Nostra maggior Musa (Riflessioni “minime” sulla Commedia dantesca) / XIV – di Dario Pasero

Quando ancora insegnavo ed arrivavo, l’ultimo anno, a leggere i Sepolcri foscoliani, i miei alunni più perspicaci, giunti al famoso verso “ch’allegrò l’ira al ghibellin fuggiasco”, saputo che il “fuggiasco” era Dante Alighieri, formulavano la domanda di rito: “Ma… Dante… non era guelfo?”. A questo punto io, che pure avevo un conto in sospeso con Niccolò Ugo Foscolo in seguito ad un componimento di concorso a cattedre di qualche anno prima vertente sui modelli classici da Foscolo a Leopardi, ero obbligato ad ammettere che, ebbene sì, nonostante tutta la sua prosopopea, Foscolo aveva visto giusto più di tanti altri critici nel definire Dante “ghibellino”, anche se questa definizione, data in forma così apoditticamente assiomatica, avrebbe forse avuto bisogno di un minimo di spiegazione in più.

L’evoluzione del pensiero politico di Dante nel corso degli anni della sua vita non sarà ora oggetto di analisi da parte mia (“tempo non è di dire, e non vorrei”, adattando il testo di Pg. XXVI alla nostra situazione) e pertanto, da questo punto di vista, consiglio la lettura di Marco Santagata, Dante; Milano 2013.

Da parte mia, invece, vorrei limitarmi a citare (e commentare) quei passi, se non tutti almeno i più famosi, in cui Dante parla esplicitamente di Impero, imperatori e rapporto tra Chiesa ed Impero.

A questo proposito il pensiero corre subito al canto VI del Paradiso, vera summa di quanto Dante pensa relativamente alla questione dell’Impero.

Siamo nel terzo cielo, quello di Mercurio, occupato dagli spiriti “attivi”, quanti cioè in vita si diedero da fare per conquistare fama e onore in terra (“perché onore e fama li succeda”, v. 114), tenendo comunque a mente che l’unica vera gloria è quella che si acquista per la vita eterna. Questo canto, situazione unica in tutta la Commedia dantesca, è occupato dal monologo di un’unica anima (quella dell’imperatore Giustiniano) senza che né Dante né alcun altro spirito beato intervenga a interrompere la sequenza delle parole pronunciate dal “protagonista” dell’episodio.

Il canto, di ben 142 versi, può essere suddiviso in varie sezioni, e precisamente: 1-27, auto-presentazione dell’imperatore Giustiniano; vv. 28-33, prima polemica contro guelfi e ghibellini; vv. 34-54, storia di Roma e del suo Impero, dalla sua fondazione (Dante risale non a Romolo, ma ad Enea, seguendo la teoria troiana delle origini di Roma esposta da Virgilio nell’Eneide) fino alle guerre civili; vv. 55-81, impero di Cesare e di Ottaviano; vv. 82-93, la redenzione ad opera di Cristo e le sue conseguenze storiche; vv. 94-96, si passa direttamente a Carlo Magno, al Sacro Romano Impero ed al suo ruolo di defensor Ecclesiae; vv. 97-111, ripresa del discorso su guelfi e ghibellini; vv. 112-142, conclusione con la presentazione delle anime presenti nel cielo (spiriti attivi) e in particolare di quella di Romeo da Villanova.

Ricordiamo infine che vero protagonista del discorso di Giustiniano è l’aquila, animale simbolo (nel mondo antico) di Zeus e di conseguenza, nel mondo cristiano, di Dio. L’aquila è tuttavia anche il simbolo dell’Impero romano ed in questo modo il Poeta ci rende subito edotti della sua volontà di legare la storia dell’impero romano con Dio, che lo ha voluto per la salvezza dell’umanità.

