Omaggio a Gianrico Tedeschi, nei lager con Guareschi e indimenticabile voce della “Favola di Natale”

Nei giorni scorsi è morto Gianrico Tedeschi. Oltre che come attore tra i più importanti del teatro italiano, lo ricordiamo come compagno di prigionia di Giovannino Guareschi durante la seconda guerra mondiale e come lettore della Favola di Natale. Abbiamo chiesto di farlo a Giovanni Lugaresi, di cui pubblichiamo questo ricordo e un’intervista scritta nel 1992 per il “Gazzettino”, quando l’opera di Guareschi uscì corredata da un’audiocassetta con la lettura di Gianrico Tedeschi.
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C’era una audiocassetta allegata alla bellissima edizione della Favola di Natale di Giovannino Guareschi ristampata per l’ennesima volta da Rizzoli (anni Novanta del secolo scorso, e prima ancora c’era stato un disco), con la voce recitante di Gianrico Tedeschi. “Voce recitante”, come si suol dire, ma per essere esatti occorre sottolineare che quella fiaba guareschiana non era… recitata, bensì, semplicemente “detta”. Senza enfasi, senza toni magniloquenti, ma con quegli alti e bassi, per così dire, quelle pause, che erano connaturati al testo. E chi meglio di Tedeschi, che aveva condiviso con Giovannino le sofferenze, le speranze, nel lager nazista, avrebbe potuto raccontarla?

Per anni e anni, ad ogni vigilia di Natale, quella cassetta faceva sentire la sua voce nella casa di chi ora scrive, addolorato per la scomparsa di Tedeschi, addolorato, ma non sorpreso ovviamente, perché “se da giovani si può morire, da vecchi – come disse una volta il compianto monaco benedettino Giuseppe Tamburrino – si deve morire!”. Epperò, si sa che il distacco da persone care, provoca sempre un dolore a questo “nostro povero cuore di carne”, come lo definiva Domenico Giuliotti. E di dolore, dunque possiamo parlare, riandando col pensiero della mente e il sentimento del cuore, a quelle audizioni prenatalizie della “Favola” guareschiana “detta “da Gianrico. E quando, alla fine si arrivava a quel “C’era una volta la prigionia…” invariabilmente gli occhi si inumidivano e un groppo afferrava la gola…

Se ne è andato un grande attore, un grande italiano. E il ricordo dell’ultracentenario (aveva tagliato il traguardo del secolo nell’aprile scorso) Gianrico Tedeschi, è di quelli che vanno mantenuti vivi, non soltanto nella storia della cultura, ma pure in quella di chi ha seguito la sua vicenda personale intrecciatasi con la storia d’Italia, a incominciare, appunto, dall’esperienza del lager nazista, che segnò profondamente l’uomo, così come aveva segnato tantissimi altri IMI (Italienische Militaer Internierte, come i tedeschi avevano definito i prigionieri del Regio Esercito catturati all’indomani dell’8 settembre 1943, e che avevano rifiutato la collaborazione), la stragrande maggioranza, che, come Guareschi, avevano lasciato qualcosa di se stessi lassù, nei lager di Polonia e di Germania.

Tedeschi aveva fatto parte di quel gruppo di personalità della cultura (oggi diremmo “intellettuali”) che nella prigionia non si erano dati per vinti, reagendo alla fame, al freddo, alle malattie, alla nostalgia della famiglia e della Patria, mantenendo fede a un giuramento, o per scelte politiche, o ancora per dignità personale, nel dire NO ai nazisti, e quindi organizzando i giornali parlati, le lezioni universitarie, le conferenze, il teatro – appunto.

Giovannino Guareschi era stato l’animatore di questo gruppo, del quale facevano parte, per fare qualche esempio, Novello, Roberto Rebora, Enrico Allorio, Enzo Paci, Arturo Coppola, Giuseppe Lazzati, e Tedeschi, appunto, il cui talento di attore Guareschi intravide proprio allora, là, nei lager. E l’incoraggiamento-stimolo da lui ricevuto, lo stesso attore di teatro e cinematografico lo avrebbe confermato in un’intervista per Il “Gazzettino” rilasciata a chi scrive negli anni Novanta del secolo scorso.

