione, che  il perfido massacro intenzionale di Guernica è un mito, costruito dalle autorità basche servendosi delle colossali deformazioni operate dalla stampa anglosassone, in particolare dal giornalista inglese George L. Steer, morto nel 1944; personaggio la cui disinvoltura e malafede (si inventò di sana pianta una clamorosa e umiliante sconfitta italiana nella cittadina basca di Bermeo, mai avvenuta,) è stata ampiamente provata già all’epoca (MENSURATI, cap. IV, Come nascono le favole, pp. 153-224).

I veri fatti di Guernica. Ma cosa successe effettivamente a Guernica?  Il bombardamento ci fu ma non con le modalità inventate dalla leggenda. Ed è da respingere “l’altra leggenda”, quella di fonte nazionalista, che negava il bombardamento stesso incolpando della distruzione della cittadina i dinamiteros anarchici asturiani in ritirata, che poco prima avevano ridotto ad un cumulo di rovine la vicina cittadina di Eibar.  Ecco i fatti:  1. Guernica non era “città aperta”:  c’erano tre fabbriche di armi (bombe d’aereo, spolette, pistole mitragliatrici) e vi erano acquartierati tre battaglioni baschi, per circa duemila uomini.  2. Non era nelle lontane retrovie.  Il fronte era ormai a 15 km. e si stava avvicinando rapidamente.  I baschi in ritirata, tallonati da navarresi (carlisti requetés) e da italiani e spagnoli (formazioni miste “Frecce Nere” e reparti della “XXIII Marzo”, famosa unità di Camicie Nere), stavano transitando da alcuni giorni alla periferia nordest del paese, sul piccolo ponte (19,5 per 9,5 m)  posto sullo stretto Rio Oca, diretti verso Bilbao, piazzaforte situata  34 km. ad ovest di Guernica e capitale della regione. Per l’esercito basco minacciato di accerchiamento da sud, la strada che passava per quel ponte era l’unica via d’uscita, un passaggio obbligato.  Da qui il desiderio di distruggerlo con l’aviazione da parte dei Nazionali, per intrappolare il nemico in fuga. Il ponte di Guernica era improvvisamente diventato un obiettivo strategico di primaria importanza assieme al crocevia di strade ad esso immediatamente prospicente.   3. Era il 26 aprile, giorno di mercato, ma il nuovo governatore, avendo capito la gravità della situazione, aveva vietato il mercato e rimandato indietro i contadini.    Inoltre 400 uomini, su 5000 abitanti, erano al fronte. C’erano sette ottimi rifugi antiaerei, uno dei quali però non ancora finito, con il tetto ancora debole (e per disgrazia fu colpito proprio quello, con la morte delle 45 persone che vi stavano dentro).  Quando arrivarono i primi aerei (uno tedesco isolato e tre italiani) l’allarme fu dato con le campane.  Parte della popolazione andò nei rifugi, parte scappò sulle colline circostanti.  4. Si sono trovati i fogli di volo della squadriglia tedesca (16 o 17 aerei + 1) e di quella italiana (3 aerei) che effettuarono l’operazione.  Quello italiano dice:  “ 26.4.37, XV, ore 12.30.  Oggetto:  bombardamento ponte di Guernica […] Il paese per evidenti ragioni politiche non deve esser bombardato […]  Bombardare la strada ed il ponte ad E di Guernica in modo da ostacolare la ritirata del nemico […] Azione di sorpresa con provenienza dal mare”.  Quello tedesco mostra un’impostazione simile.  La fotocopia riprodotta da Mensurati è sbiadita ma si capisce comunque ancora abbastanza bene.  Nell’ultima riga, dice:  “Angriff zur zurückgehenden Gegner auf Strassen noerdlich Monte Oiz und Bruecke und Strassen ostwaerts Guernike [Attacco contro il nemico in ritirata sulle strade a nord del Monte Oiz {monte a sud-est di Guernica} e sul ponte e le strade in direzione Est rispetto a Guernica].  5. L’attacco al ponte non riuscì. I ponti sono notoriamente un bersaglio molto difficile. Prima un isolato aereo tedesco, poi i tre italiani, infine i 16 o 17  tedeschi  a gruppetti di tre, in rapida successione, mancarono tutti il ponte, anche a causa di un forte vento trasversale.  