Nostra maggior Musa (Riflessioni “minime” sulla Commedia dantesca) / XI – di Dario Pasero

I grandi Santi nel Paradiso dantesco – San Pier Damiani (c. XXI, vv. 103-135) e San Benedetto da Norcia (c. XXII, vv. 34-96)

di Dario Pasero

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Siamo nel 7° cielo, quello di Saturno, l’ultimo di quelli percorsi – secondo la cosmologia aristotelico-tomista seguita da Dante – dall’orbita di un pianeta. Proprio per il fatto di essere, quello di Saturno, il cielo più alto tra quelli tracciati dal percorso dei singoli pianeti e quindi molto vicino a Dio è nata l’espressione idiomatica italiana “essere al settimo cielo” per indicare uno stato di eccezionale gioia e felicità.

In questo cielo appaiono a Dante le anime degli spiriti contemplanti, cioè quei religiosi che hanno abbandonato la vita “nel secolo” per dedicarsi completamente alla contemplazione di Dio. La contemplazione come mezzo per ascendere verso Dio è metaforizzata da Dante con l’immagine dalla scala, che dal settimo cielo si erge verso l’Empireo, cioè verso Dio, e sui gradini della quale si muovono, salendo e scendendo, le anime dei beati. È evidente che l’immagine della scala – e Dante ce lo dice apertamente – è esemplata su quella vista in sogno da Giacobbe (Genesi 28, 10-22), anzi è proprio la stessa scala: “Infin la sù la vide il patriarca/ Iacobbe porger la superna parte,/ quando li apparve d’angeli sì carca” (c. XXII, vv. 70-72).

Nel canto XXI un’anima beata, quella di San Pier Damiani, si ferma davanti a Dante per parlargli, mentre nel c. XXII si fermerà quella di San Benedetto da Norcia.

A San Pier Damiani Dante propone due domande: la prima relativa al perché proprio quell’anima (e non un’altra) si è fermata davanti a lui per parlargli, e l’altra concernente l’atteggiamento dei beati che, a differenza delle anime dei cieli precedenti, non fanno più sentire il loro canto gioioso. Le due risposte – cosa abbastanza comune nel poema – vengono date in ordine inverso: i beati non fanno sentire il loro giubilo perché Dante, uomo, non reggerebbe coi suoi sensi umani la potenza di un canto che si fa tanto più forte quanto più ci si avvicina all’empireo (cioè a Dio); l’anima si è fermata perché così ha voluto Dio, ma nessuno saprebbe spiegare il perché delle decisioni della Provvidenza divina, neppure il serafino a Lui più vicino; quindi tanto meno un’anima beata o, addirittura, un mortale.

Ottenute le due risposte, Dante passa ad una terza domanda, di più ovvia e facile risposta: chi sia l’anima che sta parlando con lui (ricordiamo che le anime, dal cielo del Sole in poi, appaiono a Dante come luci, senza più alcun riferimento, seppur diafano, al loro precedente aspetto umano).

La risposta dell’anima, cosa abbastanza comune nell’opera dantesca (e non solo nella terza Cantica), prende l’avvio dalla descrizione geografica di un luogo, per poi giungere solo alcuni versi dopo alla vera e propria presentazione onomastica dell’anima. In questo caso il luogo descritto non è quello di nascita del personaggio (come, per es., nell’episodio di San Francesco o in quello di San Domenico), ma quello del più importante convento in cui visse il Santo, cioè quello di Fonte Avellana, che si trova sulla costa del monte Catria nell’Appennino umbro-marchigiano (vv. 106-111). Tale monastero, che non viene comunque definito dal Poeta, viene però indicato come un luogo destinato esclusivamente al culto ed alla contemplazione di Dio. Così va infatti inteso il termine “latria” (v. 111), dal greco latréia (attraverso il latino latrìa) col significato di “adorazione”, quel culto dunque che si deve esclusivamente a Dio.

