Opus Dei, quando Dio scende nel nostro cuore – di Giuseppe Fausto Balbo

Dopo “Il ritmo della creazione”e “Come una freccia lanciata con forza verso il cielo”, continuiamo la pubblicazione delle riflessioni sul monachesimo di Giuseppe Fausto Balbo, che per Riscossa Cristiana ha già scritto una serie di articoli sulla storia degli ordini monastici.

 

 

Nell’immediato post concilio alcuni raccontavano questa storiella: “Durante l’ultima guerra mentre un capitolo di canonici era riunito in coro per la salmodia; improvvisamente inizia un bombardamento; sentite le bombe, l’arcidiacono che guidava il coro rivolgendosi ai confratelli disse: ‘Fratelli chiudiamo i breviari e iniziamo a pregare’”.

Storie di questo tipo erano in circolazione per dimostrare che solo con la nuova liturgia delle ore (Liturgia Horarum) finalmente si riusciva a pregare. Già la sostituzione terminologica evidenzia il mutamento di intenzione dell’orante e lo spostamento sull’uomo del baricentro di quella particolare relazione con Dio che è la salmodia. La liturgia delle ore che ha sostituito l’Ufficio Divino serve a “pregare”. Nella tradizione, però, celebrare l’Ufficio Divino in che senso può essere detto preghiera?

Cerchiamo di capire: se è vero, come afferma san Benedetto, che non si deve anteporre nulla all’Opera di Dio Ergo nihil Operi Dei praeponatur (RB 43,3), altra cosa, però, è la preghiera personale e, infatti, sempre nella Regola è prescritta l’attenzione necessaria verso quanti vogliono fermarsi nell’oratorio a pregare: Expleto Opere Dei, omnes cum summo silentio exeant, et habeatur reverentia Deo, ut frater qui forte sibi peculiariter vult orare non impediatur alterius improbi tate (RB, 52, 2-3).

Ciò che emerge è la distinzione tra l’Ufficio divino e la preghiera intesa come slancio personale, silenzioso, sguardo dell’anima verso Dio.Quando si visitava l’eremo di sant’Antonio si poteva osservare che alcuni monaci avevano l’abitudine di salmodiare, altri di pregare(Vita di Ilarione 21,4). Si può leggere nel Trattato sull’Orazionedi Evagrio Pontico: “Prega come si conviene e senza turbamento. Canta i salmi con arte ed euritmia: sarai come un aquilotto che vola in alto. Il canto dei salmi placa le passioni e fa quietare l’intemperanza del corpo; la preghiera invece dispone l’intelletto ad esercitare la sua propria attività. La preghiera è un’attività che conviene alla dignità dell’intelletto, ossia la migliore e adeguata utilizzazione di esso. Il canto dei salmi è proprio della sapienza multiforme; ma la preghiera è preludio alla scienza immateriale e non molteplice.” (2, 82-85)

L’esperienza monastica ha tramandato, non senza difficoltà, un primato di quello che, tecnicamente, è definito Opus Dei. Perché, però, Opera di Dio? Una tradizione importante ricorda che la preghiera della sera fu iniziata dal patriarca Giacobbe quando, al termine di una giornata di fuga, si addormentò e fece il celebre sogno della scala (che tanto successo ha avuto come immagine della vita spirituale).

Se ci soffermiamo con attenzione al testo (Gen., 28,12b) cogliamo un’apparente contraddizione: Angelos quoque Dei ascendentes, et descendentes per eam, cioè non secondo la logica che ci si potrebbe attendere (cioè gli Angeli scendonoda Dio e poi risalgono), ma, invece, salgonoe scendono. Gli Angeli sono i ministri della Provvidenza di Dio, ma la Provvidenza è segno precipuo della presenza di Dio; il fatto che in quel momento sia detto innanzitutto che gli Angeli salgono, prima di scendere, indica che la preghiera di Giacobbe è Opera di Dio.

Potremo dire dunque che la Parola di Dio, di cui i salmi sono la quintessenza [e i salmi sono il corpo di cui è formato l’Opus Dei ] è l’operare di Dio in noi. Quando si canta (ahimé purtroppo è già molto se si riesce a recitare…) l’Ufficio Divino, in qualche modo è Dio che canta in noi e quel salire (verso Dio) e scendere (verso di noi) delle parole ci cambia dentro, ci cura perché nella nostra mente e nel nostro corpo circola la forza curativa di Dio che, in qualche modo, ripara la nostra natura decaduta.