Le bombe venivano sganciate da una quota di quasi quattromila metri con i sistemi di puntamento approssimativi di allora e si faceva un solo passaggio.  Si è favoleggiato di ore di bombardamento e di ordigni enormi di spaventosa potenza.  Tutte fandonie.  Gli aerei dell’epoca non avrebbero mai potuto portarli.  Ogni azione durò pochi minuti, come avveniva per operazioni simili, anche da parte dei Repubblicani, con impiego della caccia di scorta (qui cinque o dieci aerei) che si attardava brevemente a mitragliare sull’obbiettivo, nella fattispecie rappresentato soprattutto dal ponte e dalla strada, piena di soldati e mezzi nemici in fuga.  E non dai civili di Guernica sopravvissuti.  Nessuna testimonianza dei locali menziona mitragliamenti diretti specificamente sul centro del paese, dove erano cadute le otto bombe che lo colpirono.   Alle 16.30 arrivarono i tre Savoia-79, che videro un aereo tedesco isolato allontanarsi.  Mirarono al ponte tirando 36 bombe da 50 kg, senza colpirlo.  Le bombe caddero nei campi, tranne alcune che centrarono edifici posti ai lati della stazione ferroviaria, posta a sud-ovest del ponte (la direttrice dell’attacco era da nord-est a sud-ovest) ma non i binari, che rimasero intatti.     I 16 o 18 apparecchi tedeschi sganciarono alle 18.30 in prevalenza bombe da 250 kg. e un certo numero di spezzoni incendiari alla termite (e non bombe incendiarie al fosforo, come si è pure scritto, molto più potenti).  Gli spezzoni erano in genere usati contro le fanterie.  La maggior parte del carico bellico finì nei campi, tiro troppo lungo o troppo corto, da 3.800 metri di altezza.  Ma otto bombe colpirono il centro del paese.  Si sono contate 39 buche di bombe da 250 kg.  6. Nelle vecchie case di Guernica si trovavano numerosi balconi ed intelaiature di legno. Dopo l’attacco risultavano in fiamme 51 di esse solamente. Però il telefono era interrotto, i servizi locali di spegnimento insufficienti e i pompieri arrivarono da Bilbao troppo tardi, verso le 22.00, quando l’incendio, alimentato dal forte vento, era ormai incontrollabile.  Così quasi tutto il paese andò distrutto, ma dall’incendio sfuggito di mano non dalle bombe, presentando il giorno dopo la visione spettrale delle foto note in tutto il mondo. Le case distrutte o lesionate in modo irreparabile furono 721.  Va notato che la popolazione non colpita dal raid fu evacuata il giorno dopo con sette treni giunti da Bilbao. Anche questo dettaglio, mi chiedo, non dimostra che la “spaventosa ecatombe” non c’è stata? E difatti, i morti effettivi, accertati nel 1981 con nome e cognome, furono, secondo le minuziose ricerche dello studioso spagnolo indipendente J. M. Salas Larrazabál,  125 o 126.  Sempre tanti, anche per quei tempi, ma lontanissimi dai numeri della supposta strage.  Questa è la vera storia del bombardamento di Guernica.  Il resto sono solo fantasie.  Dovrebbe esser noto che  in privato i capi baschi parlavano di 200-250 morti mentre lasciavano che in pubblico si farneticasse di circa duemila e anche di più.   Il governo tedesco è stato turlupinato: ha dovuto scusarsi e pagare per le inesistenti “2000 vittime della barbarie nazista” a Guernica, episodio cruento come tanti altri di una guerra cruenta!  Ma non ci fu nessun diabolico piano nazista per sperimentare non si sa quale nuova e micidiale tecnica di bombardamento sugli indifesi abitanti di Guernica.  È poi falso che a Norimberga Göring abbia fatto le dichiarazioni su Guernica attribuitegli dai media.  Nei verbali di quel processo non ve n’è traccia (MENSURATI, op. cit., cap. III: Il bombardamento, pp. 95-152).