In questo luogo – continua il beato – egli passava “lievemente” (e notiamo la forza, che viene dalla sua lunghezza, di questo avverbio che ci permette di pensare veramente ad un passare dolce e piacevole della vita) il suo tempo – e la formula “caldi e geli” del v. 116 ha certamente maggior forza evocativa che non “estati e inverni” – immerso nella contemplazione divina e accontentandosi di cibi semplici, conditi con puro olio liquido, immagine di una mensa parca e sobria. Questa prima parte dell’episodio si conclude con una brevissima, e appena accennata, nota polemica: questo convento offriva, un tempo, molte anime contemplanti a questo cielo del Paradiso, ora invece non più. Dal punto di vista stilistico notiamo come i due termini antitetici (”fertilemente” e “vano” del v. 119) aprono e chiudono il verso, collocandosi quindi in posizione molto evidente. La terzina si chiude con l’accenno ad un non meglio specificato intervento divino nei confronti della situazione; ricordiamo ancora che questa accorata riflessione sulla decadenza di un convento si ripresenterà molto simile nel canto successivo nelle parole di San Benedetto nei confronti della decadenza del proprio ordine.

Dal v 121 al v. 126 abbiamo la vera e propria auto-presentazione dell’anima. Egli, San Pier Damiani, visse in quel monastero, mentre più tardi, col nome di Pietro Peccatore (Petrus Peccans) resse il monastero di Santa Maria in Porto (ora scomparso) sul litorale ravennate (il “lito adriano” del v. 123).

San Pier Damiani, dunque, nato a Ravenna nel 1007, ebbe come riferimento educativo il fratello maggiore Damiano, da cui probabilmente derivò l’appellativo di “Damiani”. Dopo aver studiato a Ravenna, Faenza, Padova e insegnato all’università di Parma, entrò nel monastero camaldolese di Fonte Avellana. Nel 1057 il Papa lo chiamò a Roma per averlo accanto in un momento di crisi della Chiesa, dilaniata da discordie e scismi e alle prese con la piaga della simonia. Nominato vescovo di Ostia e poi creato cardinale, aiutò i sei Papi che si succedettero a svolgere un’opera moralizzatrice. In quest’azione si avvalse particolarmente della collaborazione dell’abate benedettino di San Paolo Fuori le Mura, Ildebrando di Soana, che nel 1073 fu eletto Papa con il nome di Gregorio VII. Pier Damiani fu delegato pontificio in Germania, Francia e nell’Italia settentrionale. Morì a Faenza nel 1072.

L’episodio termina, proprio partendo dal ricordo della carica cardinalizia da lui ricevuta negli ultimi anni di vita, con una polemica quanto mai forte e chiara nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche del tempo di Dante, cioè molti vescovi e cardinali (“li moderni pastori”; v. 131).

Prima di vedere i termini di questa invettiva, però, soffermiamoci un momento solo su due “errori” compiuti da Dante, ma che ci servono anche a capire come i grandi poeti (e le loro opere) non sempre devono essere giudicati sui particolari (storici o biografici), ma sulla grandezza delle idee e delle immagini da loro esposte.

Al v. 124 Dante fa dire al Santo di essere stato nominato cardinale quando “poca vita mortal m’era rimasa”: in realtà la dignità cardinalizia gli fu conferita più di 15 anni prima della morte, e quindi non certo “poca vita”. Similmente notiamo che, ai due versi successivi, l’anima parla della sua nomina citando l’immagine dell’essere “tratto” (quindi portato con forza, quasi contro la sua volontà) a “quel cappello/ che pur di male in peggio si travasa”, cioè al cappello cardinalizio, che ora passa di capo in capo sempre peggiorando. In realtà il cappello cardinalizio fu introdotto da papa Innocenzo IV intorno al 1252, mentre San Pier Damiani divenne cardinale nel 1057, quando quindi il cappello ancora non esisteva. Sono questioni di “lana caprina” direbbe il poeta latino Orazio, proprio quell’Orazio che fu accusato “in contumacia” (egli infatti, morto da circa 1900 anni, non poteva difendersi) da un filologo tedesco che lo attaccò dicendo che il grande, poeticamente parlando, incipit dell’Ode I, 9, la famosa “ode dell’inverno” (Vides ut alta stet nive candidum Soracte) non può avere alcun senso perché (udite! udite!) il monte Soratte da Roma non è visibile… Questioni che non intaccano (né devono intaccare) la bellezza della poesia di un grande poeta…