Di questo canto non vogliamo ora fare un commento analitico, limitandoci ad enucleare alcune questioni fondamentali del pensiero politico dantesco in esso presenti. Prima questione: la scelta del personaggio, Giustiniano. Dante tende (e lo abbiamo già notato) a far pronunciare invettive (parecchie) ed elogi (pochi) di istituzioni e persone ad una figura particolarmente significativa, o per anzianità (ne è stato il fondatore) o per fama (ne è il rappresentante più importante), della istituzione stessa. Ebbene, in questo caso Dante doveva escludere sia i fondatori (Cesare ed Ottaviano), perché pagani, sia l’imperatore più importante per la cristianizzazione dell’impero romano (Costantino) perché colpevole protagonista secondo Dante della donazione di Roma al Papa, causa del successivo declino della Chiesa. Ecco allora che la figura più rappresentativa è Giustiniano, in quanto protagonista, nel secolo VI, della cosiddetta “restauratio (o renovatio) imperii”, cioè la riconquista, innanzitutto, dell’Occidente in seguito alle guerre condotte dal suo generale Belisario, e poi la riforma amministrativa e giuridica delle strutture imperiali grazie alla redazione del Corpus Juris Civilis. Inoltre, Giustiniano era stato in gioventù eretico monofisita (credeva cioè in una sola natura, quella divina, di Cristo), errore da cui era stato liberato grazie all’opera di papa Agapito, continuando poi sulla strada diritta e giusta dell’ortodossia e perseguitando anzi gli eretici.

Seconda questione: perché raccontare, anche se in sintesi, tutta la storia dell’impero romano dalle origini troiane fino a Tito? Dante si muove, quando parla di fatti storici, in quella che i filosofi chiamano “concezione provvidenzialistica” della storia, una visione assolutamente cristiana che afferma che, essendo Dio il motore degli avvenimenti storici, essi non possono che essere motivati dalla Provvidenza divina che li regola e li organizza secondo un criterio teleologico, cioè relativo ai fini ultimi (télos, in greco, è la conclusione, ma anche il fine), o finalistico (se preferiamo l’etimo latino). Pertanto, in questa visione finalistico-provvidenziale la storia umana è, sic et simplicter, storia della salvezza: pertanto, il nodo cruciale della storia è la redenzione operata da Cristo; gli avvenimenti umani pertanto sono, se precedenti ad essa, preparatori alla venuta del Salvatore, se successivi, conseguenza di tale venuta e del suo effetto immediato, cioè la salvezza del genere umano. In questa concezione l’impero romano è stato voluto da Dio perché, nel corso del suo sviluppo secolare, preparasse la venuta di Cristo (vv. 34-81), da Enea attraverso i sette re, la repubblica, le guerre puniche e quelle civili fino al momento in cui Cesare, per volere di Dio,assumesse il potere assoluto rendendo il mondo allora conosciuto (la greca oikouméne) un unico stato di cui il Salvatore sarebbe stato cittadino. Poi, al momento della akmé della sua potenza (Ottaviano), l’impero doveva accogliere Gesù il Cristo e infine, dopo il Suo sacrificio (avvenuto sotto l’imperatore Tiberio; vv. 82-90) iniziò la storia della diffusione del Cristianesimo in tutto il mondo. E questo sviluppo del messaggio cristiano avviene partendo dalla punizione che Dio, per mezzo di Tito, inflisse agli ebrei, colpevoli di deicidio. Logica quindi la conseguenza per cui il Sacro Romano Impero di Carlo Magno sia l’erede naturale dell’impero romano, completandolo e perfezionandolo nella cristianità (vv. 94-96), di cui l’imperatore è naturaliter il difensore nella figura concreta del Papa e della Chiesa.