Mi sono dilungato sul falso di Guernica perché il giornalista  Enric Juliana ovviamente menziona l’episodio e nei consueti termini retorici, citando ancora come fonte attendibile il sunnominato Steer [sic] e lamentando che dei bombardamenti di Barcellona non si sia mai parlato perché non hanno avuto la fortuna di esser celebrati da quadri famosi come quello di Picasso.  Chi non sa come sono andate veramente le cose potrebbe allora credere (dato il paragone) che l’Aviazione Legionaria (come era chiamata per ragioni politiche la Regia Aeronautica impegnata in Ispagna) abbia praticamente raso intenzionalmente al suolo gran parte di Barcellona, emula di ciò che l’aviazione nazista avrebbe fatto a Guernica.  Nulla di più errato.  Come sono andate effettivamente le cose a Barcellona?

L’ordine di bombardare Barcellona. Mussolini, il 16 marzo, fece effettivamente dare, all’improvviso, l’ordine di “iniziare da stanotte azione violenta su Barcellona con martellamento diluito nel tempo”(F. PEDRIALI, Guerra di Spagna e aviazione italiana, Società storica pinerolese, Pinerolo, 1989, p. 335, rist. Aeronautica militare italiana, Roma, 1992).  E come mai?  Uno scatto d’ira? Un raptus di onnipotenza?  Si sono date le interpretazioni più varie, accusando il dittatore di cinismo e gratuita malvagità.  Tuttavia, Mussolini si era sempre adoperato, tramite Ciano, l’ambasciatore Cantalupo e persino un “duro” come Farinacci, affinché Franco limitasse il più possibile la massicce fucilazioni di rappresaglia con le quali i suoi tribunali militari punivano implacabilmente le sistematiche atrocità e le barbare stragi dei “Rossi”, colpendo però nel mucchio, mandando al muro anche persone per bene, colpevoli solo di trovarsi “dall’altra parte”.  La documentazione sul punto è ampia.  E adesso all’improvviso se la prendeva con la popolazione inerme di una grande città come Barcellona, ordinando di bombardarla, per giunta all’insaputa di Franco?  Errati calcoli di prestigio o il desiderio di impressionare qualcuno (Hitler, che si era appena incamerato l’Austria o la Francia che sembrava voler riprendere in grande stile gli aiuti alla Repubblica, via Catalogna)? O voleva forzare la mano a Franco, che procedeva sempre troppo lentamente, a detta di italiani e tedeschi, ansiosi di chiudere al più presto la sanguinosa partita spagnola?  Mussolini temeva in particolare che il conflitto spagnolo deflagrasse in uno europeo, che egli come sappiamo non desiderava affatto.  Nemmeno Franco, che pur aveva le sue ragioni per procedere senza troppa fretta, desiderava un allargamento del conflitto.  Ci sperava la Repubblica.  Se fosse scoppiata una guerra europea, già da tempo nell’aria grazie anche al conflitto spagnolo, la Francia “democratica” avrebbe potuto intervenire massicciamente e allo scoperto in Ispagna, salvando la Repubblica.   La guerra di Spagna finì l’1 aprile del 1939, solo cinque mesi prima dell’inizio della guerra in Europa (1.9.39).  Quale sia stato il motivo dello sventurato quanto isolato ordine mussoliniano, va comunque ricordato, per obiettività storica, che  Barcellona non era affatto una città inerme ed indifesa, estranea alla guerra, come vorrebbe far credere il sig. Juliana.