Partendo quindi dall’osservazione del decadimento morale delle cariche ecclesiastiche (il cappello che in peggio si travasa), l’anima beata contrappone le figure di San Pietro (Cefas) e di San Paolo (“il gran vasello/ de lo Spirito Santo”), fondatori della Chiesa, ai moderni “pastori”. I due Santi vengono visti nella loro accettazione e ricerca di povertà (“magri e scalzi,/ prendendo il cibo da qualunque ostello”; vv. 128sg.) di contro agli ecclesiastici d’ora che invece vestono abiti sontuosi e necessitano di schiere di servitori. Il quadro che il poeta ci lascia è quello dell’ecclesiastico che si fa aiutare per salire a cavallo e Dante si serve di questa immagine per una pungente e sarcastica frecciata nei riguardi dell’ecclesiastico che, montato a cavallo, copre col suo mantello anche l’animale, così che “due bestie van sott’una pelle” (v. 134).

Una invettiva molto simile troveremo, tra breve, anche nelle parole di San Benedetto nel canto successivo.

Nel canto XXII ci troviamo nel medesimo cielo di Saturno e l’episodio delle anime contemplanti prosegue con la comparsa di un altro beato, che si presenterà come San Benedetto da Norcia, fondatore dell’ordine benedettino e, più in generale, del monachesimo occidentale.

Come per le biografie degli altri Santi, anche per San Benedetto il discorso prende l’avvio da una definizione geografica: il luogo di nascita per San Francesco e San Domenico, il luogo principale in cui si svolse l’attività per San Pier Damiani, Fonte Avellana, e ora, per San Benedetto, Montecassino. Di esso si ricorda come il monastero fosse stato fondato dopo che il Santo aveva cacciato dalla sua sommità gli ultimi barlumi di religione pagana (“empio cólto” del v. 45, da cui Benedetto ritrasse le genti delle “ville circunstanti”, cioè i villaggi dei dintorni di Montecassino).

È da notare come Dante, parlando delle ultime vestigia del paganesimo e dei suoi accoliti, definisca l’antica religione romana olimpica come una sorta di interpretazione distorta e ingannevole dell’unica vera religione, cioè il Cristianesimo (“la gente ingannata e mal disposta”, v. 39). In effetti, secondo Dante, tutte le credenze non cristiane altro non sono se non interpretazioni errate del Cristianesimo: gli adoratori degli dei pagani, in realtà, inconsapevolmente adoravano il vero Dio, anche se sotto altro nome, essendo appunto essi “ingannati e mal disposti”. Di più: Maometto è collocato da Dante all’inferno (c. XXVIII) in quanto diffusore di uno scisma (dal verbo greco schizo, “divido, separo”) che divise la universalità cristiana.

Dopo la sezione dedicata a Montecassino ed alla fondazione del monastero (vv. 37-45), l’anima beata passa (vv. 46-51) a presentare altri spiriti presenti nel cielo, tra cui un Macario che non è possibile definire con certezza e il camaldolese ravennate Romualdo degli Onesti, vissuto tra X ed XI secolo. La sezione si conclude con l’elogio di tutti quei frati che seppero essere coerenti nella loro scelta di vita contemplativa (“li frati miei che dentro ai chiostri/ fermar li piedi e tennero il cor saldo”, vv. 50sg.), riflessione particolarmente significativa soprattutto alla luce di quanto si dirà nei versi dal 73 al 96.

Dopo un intervento del poeta relativo alla possibilità, per lui mortale, di vedere l’anima nella pienezza della sua gloria, domanda a cui il Santo risponde che ciò potrà avvenire solamente nella gloria dell’Empireo (“l’ultima spera”, v. 62), dove si adempiranno tutti i desideri, San Benedetto, prendendo spunto proprio dal ricordo dell’Empireo, cita la scala, su cui si muovono salendo e scendendo le anime, scala che porta appunto fino all’ultimo dei cieli, e quindi a Dio. Essa, come detto, è vista in sogno da Giacobbe, percorsa dagli angeli, ma ora, simbolicamente, purtroppo non più percorsa da nessuno in terra.

