Non solo Ilva. La politica industriale che non c’è  –  di Roberto Pecchioli

di Roberto Pecchioli

La Via Crucis ha quattordici stazioni a memoria della passione e morte di Gesù Cristo. Le ultime riguardano la morte del condannato e la sua deposizione nel sepolcro. La Pasqua successiva ribalta tutto e celebra la vittoria dell’uomo di Nazareth risorto. La Via Crucis del triste declino dell’Italia (Stato, nazione, popolo) conta, purtroppo, su molte più tappe, altrettanti capitoli che sembrano convergere tutti in una fine ingloriosa ed annunciata. Una di esse è la vicenda di questi mesi ed anni riguardante il destino dell’ILVA, l’ex Italsider, gioiello della siderurgia nazionale. A seguito di una crisi ventennale, i grandi stabilimenti testimonianza della nostra capacità industriale e del lavoro italiano, sono, forse, all’ultima stazione.

Dopo le lunghe ed intricate vicende del passaggio della siderurgia già in declino dalle Partecipazioni Statali al gruppo Riva e a Thyssen Krupp ( Terni, Torino) , la chiusura di stabilimenti interi e di linee produttive, sino all’intervento della magistratura che ha commissariato quel che resta di ILVA, il gruppo indiano Mittal Arcelor ha formulato una proposta che prevede, oltre ad ulteriori ridimensionamenti, ben quattromila licenziamenti, pudicamente definiti esuberi, ed il ricollocamento di migliaia di dipendenti con nuovi contratti flessibili ( altro vocabolo politicamente corretto che cela precariato, taglio di diritti e stipendi). O la fame o quattro soldi. Per ora il governo ha rifiutato le proposte capestro del gigante orientale, forte anche dell’unanime reazione sindacale e delle comunità territoriali coinvolte. Domani chissà, e, come si dice, il futuro lo scopriremo vivendo.

A noi la situazione degli stabilimenti ILVA, reazioni governative e politiche incluse, sembrano la prova provata di almeno due gravissime criticità italiane: una è la sottomissione a volontà e diktat del mercato globale misura di tutte le cose, unica ideologia ammessa dalla stessa Unione Europea; l’altra è la sconfortante assenza di una politica industriale. Si tratta di una condotta irresponsabile, che in altre stagioni storiche sarebbe stata qualificata come tradimento, vecchia ormai di un quarto di secolo. Ad ogni campagna elettorale, le grandi coalizioni si rinfacciano a vicenda errori ed omissioni, segno evidente di corresponsabilità, impotenza, ma anche, paradossalmente, che qualcuno continua a guardare in faccia la realtà, senza peraltro andare oltre il teatrino elettorale. Passata la festa, gabbato lo santo.

L’industria siderurgica ha accompagnato per decenni il miracolo italiano e, nonostante i mille errori del sistema della proprietà pubblica, ha saputo diventare un grande soggetto di ricerca e produzione a livello internazionale. Ancora nell’anno 2016, nonostante la crisi persistente e i brutali tagli intervenuti dagli anni 90, la nostra produzione è in aumento e conserva rispettabili quote di mercato.

Alcuni settori, come le produzioni “a caldo” sono sparite dal grande stabilimento di Genova, mentre Bagnoli non esiste più e lo stesso complesso di Taranto è stato ridimensionato. Thyssen Krupp ha acquisito altre parti della metallurgia nazionale, con l’evidente scopo di ridimensionarla e consegnarla alla catena decisionale tedesca. Non intendiamo qui ricostruire la storia delle sofferenze patite dall’ambiente e dalla cittadinanza per le emissioni industriali, ma resta l’amarezza e lo sconcerto dinanzi alle grandi aree dove lavoravano migliaia di persone. Il caso genovese impressiona: lo stabilimento di Cornigliano dava lavoro ad oltre diecimila persone, indotto escluso. Oggi siamo al dieci per cento di quelle cifre, l’area a caldo (due terzi almeno dell’immensa area davanti al mare) non esiste più, e se questo significa molto per la salute degli abitanti, è terribile vedere una strada al posto di un grande insediamento industriale dotato di un vasto porto per l’approdo delle navi che scaricavano materia prima e caricavano semilavorati e prodotti finiti.