Barcellona era un obiettivo militare, come altre città spagnole.  Protetta da una forte contraerea, la città si era dotata di numerose installazioni militari (caserme, depositi, fabbriche di armi e munizioni) e nel suo porto erano alla fonda navi da guerra della Repubblica.  Il suo centro urbano era  intessuto di officine e laboratori attivamente impegnati nella produzione bellica.  C’erano più di duecento siti militari.  Ciò lo rendeva un obiettivo militare legittimo per attacchi di precisione, comunque difficili a farsi senza colpire la popolazione.  E difatti l’art. 24.3 della Convenzione sulla guerra aerea invitava i belligeranti a non bombardare in queste circostanze, per non provocare un massacro tra i civili.  Ma, in circostanze simili, i Repubblicani avevano attaccato senza problemi gli obiettivi militari (MENSURATI, pp. 70-71). Da mesi le installazioni portuali di Barcellona e quelle di altri porti in mano ai “Rossi” venivano bombardate dall’AL di stanza alle Baleari, che mirava anche alle navi da guerra disseminate in essi.  Il 7 marzo del 1938, a Cartagena, con bombe da 250 Kg. a scoppio ritardato, l’AL danneggiò gravemente l’incrociatore Libertad e affondò un cacciatorpediniere.  Il 21 maggio 1937 fu centrata nel porto di Almeria la corazzata Jaime I, che affondò per esplosione interna dopo esser stata rimorchiata ai conseguenti lavori.  Dal 15 gennaio al 10 marzo il porto di Barcellona fu sottoposto a 16 incursioni, sulle navi alla fonda e sulle attrezzature portuali.  Purtroppo, si verificavano sempre errori di mira, spesso a causa del vento, e bombe isolate colpivano un quartiere prossimo al porto, chiamato Barrio Gotico.  Ma i bombardamenti erano, al limite del possibile, di precisione.  Non si trattava di attacchi a città indifese, a scopi terroristici, come si cerca di far credere oggi (per tutti questi dati e considerazioni:  PREDIALI, op. cit., p. 332 ss.).   Riporto un episodio tipico, in questo senso, tratto dalla battaglia per la conquista di Bilbao:  “due Savoia-79 italiani, che erano riusciti a eludere i caccia sovietici, centrarono in pieno un’aviorimessa dell’aeroporto di Bilbao distruggendo o mettendo fuori uso 7 caccia nemici e dimezzando così le difese aeree della base” (MENSURATI, p. 76).

Per tutta la guerra, da una parte e dall’altra, si usò colpire con artiglieria ed aviazione città dove si combatteva, anche se ciò provocava l’ira e le recriminazioni della popolazione civile, com’è ovvio, e le proteste internazionali.  Mensurati riporta in Appendice i bollettini dei guerra dei Repubblicani, concernenti il loro assedio di Oviedo, capitale delle Asturie, passata ai Nazionali, dall’1.9.1936 al 5.10.1936:  “la nostra artiglieria bombarda senza sosta la città”; “la nostra aviazione ha incominciato il bombardamento a tappeto della città di Oviedo, dopo aver lanciato nella giornata di ieri esattamente 2.000 proiettili e producendo un panico enorme” e così via (MENSURATI, op. cit., pp. 396-400).  Madrid, con il fronte alla sua periferia, fu bombardata più volte dai Nazionali e la popolazione ne soffrì duramente. Si effettuavano poi, a volte, bombardamenti aerei di pura rappresaglia su obiettivi lontani dal fronte.  Questi bombardamenti terroristici furono “pratica corrente” presso i Repubblicani, che alla fine del maggio del 1937 colpirono ripetutamente “città aperte, lontane dal fronte, come Pamplona, Palencia, Zaragoza, Burgos, Valladolid, Palma de Maiorca” (MENSURATI, p. 72).  Il giornalista Messina, che fa da spalla al collega catalano, ha il coraggio di scrivere che noi italiani dovremmo chiedere scusa per il bombardamento di Durango, in Biscaglia, “che il 31 marzo 1937 venne attaccata da squadriglie italiane che distrussero case e uccisero 289 persone” (art. cit.).  Il fatto viene presentato isolato dal contesto, come se si fosse trattato per l’appunto di un bombardamento che mirasse solo ad uccidere i civili, seminando così il terrore.  Ma l’autore si dimentica di precisare che a Durango c’era il fronte, che proprio contro questa cittadina, uno dei cardini della linea difensiva dei baschi, si era aperta quel giorno la Campagna del Nord, l’offensiva nazionalista che avrebbe portato alla conquista di Bilbao (19.6.1937).   “Al bombardamento di Durango parteciparono anche due squadriglie di Savoia-81 italiani, che quel giorno ricevettero precise istruzioni: ‘Bombardare reiteratamente Durango e Elorrio nella giornata 31/3/37 allo scopo di distruggere i depositi e colpire le truppe presenti negli abitati’”(MENSURATI, p. 58 nota n. 14).  Precise ricostruzioni effettuate incrociando i registri parrocchiali ed elenchi di vittime pubblicate dai giornali baschi dell’epoca danno una lista di 99 morti, compresi anche i feriti deceduti negli ospedali, lista mai modificata da alcuno.  Sempre tanti i morti, anche per i mezzi di distruzione di allora.  Ma lontanissima, questa cifra, dai 289 di Messina, che evidentemente si affida ad una vulgata non sottoposta al necessario vaglio critico (su Durango, che comunque fu bombardata  anche dalla Legione Condor, vedi MENSURATI, pp. 58-72).