Da questa ultima osservazione il Santo prende spunto per una dura requisitoria nei confronti del suo ordine (ed in generale contro tutti gli ordini religiosi) e della sua decadenza. La polemica parte con un’immagine icasticamente metaforica: la regola benedettina, simbolo della vita religiosa e dell’obbedienza alle sue regole, rimane ora sulla terra solamente “per danno de le carte” (v. 75), cioè per sprecare la pergamena (“carta” nel medioevo non è, ovviamente, la nostra carta, ma il foglio di pergamena) su cui essa è scritta. Si prosegue poi notando come i conventi (“le mura che solieno esser badia”, v. 76) sono ormai diventati delle “spelonche”, cioè, con riferimento scritturale a Matteo 21, 13, rifugi di ladri e briganti; e così le “cocolle”, cioè le tonache dei frati, si sono trasformate in sacchi colmi di farina andata a male (“farina ria”, v. 78).

Dalla consapevolezza delle colpe e della decadenza degli ordini e di molti loro appartenenti si passa poi alla vera e propria invettiva (vv. 79-96), iniziando con l’attacco a quello che sembra essere uno dei vizi più gravi, se non il più grave, l’usura, al confronto del quale tuttavia un altro vizio, la cupidigia di denaro degli ecclesiastici, appare essere ben più offensivo nei confronti di Dio: i beni ottenuti dalla Chiesa (così come già sottolineato nel canto XII, a proposito della corruzione a cui San Domenico volle opporsi) non appartengono in realtà agli ecclesiastici per essere distribuiti ai parenti se non, peggio, alle concubine ed ai figli, ma ai poveri, e la Chiesa è solamente amministratrice di questi beni (“quantunque la Chiesa guarda”, v. 82).

Amaramente si osserva, poi, come le forze umane (“la carne d’i mortali”, v. 85) sono talmente deboli che, anche quando si parte da buoni principi, non sempre si riesce a giungere fino alla fine dell’opera senza errori e cadute. Vengono presentati poi due grandi Santi, Pietro e Francesco, cui lo stesso Benedetto si unisce, come esempi invece della coerenza e della fortezza d’animo di chi ha portato a compimento la propria missione pur partendo da inizi di povertà, ma ricchi di virtù e grazia: Pietro iniziò la Chiesa “sanz’oro e sanz’argento” (v. 88), Benedetto il suo ordine “con orazione e con digiuno” (v. 89) e Francesco “umilmente” (v. 90). Invece, per quanto riguarda la decadenza degli ordini, Dante deve guardare il principio di ciascuno e volgere poi lo sguardo alla situazione attuale, per capire come la situazione sia radicalmente cambiata, tanto che egli vedrà “del bianco fatto bruno” (v. 91). Mirabilmente il poeta usa la stessa immagine (il bianco che si trasforma, o che all’opposto non si trasforma, in nero e viceversa) per significare o la completa trasformazione, oppure, al contrario, la permanenza assoluta in una condizione, quando il suo trisavolo Cacciaguida parla del “libro” della volontà divina, “du’ non si muta mai bianco né bruno” (Paradiso XV, v. 51).

La conclusione di questa invettiva, ancora una volta (lo ricordiamo) pronunciata da chi ne ha pieno diritto essendo stato l’iniziatore dell’istituzione (gli ordini monastici) oggetto della polemica, ci propone (vv. 94-96) una sorta di profezia: l’intervento divino per ristabilire la situazione è, in questo frangente, ben più “mirabile”, cioè tale da destare meraviglia, di quanto non lo sia stato il fermarsi del corso del fiume Giordano in occasione dell’attraversamento di esso da parte del popolo ebraico guidato da Giosuè, così come è narrato in Giosuè 3, 14-17.

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Paradiso XXI, vv. 103-135

 

Sì mi prescrisser le parole sue,

ch’io lasciai la questione e mi ritrassi

a dimandarla umilmente chi fue.