Sia concesso un’analogia che potrebbe apparire urticante. La salmodia in qualche modo sembra ricordare l’allattamento al seno: mangio, mi rilasso, cresco psichicamente. Nell’Opus Dei Dio ripara la sua creatura che, accentando di dipendere da questo Opus (che è appunto di Dio! [non è la “mia” preghiera, come invece è diventata, con espressione discutibile, “pregare le ore/la liturgia”), si riconosce creatura e, perciò, in qualche modo è offerta la possibilità di ristabilire l’ordo amoris.

Il compito che permettiamo a Dio di svolgere in noi ci aiuta a comprendere che il nemico da combattere non è fuori, ma nascosto nel profondo del nostro cuore, vero e proprio campo di battaglia dove forze avverse si scontrano per il possesso della nostra anima.

Qual è, quindi, la dinamica di questa riparazione? Attraverso i salmi scorrono nella nostra mente (e nelle nostre voci) terribili vicende storiche; la bellezza, a volte inquietante, della natura; la speranza indomita in Dio, il terrore della persecuzione; la rabbia più violenta, la gioia sconfinata, l’umiliazione del silenzio di Dio, la paura della morte e la sua invocazione, tutti gli interrogativi che attanagliano il cuore della nostra vita.

È quindi amplissimo lo spettro che si dipana tra le mani di chi canta i salmi, con una dimensione di libertà, mai sfrenata, ma assoluta, sconosciuta ormai all’uomo contemporaneo che non se la può permettere, e la stessa chiesa conciliare scegliendo rincorrere la cultura radical chic, ha eliminato i salmi “sgraditi” dalla liturgia delle ore. Una delle qualità precipue dell’Opus Dei, l’Ufficio Divino, si rileva essere proprio la sua una dimensione del tutto non convenzionale.

Nell’Ufficio divino, infatti, siamo invitati a dire tutto; tutto quello che alberga nel cuore dell’uomo, Dio lo rende parola. La valenza altamente terapeutica di questo lavorio di Dio dentro la nostra mente è facile da intuire. Infatti attraverso le crude parole dei salmi (e in questo la Vulgata è un bene prezioso, purtroppo perso nelle traduzioni politically correct) i pensieri che ci ostacolano sono sottratti alla dimenticanza e restituiti alla luce.  Avere il coraggio di affrontare parole con una forza così evidente vuol dire non rompere il rapporto e riconoscere che Dio ‘è’ e sperimentare che non esercita alcuna forma di ritorsione contro la sua creatura.  L’uomo che “si costringe”a questa libertà è un uomo che può diventare libero.

Salmodiare, però, è un esercizio che implica tempo, sopportazione e un’infinita pazienza nei confronti di se stessi, ma alla fine, dopo un duro esercizio, il cuore si apre alla preghiera (quella fervorosa alla quale alcuni, talvolta, si sentono spinti terminato l’Opus Dei, come ricorda san Benedetto).

Leggiamo in Genesi a proposito di Adamo ed Eva “E udirono la voce di Dio, il Signore, che passeggiava nel paradiso verso sera (Gn. 3,8). Commenta sant’Agostino: “Iddio era forse solito in precedenza conversare con loro interiormente in modi esprimibili o piuttosto inesprimibili [con parole umane], come parla anche agli angeli illuminando le loro menti” (Agostino, La Genesi alla lettera, 11, 33.43).

A seguito della cacciata dal Paradiso terrestre dopo il peccato originale potremmo essere a portati a pensare che la preghiera sia solo un bussare perché la porta venga aperta; l’Opera che Dio svolge in noi durante l’Ufficio Divino ci ricorda, però, che la porta non è chiusa dall’interno (di Dio), ma dall’esterno (in noi).