Il fatto, tuttavia è che, oltre le crisi, la delocalizzazione e l’insorgenza dei giganti orientali, la siderurgia e la metallurgia restano centrali, imprescindibili per una nazione che vogli definirsi avanzata ed industriale. Non a caso la Germania ne è leader europea e la Francia ufficiale ha disposto il forte fuoco di sbarramento nei confronti di Finmeccanica nella questione dei cantieri francesi, arrivando sino alla rinazionalizzazione del sito atlantico di Saint Nazaire, per affrontare poi la trattativa da posizioni di forza e di interesse nazionale. Eccolo il concetto chiave, così lontano dalla mentalità e dall’azione concreta dell’Italia: l’interesse nazionale.

I nostri governi, senza eccezioni e senza differenze sostanziali tra i sedicenti centrodestra e centrosinistra, sono indifferenti, impermeabili, estranei a politiche che pongano al centro il futuro comune del popolo italiano, che in politica si chiama appunto interesse nazionale. Fedeli al modello della governance, ovvero della semplice amministrazione dell’esistente secondo regole e principi dettati dal potere economico e finanziario globale, si comportano come amministratori “tecnici” di condominio, con l’aggravante che non rispondono all’assemblea dei proprietari, ma ad una sorta di onnipotente condominio ombra che detta la linea secondo principi, interessi e logiche del tutto estranee a quelle di chi li ha eletti.

E’ già tutto scritto, nel sistema legislativo nazionale, dell’Unione Europea e delle grandi istituzioni transnazionali. La nostra è un’epoca che rammenta, ad intenti rovesciati, quella della codificazione, ovvero della nascita dei grandi codici e statuti scritti che hanno progressivamente definito lo Stato di diritto. I nuovi legislatori, al contrario, lavorano per costruire una muraglia di norme destinata a limitare lo spazio della sovranità popolare e nazionale. Pensiamo alla modifica costituzionale che ha imposto il pareggio di bilancio, passata peraltro senza voti contrari e solo una ventina di astenuti tra Camera e Senato o alla supina accettazione del divieto europeo di aiuti di Stato ai settori economici in difficoltà. Si tratta di principi fortemente ideologici, cardini del liberismo cui si ispira l’Unione Europea senza che i popoli possano valutare, giudicare, esprimere consenso o dissenso, né i governi derogare da linee guide divenute gabbie.

Per questo, siamo pessimisti sulla sorte del maggior gruppo siderurgico italiano. Diranno no a voce spiegata ai ricatti del potenziale acquirente, ma tratteranno a porte chiuse nuovi tradimenti, impoverendo gli sfortunati dipendenti e svendendo un altro dei gioielli ereditati dalle generazioni passate, che nel corso del Novecento, a partire dalla fondazione dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale, 1933) hanno tratto la nazione dal sottosviluppo sino a renderla la quinta potenza industriale mondiale.

E’ persino umiliante dover ricordare che la progressiva deindustrializzazione dell’Italia – abbiamo perduto dall’avvio del mercato unico europeo e con moto accelerato dall’introduzione della moneta unica un quarto della capacità produttiva – ci ha lasciato praticamente senza industria chimica, alimentare, ha consegnato il credito alla finanza internazionale, ha distrutto le industrie che progettarono e realizzarono i primi computer (Olivetti), rischia di travolgere quel che resta delle reti di telecomunicazione (caso Telecom Vivendi), sta azzerando, attraverso l’indebolimento , la privatizzazione e lo spezzatino di Finmeccanica ed Enel, la capacità di svolgere una politica energetica. Per tacere del metodico disfacimento dell’agricoltura e della zootecnia nazionale, vendute alla vecchia PAC (politica agricola comune) ed al sistema delle quote. Tra truffe colossali, gli operatori sono stati pagati per dismettere le loro aziende e farla finita con produzioni secolari, eccellenze e cultura materiale invidiate nel mondo intero. La penosa agonia di Alitalia insegna che non siamo stati capaci, nell’era della mobilità planetaria, tra corruzione, inefficienza e clientelismo, di conservare una decente compagnia aerea, mentre Fiat, adesso FCA, ha il proprio centro decisionale a Detroit.

Madamina, il catalogo è questo. Ognuno esprimerà il giudizio aderente alle proprie convinzioni politiche, ma che i governi abbiano fatto poco e male, anzi abbiano collaborato attivamente allo scempio del sistema Italia è un fatto. Tutto è mercato, tutto è globalizzazione, niente è valutazione di ciò che è bene o male per gli italiani di oggi e per quelli di domani, se ne rimarranno. Sì, perché la sensazione sempre più viva è che il destino nostro sia segnato, deciso da tempo in stanze lontane da cui siamo esclusi. Negli ambulacri del potere vero si è probabilmente stabilito che l’Italia non debba più essere una nazione industriale, e tanto meno possa avere un sistema creditizio, una politica energetica propria, un efficiente sistema di reti informatiche e tecnologiche assoggettato a controllo pubblico, e neppure un’agricoltura che assicuri l’autosufficienza alimentare. Ciò che era nostro, viene comprato per pochi soldi, spesso per essere chiuso o posto al servizio di strategie, progetti e strategie estranee e concorrenti.