Si trattò di una intervista telefonica, resa possibile anche perché ne furono pronubi Alberto e Carlotta Guareschi. Ma qui è opportuno aprire una parentesi, per sottolineare il particolare rapporto intessuto da Carlotta con gli ex IMI, dopo la morte del padre. Un rapporto fatto di cordialità, di accoglienza, di paziente ascolto di chi, magari avendo raggiunto un’età molto avanzata, a volte si dimostrava un po’ pesante, noioso. Ma Carlotta, sempre sorridente, non dava mai prova di aver perso la pazienza, e ascoltava, e rispondeva, e faceva, e si industriava per loro, per questi uomini di carattere, che con Giovannino avevano condiviso tutto. Così, il rapporto con Gianrico Tedeschi, affidato anche a scambi epistolari. – Parentesi chiusa.

Nell’intervista a chi scrive, poi, l’attore si dimostrò di una semplicità, modestia, gentilezza, non comuni, e ne è ancora vivo il ricordo. Semmai, resta il rimpianto di non avere avuto l’occasione di un incontro personale… L’attore è stato grande, come si è detto, avendo lavorato coi massimi registi, sia in teatro, sia nel cinema, come le cronache non hanno mancato di evidenziare. E tante interpretazioni, anche piccole, per così dire, nel senso che il Nostro non era protagonista, hanno lasciato il segno. Basti pensare alla figura del poeta fascista del “Federale” che dopo l’8 settembre si è ritirato in soffitta, a scrivere versi pronti per il “dopo”, quel “dopo” di tanti opportunisti. Oppure, a quella piccola parte affidatagli in Brancaleone alle crociate. Interpretazioni straordinarie, di una finezza e forza non comuni… Ci fermiamo qui.

Per tornare al grande uomo, al grande italiano, profondamente segnato, lo sottolineiamo un’altra volta, dall’esperienza del lager. E a questo punto, diamogli la parola, con quel che scrisse su un giornale al rientro della prigionia, emblematico ai fini della comprensione di uno stato d’animo più che legittimo di chi, dopo tante sofferenze, tornato in patria aveva trovato un’accoglienza a dir poco “indifferente”.

Ecco: “… Bisogna che vi decidiate a prendere nella sua giusta considerazione il dramma di questa realtà: il reduce non ha ancora disposizione d’animo che gli permetta di affiancarsi alla vostra opera. Nei confronti della cosiddetta ricostruzione è scettico, apatico, indifferente. Il reduce non si interessa di politica, di partiti, di questioni sociali, di governo, i giornali lo confondono, le parole lo stordiscono, i manifesti lo soffocano, i comizi lo lasciano freddo, le bandiere, le insegne, i distintivi, i cortei, gli scioperi, i pugni chiusi, le giornate celebrative, le adunanze nei teatri lo disorientano”.

Questo brano, che è dato leggere nel volume “I militari italiani nei lager nazisti” (Il Mulino) di Mario Avagliano e Marco Palmieri, dà una ulteriore immagine (con quelle fornite da Guareschi e da altrui ex IMI), di uno stato d’animo, appunto, molto prostrato dall’esperienza vissuta, ma poi, per quell’indifferenza trovata al rientro in Italia. Ecco, il Tedeschi del lager, al quale ci possiamo ricollegare nel ricordo non perituro della Favola di Natale, che soltanto lui poteva leggere in quel modo, con quei toni-accenti, così dolente nella voce, perché a dolergli era prima di tutto il cuore.

C’ERA UNA VOLTA LA PRIGIONIA… Torna (libro e cassetta) la famosa “Favola di Natale” scritta da Guareschi nel 1944 in un lager nazista.
(Intervista di Giovanni Lugaresi a Gianrico Tedeschi, “Il Gazzettino”, 1992)