Il bombardamento del centro di Barcellona. Tralasciando altre inaccettabili dichiarazioni del suddetto giornalista – tra le quali l’immancabile riferimento alla “disfatta” di Guadalajara, che fu invece una dignitosa e contenuta sconfitta (l’unica della guerra) con appena 650 morti, 1.994 feriti e 275 prigionieri, su circa 30.000 soldati impiegati e non registrò il crollo del fronte ma solo la perdita di venti dei circa 35 km. inizialmente conquistati –  vengo infine al bombardamento di Barcellona, basandomi sempre sul fondamentale studio dell’ing. Ferdinando Prediali, storico militare.  In ottemperanza agli ordini mussoliniani, la sera stessa del 16 marzo Barcellona fu bombardata da quattro Savoia-81.  Durante la notte  altri sei S-81 colpirono il centro della città.  Il giorno dopo, con inizio alle 7.30, attacco diurno in tre fasi, rispettivamente di sei, cinque e infine altri cinque S-79.  Durante il terzo attacco diurno, iniziato alle 12.45 da Maiorca, ebbe luogo una fortuita quanto tragica coincidenza.  Il comando repubblicano aveva ordinato ad un camion militare di andare a prelevare un carico di tritolo alla polveriera del Castello del Montjuich.  Stipato il camion con cassette di tritolo di 40 kg. l’una, il mezzo, con diversi soldati seduti sull’esplosivo, stava ritornando per la via più breve alla caserma di partenza ossia attraversando (irresponsabilmente, bisogna dire) il centro di Barcellona.  Si trovava sulla larga Avenida de las Cortes Catalanas.  Mancavano pochi minuti alle due e proprio in quel momento cominciarono ad arrivare le bombe degli aerei italiani sull’Avenida suddetta.  All’incrocio con Calle Balmes il camion fu colpito e saltò in aria con una tremenda esplosione che scosse l’intera città.  Si alzò un’enorme colonna di fumo dalla forma di fungo, alta circa 250 metri e larga 100.  I piloti italiani in volo di disimpegno pensarono che fosse esploso un deposito di munizioni.  L’esplosione aveva fatto crollare un certo numero di palazzi alti sei piani, sventrandone altri, uccidendo tutti i militari del camion (all’andata erano 23) e un numero presumibilmente alto di civili nelle abitazioni. I bombardamenti continuarono, sempre con pattuglie di pochi aerei, la notte dello stesso giorno e il giorno dopo, con l’ultimo di essi sulla stazione ferroviaria, alle 15.10.  La notte stessa del 18 furono sospesi d’ordine del Generale Franco, irritatissimo per tutta la vicenda.  La colossale ed insolita quanto casuale esplosione di Calle Balmes aveva terrorizzato l’intera città, provocando un fuggi fuggi generale.  La stampa internazionale si lanciò nelle speculazioni più azzardate. Questa volta, bisogna ammettere, non del tutto a torto, data l’eccezionalità dell’esplosione verificatasi e l’ignoranza della sua vera causa:  ora erano gli italiani che avevano “sperimentato” nuove e straordinarie bombe sulla popolazione civile indifesa.  Il governo catalano, tacendo per ovvie ragioni il fatto del camion di tritolo, lasciò accreditare la tesi dell’inesistente “superbomba”.  Nel suo articolo il signor Juliana accenna al camion ma senza dargli il dovuto rilievo.  Osserva Prediali:  “secondo informazioni ufficiali repubblicane, i tre giorni di bombardamento avevano causato 670 morti e 1.200 feriti, 48 edifici distrutti e 71 danneggiati.  In seguito il numero delle perdite umane fu aumentato per ragioni politiche [nel suo articolo Juliana parla di oltre 900 morti e 1.500 feriti][…]  Resta comunque il fatto – continua Prediali – che molti civili furono uccisi nel corso delle dodici azioni aeree fra il 16 ed il 18 marzo, tuttavia le vittime avrebbero potuto essere molte di più se tutte le bombe fossero state deliberatamente lanciate in pieno centro abitato secondo le istruzioni ricevute dal comando dell’Aviazione Baleari [in ottemperanza all’inconsulto ordine di Mussolini].  