Siamo, e sempre più diventeremo, una grande Disneyland, un parco tematico specializzato nel mostrare l’arte, la cultura, la bellezza che abbiamo costruito nei millenni. Camerieri e guide turistiche a guardia di un patrimonio eccelso ma cristallizzato, un grande museo senza nuove sale. Pensiamo a Venezia, una meraviglia dell’arte ma anche della sapienza di chi l’ha fondata e gestita per secoli, ridotta ad un appendice di Mestre spopolata di cittadini e di vita civile e produttiva, presa d’assalto da torme di turisti sciatti e ciabattoni. Temiamo che quella sia la sorte comune; intanto, promuovono la fuga degli italiani – i giovani alla ricerca del futuro, gli anziani della tranquillità e di sistemi fiscali meno voraci.

Nessuno intende proporre fughe all’indietro, in un’Arcadia pastorale inesistente, ovvero desidera un’Italia autarchica, ripiegata su se stessa. Del resto, da sempre i popoli hanno commerciato, scambiato beni e conoscenze, valutato la convenienza e la possibilità di fare da sé o comprare altrove beni e servizi. La differenza tra la condizione attuale e quelle del passato è che nessuno mantiene l’idea del bene comune, travolto dall’individualismo da un lato, dal globalismo e dalla mondializzazione dall’altro.

Il governo in carica ha recentemente attivato un nuovo strumento legislativo che potrebbe, se bene utilizzato, invertire la tendenza. Nessuna illusione, naturalmente, ma il sistema detto “golden power”, e che, pare, si applicherà concretamente al caso Tim –Vivendi introduce un potere speciale esercitabile dal governo al fine di proteggere aziende di rilevanza strategica per l’interesse nazionale. Il potere speciale, (golden power) che lo Stato assegna a se stesso si dovrebbe applicare a tutte le società – e non soltanto a quelle partecipate dallo Stato o da altri enti pubblici – operanti nei settori strategici della difesa e sicurezza nazionale nonché a quelle che possiedono attività di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti, delle comunicazioni. Sono considerate di rilevanza strategica le reti e gli impianti, ivi compresi quelli necessari ad assicurare l’approvvigionamento minimo e l’operatività dei servizi pubblici essenziali, i beni e i rapporti di rilevanza strategica per l’interesse nazionale.

E’ un passo insufficiente, ma almeno si muove nella direzione del recupero di un minimo di sovranità economica. La rilevanza strategica prescritta dalla legge va, ad avviso nostro, estesa a settori come l’approvvigionamento idrico, la siderurgia, il credito in cui va ripresa la vecchia distinzione tra banche d’affari (che non devono essere oggetto di aiuti o salvagente pubblici) e banche commerciali. Il mercato, insomma, dovrebbe tornare al suo ruolo positivo di strumento al servizio del benessere, respingendone la pervasività, anzi il totalitarismo, la pretesa di unicità e criterio universale di giudizio. In quest’ottica, ILVA può ancora essere salvata, per chi ci lavora e più ancora per il futuro dell’industria e della nazione.

E’ urgente, insieme con una politica industriale di lungo periodo, un progetto generale, uno scarto logico, un colpo di reni etico, intellettuale, civile e politico che restituisca alla dimensione pubblica, alla comunità organizzata , allo Stato nazionale non più servo di entità finanziarie e poteri estranei, il prestigio, la forza, la volontà per animare, orientare e realizzare un progetto di vita comune che, altrimenti, si esaurisce e muore per mancanza di senso, nell’indifferenza dei cittadini ed a vantaggio di oligarchie nemiche.

2 commenti su “Non solo Ilva. La politica industriale che non c’è  –  di Roberto Pecchioli”

  1. Alberto Giovanardi

    Tanto per cominciare ne sarebbe necessaria una prima: mandare a casa i post-comunisti abusivamente al potere, i quali, anziché sgravare questo povero Paese dall’immane peso della burocrazia di Stato e della fiscalità oppressiva che la mantiene, s’illudono di sostenere l’economia con una serie estemporanea di pezze e tacconi di tipica marca dirigista.

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