Terza questione: rapporti tra il discorso teorico, storico provvidenziale, di Dante e la realtà concreta dei tempi del Poeta, cosa che è in effetti ciò che più a lui interessa che i suoi lettori comprendano. Poco sopra, nella sintesi iniziale, abbiamo ricordato come ai vv. 28-33 ci sia una prima polemica con entrambi i partiti politici del suo tempo: guelfi e ghibellini. In questi pochi versi il Poeta fa dichiarare a Giustiniano che la “giunta” che egli vuole fare ora al suo discorso (cioè le vicende storiche dell’impero romano) sarà lo strumento con cui egli desidera dimostrare a Dante gli errori di entrambi gli schieramenti: “perché tu veggi con quanta ragione/ si move contr’al sacrosanto segno/ e chi ’l s’appropria e chi a lui s’oppone”; vv. 31-33), dichiarazione resa ancor più forte dal sarcasmo presente nella formula “con quanta ragione”, cioè in realtà con quanta ingiustizia agiscano sia i ghibellini, che si appropriano del simbolo imperiale dell’aquila come loro simbolo di partito, sia i guelfi, che ad esso si oppongono come avversari.

Alla conclusione delle vicende dell’impero appare dunque chiaro, a Dante e di conseguenza ai suoi lettori, che, essendo voluto da Dio per la salvezza dell’umanità, l’Impero romano, che è tuttora vivo e presente nella figura dell’imperatore di Germania, non può essere patrimonio di un partito o di un altro, ma è bene comune di tutti gli uomini, tanto che Dante chiama il suo simbolo, cioè l’aquila, “pubblico segno”; v. 100. Pertanto sbaglia chiunque riduca l’impero a qualcosa di “non-pubblico”, tale da diventare partito politico con cui schierarsi (come fanno i ghibellini), servendosene come di uno strumento di potere, oppure partito nemico da combattere (come fanno i guelfi) in nome di un falso dualismo contrastivo tra Chiesa ed Impero. Sia gli uni che gli altri a tal punto sbagliano che è difficile capire – rimarca Dante – chi commetta l’errore più grave tra chi è nemico evidente (i guelfi) e chi invece è falso amico (i ghibellini): “sì ch’è forte a veder chi più si falli” (v. 102).

Sull’argomento dei rapporti tra Chiesa ed Impero e del valore del Sacro Romano Impero come discendente diretto e naturale di quello romano Dante scrive intorno al 1310 (quindi ben prima di elaborare il Paradiso) quando redige in latino, per l’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, il trattato in prosa De Monarchia.

Coniugando ora quanto Dante scrive in questo canto VI del Paradiso con quanto appunto egli aveva già elaborato in due opere precedenti, cioè il Convivio e il De Monarchia, possiamo giungere ad alcuni punti fermi della teoria politica dantesca.

Intanto, i due trattati in prosa testé citati rappresentano due tappe antecedenti la stesura della terza cantica, e proprio il trovare in essi elementi concettuali che ritroviamo poi nell’episodio di Giustiniano conferma come il pensiero politico di Dante sia rimasto, salvo piccoli scarti di poco valore, coerente per tutta la sua vita. Sia nel Convivio, scritto (ma non portato a termine) in volgare nei primi anni dell’esilio (ca. 1304), e quindi parallelo ai primi canti dell’Inferno, che nel De Monarchia, redatto (come già detto) in latino e dedicato ad Arrigo VII intorno al 1310, durante la discesa in Italia dell’imperatore, che in Italia morirà di febbri malariche nel 1313, il nostro Poeta sostiene il valore divino, unico, eterno, universale e romano dell’Impero. Esso infatti è provvidenzialmente voluto (così come ci è confermato nel canto VI) da Dio, perché non est auctoritas nisi a Deo: perciò esso, come Dio, è unico, eterno ed universale (gli appartiene quindi tutto il mondo, anche quelle parti che non cadono ancora concretamente sotto il suo dominio). Inoltre Dio ha voluto che la sua sede fosse Roma (ampia dimostrazione ce la dà anche il canto VI) e in più il potere imperiale, essendo universale ed unico, non comporta desiderio di avere di più: l’imperatore è dunque libero, a differenza dei sovrani statuali e dei poteri particolari, dalla cupidigia di possedere altre terre o altre ricchezze, poiché ha già tutto. Suo compito naturale – e Dante ce lo dichiara nei due trattati in prosa – è quello di condurre i suoi sudditi, cioè tutti gli uomini, alla felicità terrena, agendo in accordo col Papa, il cui compito è quello di condurre tutti gli uomini verso la felicità eterna. Proprio per questa differenza teleologica, pur essendo i due poteri assolutamente uguali, in quanto entrambi voluti da Dio, la figura del Papa deve essere oggetto di rispetto da parte dell’Imperatore, così come fa il figlio maggiore nei confronti del padre.