Ritorna, dopo quasi mezzo secolo, la «Favola» che Giovannino Guareschi scrisse fra i reticolati del lager di Sandbostel, per leggerla poi, baracca per baracca, in quello che doveva rivelarsi l’ultimo Natale di guerra e di prigionia. Ritorna in una nuova edizione composta dal libro (quasi introvabile) e dalla cassetta (introvabile) che dopo il conflitto incise GianricoTedeschi, il quale, proprio fra i reticolati di Germania, aveva maturato, per sua stessa ammissione, la vocazione d’attore.
E ritorna una delle pagine più belle e più alte non soltanto dell’opera dello scrittore della Bassa, ma della favolistica tout court. Come altri scritti guareschiani, questa fiaba nacque per dare conforto, coraggio, fede, speranza al suo autore e ai compagni di prigionia. Le muse ispiratrici, disse Giovannino, ne erano stati il freddo, la fame, la nostalgia. Nostalgia della casa, della famiglia, della patria lontane. E dunque, nostalgia dei figli, nel caso specifico, dal momento che lo scrittore immaginò il suo primogenito di quattro anni, Albertino, in viaggio verso il lager per andare a recitar la poesia di Natale al babbo: un viaggio intrapreso con la vecchia nonna, il cane Flik e una lucciola gentile che illuminava loro il cammino.
E anche immaginava, l’autore, di partire a sua volta per andare a cercare il suo bambino; l’incontro avveniva a metà strada, non prima che Albertino e i suoi compagni siimbattessero in strani personaggi e vivessero inconsuete si tuazioni. La favola era (è) tante cose. Espressione di sentimenti, di tenerezza, di bontà, metafora della speranza, della fede, della libertà. Ancora: metafora della lotta che sempre, da che mondo è mondo, si svolge tra le forze del bene e quelle
male. Infatti, vi si trovano (stupendamente tratteggiate dall’ironica fantasia guareschiana) le forze del Dio della Pace e quelle del dio della guerra. Infine, questa favola è un tocco preciso di delicata poesia: espressa sottovoce, quasi sussurrata. Poesia melanconica e struggente quale soltanto uno spirito come Guareschi poteva esprimere: fra sentimento e sogno, fra tenerezza e ricordo. Fu, tra i vari scritti del tempo del lager, anche quello un capitolo straordinario della vita e dell’opera di Giovannino. Il quale, a liberazione avvenuta, il Natale 1945, lesse la fiaba all’Angelicum, davanti ai suoi compagni di prigionia. C’era il coro dei bambini, perchè le pagine guareschiane erano state musicate da un altro artista che si trovava fra i reticolati di Germania: Arturo Coppola. Poi, fu il libro, stampato dalle Edizioni riunite, quindi ristampato dalla Rizzoli; infine, l’incisione in disco e cassetta con la voce di GianricoTedeschi.
E adesso, una felice idea della Rizzoli ha fatto sí che quest’opera sempre fresca, viva, toccante, commovente, che piace a tutti (grandi e bambini, intellettuali e gente semplice), perchè scalda il cuore, sia a disposizione nella sua veste scritta e in quella parlata e cantata.
GianricoTedeschi, attore in «servizio permanenente effettivo», che con la baldanza dei suoi 72 anni gira calca le scene della penisola, non si aspettava quest’operazione. Lo abbiamo raggiunto in uno dei teatri dove sta recitando.

Che impressione fece, allora, al sottotenente del 14° Fanteria della Divisione Pinerolo sentire la lettura guareschiana della Favola?
Bisogna intanto pensare che parecchi di noi erano poco più che ragazzi. Io avevo 23 anni. Capitati in quella storia tragica, in quella guerra che non aveva senso, e nella prigionia che riempie di paure, di incertezze, trovare degli uomini come Guareschi, a cui bastava star vicino per sentire
quello che diceva, per come commentava le cose, per come le viveva, con quella grande ricchezza umana che lui aveva e con quell’umorismo straordinario che aveva, per un ragazzo, per
un giovane come ero io (e altri), era un aiuto ad andare avanti. Cosí è stato con quella Favola di Natale che lui ci ha letto in quella settimana. Trovarsi lí, con la fame, col freddo, con le paure, il giorno di Natale, e sentire un uomo come lui leggere personalmente quella sua favola, cosa vuole
che le dica, voleva dire acquisire la voglia e la forza di andare avanti ancora un anno, come abbiamo fatto, per aspettare un altro Natale. Difatti sono stati due i Natali e due le Pasque…

E quando, anni dopo, Lei lesse, per l’incisione, quella stessa favola, cosa provò?
Un senso di nostalgia… la liberazione, la ricostruzione… Siamo tornati a casa e bisognava rifare
tutto daccapo. C’era questo senso di liberazione e di nostalgia dolorosa, nel pensare a quel periodo, a quel Natale, a quella settimana di Natale superata.

E oggi, come considera questo testo?
Sono passati tanti anni, troppi… Senza dubbio, comunque, una cosa di grande valore poetico, di una grande persona umana che in quel momento, poi, particolare, non poteva che scrivere una cosa straordinariamente bella…
Le parole dell’attore cadono lente, precise, con un tono asciutto, non privo peraltro di un senso di partecipazione disentimenti che tocca il cuore. Si sente che il ricordo del lungo tempo del lager non è soltanto un ricordo. Come per Giovannino, forse anche per Tedeschi c’è una parte di lui che
è rimasta là, per sempre, coi compagni che non sono più tornati. C’era una volta, la prigionia…

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