«Tra’ due liti d’Italia surgon sassi,

e non molto distanti a la tua patria,

tanto che ’ troni assai suonan più bassi,

e fanno un gibbo che si chiama Catria,

di sotto al quale è consecrato un ermo,

che suole esser disposto a sola latria».

Così ricominciommi il terzo sermo;

e poi, continuando, disse: «Quivi

al servigio di Dio mi fe’ sì fermo,

che pur con cibi di liquor d’ulivi

lievemente passava caldi e geli,

contento ne’ pensier contemplativi.

Render solea quel chiostro a questi cieli

fertilemente; e ora è fatto vano,

sì che tosto convien che si riveli.

In quel loco fu’ io Pietro Damiano,

e Pietro Peccator fu’ ne la casa

di Nostra Donna in sul lito adriano.

Poca vita mortal m’era rimasa,

quando fui chiesto e tratto a quel cappello,

che pur di male in peggio si travasa.

Venne Cefàs e venne il gran vasello

de lo Spirito Santo, magri e scalzi,

prendendo il cibo da qualunque ostello.

Or voglion quinci e quindi chi rincalzi

li moderni pastori e chi li meni,

tanto son gravi, e chi di rietro li alzi.

Cuopron d’i manti loro i palafreni,

sì che due bestie van sott’una pelle:

oh pazienza che tanto sostieni!».

Paradiso XXII, vv. 34-96

Ma perché tu, aspettando, non tarde

a l’alto fine, io ti farò risposta

pur al pensier, da che sì ti riguarde.

Quel monte a cui Cassino è ne la costa

fu frequentato già in su la cima

da la gente ingannata e mal disposta;

e quel son io che su vi portai prima

lo nome di colui che ’n terra addusse

la verità che tanto ci soblima;

e tanta grazia sopra me relusse,

ch’io ritrassi le ville circunstanti

da l’empio cólto che ’l mondo sedusse.

Questi altri fuochi tutti contemplanti

uomini fuoro, accesi di quel caldo

che fa nascere i fiori e ’ frutti santi.

Qui è Maccario, qui è Romoaldo,

qui son li frati miei che dentro ai chiostri

fermar li piedi e tennero il cor saldo».

E io a lui: «L’affetto che dimostri

meco parlando, e la buona sembianza

ch’io veggio e noto in tutti li ardor vostri,

così m’ha dilatata mia fidanza,

come ’l sol fa la rosa quando aperta

tanto divien quant’ell’ha di possanza.

Però ti priego, e tu, padre, m’accerta

s’io posso prender tanta grazia, ch’io

ti veggia con imagine scoverta».

Ond’elli: «Frate, il tuo alto disio

s’adempierà in su l’ultima spera,

ove s’adempion tutti li altri e ’l mio.

Ivi è perfetta, matura e intera

ciascuna disianza; in quella sola

è ogne parte là ove sempr’era,

perché non è in loco e non s’impola;

e nostra scala infino ad essa varca,

onde così dal viso ti s’invola.

Infin là sù la vide il patriarca

Iacobbe porger la superna parte,

quando li apparve d’angeli sì carca.

Ma, per salirla, mo nessun diparte

da terra i piedi, e la regola mia

rimasa è per danno de le carte.

Le mura che solieno esser badia

fatte sono spelonche, e le cocolle

sacca son piene di farina ria.

Ma grave usura tanto non si tolle

contra ’l piacer di Dio, quanto quel frutto

che fa il cor de’ monaci sì folle;

ché quantunque la Chiesa guarda, tutto

è de la gente che per Dio dimanda;

non di parenti né d’altro più brutto.

La carne d’i mortali è tanto blanda,

che giù non basta buon cominciamento

dal nascer de la quercia al far la ghianda.

Pier cominciò sanz’oro e sanz’argento,

e io con orazione e con digiuno,

e Francesco umilmente il suo convento;

e se guardi ’l principio di ciascuno,

poscia riguardi là dov’è trascorso,

tu vederai del bianco fatto bruno.

Veramente Iordan vòlto retrorso

più fu, e ’l mar fuggir, quando Dio volse,

mirabile a veder che qui ’l soccorso».

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