Ciò detto, ci resta da capire come Dante potesse conciliare queste teorie politiche “imperiali”con la sua concreta attività politica, specie durante la sua giovinezza, nell’ambito del comune di Firenze, attività che lo porterà anche (ahilui) all’esilio. Ogni altro potere (potestas) terreno deriva a sua volta da quello imperiale, poiché l’Imperatore è l’unico ad avere l’auctoritas conferitagli da Dio: tant’è che Dante plaude alla discesa di Arrigo VII che, proprio in quanto Imperatore, dovrebbe (secondo Dante) ristabilire la propria sovranità sui Comuni e le Signorie d’Italia, i quali potranno esercitare il loro governo (potestas) ma solamente nell’ambito stabilito dall’Imperatore e con il permesso da questo stesso dato loro. Non abbiamo dunque contraddizione, in Dante, tra l’ideologia “imperiale” e il sostenere da parte sua la libertà dei singoli Comuni italiani (e quindi ovviamente anche Firenze): Impero e Comuni si equilibrano, il primo dà ai secondi la possibilità di autogovernarsi, essendo egli garante della giustizia (divina) sulla terra, mentre i secondi ammettono di esercitare il loro potere (potestas) solamente nei limiti e con il beneplacito dell’Imperatore. Ecco dunque la condanna di Firenze, evidente soprattutto nel canto VI dell’Inferno e nella trilogia di Cacciaguida (Paradiso XV-XVII) da parte di Dante: quando un Comune (o un Re) pretende di esercitare l’auctoritas, che spetta solamente all’Imperatore, travalicando i limiti che l’Imperatore (e quindi Dio) ha dato loro, ecco che esercita l’ingiustizia e il suo governo non può avere consistenza legale.

 

Paradiso VI

 

«Poscia che Costantin l’aquila volse

contr’ al corso del ciel, ch’ella seguio

dietro a l’antico che Lavina tolse,

cento e cent’anni e più l’uccel di Dio

ne lo stremo d’Europa si ritenne,

vicino a’ monti de’ quai prima uscìo;

e sotto l’ombra de le sacre penne

governò ’l mondo lì di mano in mano,

e, sì cangiando, in su la mia pervenne.

Cesare fui e son Iustinïano,

che, per voler del primo amor ch’i’ sento,

d’entro le leggi trassi il troppo e ’l vano.

E prima ch’io a l’ovra fossi attento,

una natura in Cristo esser, non piùe,

credea, e di tal fede era contento;

ma ’l benedetto Agapito, che fue

sommo pastore, a la fede sincera

mi dirizzò con le parole sue.

Io li credetti; e ciò che ’n sua fede era,

vegg’ io or chiaro sì, come tu vedi

ogni contradizione e falsa e vera.

Tosto che con la Chiesa mossi i piedi,

a Dio per grazia piacque di spirarmi

l’alto lavoro, e tutto ’n lui mi diedi;

e al mio Belisar commendai l’armi,

cui la destra del ciel fu sì congiunta,

che segno fu ch’i’ dovessi posarmi.

Or qui a la question prima s’appunta

la mia risposta; ma sua condizione

mi stringe a seguitare alcuna giunta,

perché tu veggi con quanta ragione

si move contr’ al sacrosanto segno

e chi ’l s’appropria e chi a lui s’oppone.

Vedi quanta virtù l’ha fatto degno

di reverenza; e cominciò da l’ora

che Pallante morì per darli regno.

Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora

per trecento anni e oltre, infino al fine

che i tre a’ tre pugnar per lui ancora.

E sai ch’el fé dal mal de le Sabine

al dolor di Lucrezia in sette regi,

vincendo intorno le genti vicine.