In realtà le squadriglie avevano mirato di preferenza alla zona portuale ed alla stazione ferroviaria, cosicché le distruzioni non uscivano di molto dalla abituale rosa di obiettivi strategici, più volte battuti in precedenza” (PREDIALI, pp. 334-339, con le fonti ivi citate, compreso il libro di un ex aviatore repubblicano, abbastanza critico nei confronti delle autorità militari catalane:  J.J. MALAQUER  WAHL, El enigma del Camion de trilita, Barcelona, s.d.).   Mettendo in rapporto il tonnellaggio di bombe scaricato in quei tre giorni (44 tonnellate in 41 ore), il numero relativamente basso delle case distrutte, nonostante l’esplosione fortuita del camion di tritolo, che  ha fatto sicuramente  aumentare di non poco il numero delle vittime, se ne dovrebbe concludere, direi, che l’applicazione  dell’infelice ordine di Mussolini da parte dei piloti italiani sia stata, nei limiti del possibile, piuttosto contenuta.

Gli strani ragionamenti del Signor Juliana, giornalista “catalanista”.  Alla fine del suo articolo, il Signor Eric Juliana, così conclude:  “Oggi ricorrono 75 anni da quell’evento.  La Repubblica italiana, nata dalla vittoria sul fascismo, non ha colpe per un attacco tanto crudele.  E Mussolini, il dittatore, è stato giustiziato.  E non si può dimenticare che nel 1946 il nuovo governo italiano, su proposta del leader comunista Palmiro Togliatti, varò un’amnistia generale.  Barcellona e le altre città catalane bombardate, però, aspettano ancora un gesto dall’Italia democratica”.   Prima stranezza:  il giornalista afferma che il dittatore è stato “giustiziato”.  Egli non sembra ben informato dei fatti.  “Giustiziato” è chi viene condannato a morte in un regolare processo (da giudizi imparziali) e poi messo pubblicamente a morte in esecuzione della sentenza, emessa ed eseguita con tutti i crismi di legge.  Non vi fu alcun processo per Mussolini.  Egli fu ucciso di nascosto, in una stradetta di campagna, con una raffica a bruciapelo, da partigiani comunisti non si sa ancora se da soli o se accompagnati e da chi.  Fu uccisa anche la signora Petacci, che non c’entrava niente.  Si trattò di un’esecuzione di tipo criminale, come fanno i gangsters quando vogliono eliminare testimoni scomodi:  un puro e semplice assassinio.  Chi è che aveva interesse a che non vi fosse una “Norimberga italiana” nei confronti del “Duce del fascismo”?  Seconda stranezza:  il riferimento all’amnistia Togliatti.  Il suo senso sembra esser il seguente:  ma come, l’Italia democratica ha amnistiato i fascisti e non è capace di fare “un gesto” verso la Catalogna “martire”! Ma concedere un’amnistia significa condonare pene e perdonare; chiedere scusa, invece, significa riconoscere delle colpe per esser perdonati.  L’accostamento sfugge, pertanto, ad ogni logica.  Inoltre, il sig. Juliana   sembra ignorare che quella famosa amnistia, oltre a tirar fuori dalle carceri i fascisti condannati come “criminali di guerra” secondo la giustizia dei vincitori, impedì anche che vi finissero a decine i partigiani, soprattutto comunisti, denunciati dai parenti delle vittime delle loro efferatezze.  È vero che il clima di allora rendeva molto difficile un esercizio imparziale della giustizia  (esercizio imparziale diventato di nuovo difficile oggi, per le ragioni a tutti note).  Tuttavia, sarebbe stato politicamente deleterio, per il PCI, se si fosse mantenuto aperto il discorso sui gravi fatti di sangue provocati dalla Resistenza.  I grandi massacri perpetrati dai partigiani, soprattutto da quelli comunisti, appena terminata la seconda guerra mondiale in Italia, dovevano essere cancellati dalla memoria nel minor tempo possibile.  