Dio ci cura, se vogliamo,in modo tale che quella porta noi possiamo aprirla dall’esterno, da dentro di noi, lontani da Dio, così come ci ricorda il libro dell’Apocalisse: “Ecce sto ad ostiumet pulso : si quis audierit vocem meam  et aperuerat mihi januam,intrabo ad illumet caenabo cum illo  et ipse mecum” (3,20).  È Dio che bussa, a noi aprire!

Riflettiamo anche su un’altra santa tradizione che si è voluta dimenticare; più volte al giorno la Chiesa ci fa ripetere il Prologo del Vangelo di San Giovanni dove, tentando una definizione di Dio, sono usati due termini generici che ci portiamo addosso dal primo all’ultimo momento della vita: parola e carne. Verbum Caro.

Noi incontriamo questa espressione durante la recita del Credo, quando, al Verbum Caro,ci s’inginocchia; inoltre ascoltiamo la pagina del Vangelo di san Giovanni letta alla fine di ogni Messa, in cornu evangelii.  E anche allora ci s’inginocchia. Quale benedizione sperimentare quanto sia luminoso incominciare la giornata inginocchiandosi sul Verbum Caro! Chissà poi se l’inginocchiarsi è per rispetto al Verbum che si fece carne o perché la Caro nostra non può reggersi senza quel Verbum!

È ovvio che in sé i salmi possono essere base e occasione di preghiera personale, ma la struttura dell’Ufficio Divino si presenta come contenitore e raccoglitore di tutte le dimensioni dell’esperienza umana e la sua fissità, che è una cornice psichica di grande aiuto che occorrerebbe rispettare, crea un ritmo di vita interiore che fonda e sostiene l’identità e quindi, rappresenta, la specifica forma di ‘cura’ per l’anima malata dell’uomo.  Certo noi, nell’Opus Dei, lodiamo Dio perché la lode di Dio è il risultato ultimo del lavoro di Dio in noi.  Strutturarsi in Dio è evitare la confusione tipica della malattia.

Oggi che si è voluto trasformare l’Ufficio Divino in liturgia delle ore, cioè si è consacrato un orizzonte antropologico assoluto, occorre più che mai curare la nostra anima; abbiamo reso la Parola di Dio un bosco di parole in cui non poche volte l’eloquenza su Dio è usata per illuminare noi stessi.

Riflettiamo su un modello “alto” che troviamo nel Vangelo: l’annuncio a Maria. È evidente la qualità liturgica del racconto (così ben interpretata nella storia dell’arte con la rappresentazione di Maria che accoglie l’Angelo mentre legge, quieta, un libro! È il punto più alto dell’Opus Dei, del lavoro di Dio nell’essere umano.  Ci invita san Beda il Venerabile: “…con la beata Madre di Dio preghiamo assiduamente perché si compia in noi la sua parola, ossia quella parola che Egli stesso pronunciò volendo esporre il motivo della sua incarnazione: ‘Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito’(Gv. 3,16)”.

Il nostro bisogno di “fare”, dietro cui spesso prospera il vuoto della nostra incapacità di essere’ quieti di fronte a Dio, ci fa dimenticare che con il Battesimo inizia non solo la nostra nuova vita, ma una realtà ben più grande: la vita di Cristo in noi! Il nostro cammino spirituale dovrebbe consistere molto semplicemente nel permettere al Signore Gesù di compiere in noi la sua opera: riportarci al Padre!

La sostituzione del nostro piccolo “io” con quello di Cristo. È esperienza comune, invece, come sia più facile impegnare ogni angolo della propria vita nel raggiungimento di un obiettivo spirituale anche elevato, ma basato largamente sul nostro “io”. Non sarebbe meglio, invece, lavorare nella fede che Cristo ha assunto su di sé ogni cosa (Cor. 5,21)per cui la nostra più piccola sofferenza, la nostra più grande gioia, la nostra opera più eccelsa è più Sua che nostra?

Vivere l’Opus Deici richiama a verificare se veramente crediamo alla nostra incorporazione con Cristo, se crediamo al mistero della Chiesa… Come il seme che l’uomo semina e che cresce dum nescit ille: “Come, egli stesso non lo sa.” (Mc 4, 27b). Avevano quindi ragione quei canonici!  C’è un tempo per la cura e c’è un momento per l’intervento urgente in lacrimis et intentione cordis (RB 52,4).

 

 

 

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