Sai quel ch’el fé portato da li egregi

Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro,

incontro a li altri principi e collegi;

onde Torquato e Quinzio, che dal cirro*

negletto fu nomato, i Deci e i Fabi

ebber la fama che volontier mirro.

Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi

che di retro ad Anibale passaro

l’alpestre rocce, Po, di che tu labi.

Sott’esso giovanetti trïunfaro

Scipïone e Pompeo; e a quel colle

sotto ’l qual tu nascesti parve amaro.

Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle

redur lo mondo a suo modo sereno,

Cesare per voler di Roma il tolle.

E quel che fé da Varo infino a Reno,

Isara vide ed Era e vide Senna

e ogne valle onde Rodano è pieno.

Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna

e saltò Rubicon, fu di tal volo,

che nol seguiteria lingua né penna.

Inver’ la Spagna rivolse lo stuolo,

poi ver’ Durazzo, e Farsalia percosse

sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo.

Antandro e Simeonta, onde si mosse,

rivide e là dov’ Ettore si cuba;

e mal per Tolomeo poscia si scosse.

Da indi scese folgorando a Iuba;

onde si volse nel vostro occidente,

ove sentia la pompeana tuba.

Di quel che fé col baiulo seguente,

Bruto con Cassio ne l’inferno latra,

e Modena e Perugia fu dolente.

Piangene ancor la trista Cleopatra,

che, fuggendoli innanzi, dal colubro*

la morte prese subitana e atra.

Con costui corse infino al lito rubro;

con costui puose il mondo in tanta pace,

che fu serrato a Giano il suo delubro.

Ma ciò che ’l segno che parlar mi face

fatto avea prima e poi era fatturo

per lo regno mortal ch’a lui soggiace,

diventa in apparenza poco e scuro,

se in mano al terzo Cesare si mira

con occhio chiaro e con affetto puro;

ché la viva giustizia che mi spira,

li concedette, in mano a quel ch’i’ dico,

gloria di far vendetta a la sua ira.

Or qui t’ammira in ciò ch’io ti replìco:

poscia con Tito a far vendetta corse

de la vendetta del peccato antico.

E quando il dente longobardo morse

la Santa Chiesa, sotto le sue ali

Carlo Magno, vincendo, la soccorse.

Omai puoi giudicar di quei cotali

ch’io accusai di sopra e di lor falli,

che son cagion di tutti vostri mali.

L’uno al pubblico segno i gigli gialli

oppone, e l’altro appropria quello a parte,

sì ch’è forte a veder chi più si falli.

Faccian li Ghibellin, faccian lor arte

sott’altro segno, ché mal segue quello

sempre chi la giustizia e lui diparte;

e non l’abbatta esto Carlo novello

coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli

ch’a più alto leon trasser lo vello.

Molte fïate già pianser li figli

per la colpa del padre, e non si creda

che Dio trasmuti l’armi per suoi gigli!

Questa picciola stella si correda

d’i buoni spirti che son stati attivi

perché onore e fama li succeda:

e quando li disiri poggian quivi,

sì disvïando, pur convien che i raggi

del vero amore in sù poggin men vivi.

Ma nel commensurar d’i nostri gaggi

col merto è parte di nostra letizia,

perché non li vedem minor né maggi.

Quindi addolcisce la viva giustizia

in noi l’affetto sì, che non si puote

torcer già mai ad alcuna nequizia.

Diverse voci fanno dolci note;

così diversi scanni in nostra vita

rendon dolce armonia tra queste rote.

E dentro a la presente margarita

luce la luce di Romeo, di cui

fu l’ovra grande e bella mal gradita.

Ma i Provenzai che fecer contra lui

non hanno riso; e però mal cammina

qual si fa danno del ben fare altrui.

Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina,

Ramondo Beringhiere, e ciò li fece

Romeo, persona umìle e peregrina.

E poi il mosser le parole biece

a dimandar ragione a questo giusto,

che li assegnò sette e cinque per diece,

indi partissi povero e vetusto;

e se ’l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe

mendicando sua vita a frusto a frusto,

assai lo loda, e più lo loderebbe».

 

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