La “lezione” da essi impartita era stata perfettamente recepita.  Bisognava quindi chiudere ogni indagine giudiziaria su di essi con un’amnistia generalizzata, le cui norme vennero in effetti sempre invocate nei tribunali per procedere ad assoluzioni o a condanne pro forma di partigiani accusati delle peggiori atrocità.   L’ultima stranezza dell’esimio giornalista è la seguente:  egli vuol farci credere che la Catalogna tutta non dorma la notte al pensiero di non aver avuto soddisfazione dagli italiani, che viva nell’attesa di “un gesto” di scuse che l’Italia democratica non ha ancora avuto il coraggio di fare!  Via, non siamo così ingenui.  Le richieste del sig. Juliana grondano retorica “catalanista”.  Il “catalanismo”, abbiamo imparato, è l’ideologia indipendentista e secessionista catalana, sostenuta oggi soprattutto dai partiti di sinistra ed estrema sinistra.  I “catalanisti” cercano evidentemente visibilità internazionale affidandosi ai riti e alla retorica del politicamente corretto più smaccato, con la complicità di giornali come il CdS attuale, che di italiano non ha più nemmeno la lingua, imbastardita da una continua profluvie di termini tratti dall’inglese “digitale” e da anglicismi avventurosi (basti pensare che ancora vi si traduce “conspiracy” con “cospirazione”, quando è termine giuridico di origine medievale che esprime il concetto di “associazione a delinquere”).

Una questione di civiltà, oltre che di sopravvivenza nazionale. L’affermazione del Sig. Juliana, secondo la quale “la base di Maiorca, istituita nel 1936 dal leader fascista Arconovaldo Bonaccorsi, il “conde Rossi”, rappresentava l’ambizione di creare un impero mediterraneo”, è addirittura ridicola.  Il “conde Rossi” fu mandato da Mussolini con il maggiore Gallo, abile stratega, e pochi aerei a galvanizzare le demoralizzate forze nazionaliste locali. Sotto la sua energica e coraggiosa guida e grazie agli aerei italiani, esse riconquistarono tutte le Baleari in poco tempo, tranne Minorca (causa veto inglese).  Ebbe solo il torto di non opporsi   alle numerose fucilazioni  nei confronti dei prigionieri repubblicani, effettuate per rappresaglia dai nazionalisti vincitori.  O addirittura di approvarle, come sostengono gli antifascisti.  La storiografia più seria, ad esempio quella del prof. Coverdale, americano, ha comunque messo in rilievo da tempo, documenti alla mano, che Mussolini non ne voleva sapere, all’inizio, di impegnarsi in Ispagna.  Cominciò ad intervenire per gradi solo dopo che la Francia del Fronte Popolare aveva iniziato a mandare aerei e altri mezzi alla Repubblica spagnola e in seguito a numerose pressioni di vario tipo, soprattutto cattoliche. Poi dovette impegnarsi a fondo di fronte ai massicci aiuti forniti da Stalin, che avrebbero potuto far vincere la Repubblica.  Ed infine per riuscire a chiudere la sanguinosa guerra.  Non andò in Ispagna per costruirsi alcun “impero mediterraneo”.   Vi andò perché non poteva giustamente consentire la formazione di una Spagna “rossa” e antitaliana che avrebbe fatto blocco con la Francia “rossa” e antitaliana del Fronte Popolare.  E per una questione di civiltà, per quanto giustamente odiosi potessero essergli i latifondisti spagnoli (che gli toccava nei fatti difendere) e poco simpatico Franco, “l’astuto galiziano”, che voleva solo aerei e cannoni e, in quanto agli uomini, solo volontari sotto il suo comando.  Non c’era scelta.  Bisognava battersi a fondo contro la Repubblica spagnola, dominata sin dall’inizio dalla follia sanguinaria ed antireligiosa di massoni ed anarchici, comunisti e socialisti, i quali ultimi si vantavano proprio dalle pagine de La Vanguardia di allora di aver distrutto la religione cattolica chiesa per chiesa, altare per altare, convento per convento (6832 furono alla fine i religiosi di ambo i sessi trucidati dai “Rossi”, spesso nel modo più barbaro).   La “democrazia” della seconda Repubblica spagnola, usando come alibi le ingiustizie sociali da riformare, lavorava alacremente all’edificazione di una società materialista, senza Dio e senza famiglia, che esaltava l’uguaglianza dei sessi, il divorzio, il “libero amore”, il libero aborto; ovvero quella Rivoluzione Sessuale che le forze anticristiane, in una singolare simbiosi di sfrenato capitalismo e sinistrismo libertario e nichilista, stanno tentando di imporre oggi alle nostre nazioni: ieri in Ispagna, oggi in Italia ed anzi in tutta Europa e nelle Americhe.   Mussolini garantì sempre lo statu quo delle nazioni mediterranee agli spagnoli prima e agli inglesi  poi (preoccupati per la presenza italiana a Maiorca, che durò solo finché durò la guerra) con il gentlemen’s agreement del 2.1.1937, tra l’altro richiamando in patria il “conde Rossi” a riconquista di Maiorca ultimata (R. DE FELICE, Mussolini il Duce, Einaudi, Torino, 1981, II, p. 356, 362).  Non chiese mai contropartite territoriali a Franco, checché ne dicesse la stampa “democratica”, soprattutto francese.  Il Sig. Juliana ha voluto ricordare l’intervento infruttuoso di Mussolini a favore degli ufficiali baschi presi prigionieri dagli italiani a Bilbao, affinché fossero risparmiati  dai tribunali e dai plotoni di esecuzione del Caudillo (art. cit.), cercando tuttavia di svalutarlo affermando che il dittatore lo fece solo “per far cosa gradita alla Santa Sede”, a Pio XI.  Invece, come si è ricordato, interventi di quel tipo furono una costante da parte delle autorità fasciste italiane in Ispagna.  Il giornalista catalano, a questo punto, avrebbe anche potuto spiegare che Mussolini si era attivamente impegnato, unitamente alla S. Sede, nelle trattative segrete tra Franco e i Baschi per giungere ad una loro onorevole pace separata, gradita anche all’Inghilterra, che nei paesi baschi aveva enormi interessi. Trattative che fallirono per colpa dell’atteggiamento dilatorio dei Baschi.

L’intervento in Ispagna  ci costò notevoli sacrifici:  quasi 6000 caduti, 16.000 feriti e mutilati, grandi quantità di materiale militare in perfetto stato lasciate alla fine in dono agli spagnoli, una spesa di 12 e forse più miliardi di lire di allora (equivalenti, credo, a qualche decina di miliardi di euro), miliardi per metà condonati da Mussolini agli spagnoli e per metà pagati da Franco dopo la II guerra mondiale, con moneta fortemente svalutata.  Ciò ebbe il sapore di una beffa ma è anche vero che l’Italia “democratica” e “antifascista” lanciava contro la Spagna franchista ogni sorta di contumelie.  C’è poi da chiedersi se la Spagna immiserita di allora ce li avesse i soldi per pagare quel debito.  I nazisti si fecero pagare da Franco subito in materie prime preziosissime per la loro industria bellica; la Russia di Stalin si prese in pegno gran parte dell’oro della Banca di Spagna, e non mi sembra l’abbia mai restituito; l’Italia fascista nulla chiese e nulla prese.  Oggi, la sua partecipazione a quella guerra si suol casualmente ricordare, anche da parte nazionalista, principalmente per la “disfatta” di Guadalajra, lasciando nell’oblio le tante vittorie cui essa contribuì attivamente e a volte in modo determinante:  la presa di Màlaga, di Bilbao, di Santander, le avanzate travolgenti in Aragona, nel Levante, la conquista della Catalogna.  La verità è una sola:  piaccia o no,  l’Italia fascista ha dato un apporto fondamentale alla vittoria della Spagna cattolica nella sua durissima lotta per sopravvivere all’attacco terrificante dell’Avversario.  E questo suo merito storico nessun “politicamente corretto” può cancellarlo.

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