Ciascuno di noi è influenzato da tutti i libri che ha letto. Altra cosa sono i testi – e gli autori – che ci hanno formato, le opere che diventano l’imprinting della nostra personalità e della visione del mondo alla quale aderiamo. Per chi scrive, si tratta di Dante, Tommaso d’Aquino, Cervantes, Tocqueville, Ortega y Gasset, Dostoevskij e pochi altri. 

Se c’è un autore che ha forgiato in profondità il nostro spirito, quello è Oswald Spengler. Tedesco della Sassonia, dunque prussiano, ma poi bavarese di residenza sino alla morte, avvenuta nel 1936 a soli 56 anni, ingegnere per studi, storico, filosofo, morfologo della storia per attitudine e scelta, fu forse la voce più potente, singolare e solitaria della Rivoluzione Conservatrice, il fenomeno culturale che attraversò la Germania nella prima parte del XX secolo, tra Weimar, la sconfitta dell’Impero guglielmino e la temperie che portò al potere il nazionalsocialismo. 

Spengler ammise negli anni Venti di aver votato per Hitler, poi fu un avversario tenace del nazismo, che lo emarginò, lo mise nel mirino con attacchi feroci e la consegna del silenzio. Alla sua morte, causata da un infarto, ci fu chi ipotizzò la responsabilità del partito di Hitler, una voce mai corroborata da prove.  

L’opera che ne consacrò la fama fu Il tramonto dell’Occidente, uscito nel 1918, nel momento della sconfitta tedesca, della fine degli imperi e all’alba della consapevolezza, per alcuni grandi spiriti, che la Grande Guerra, i suoi massacri, le sue trincee insanguinate, la guerra chimica e di materiali potentemente descritta da un altro grande tedesco, Ernst Jünger, fu la tomba dell’Europa, del suo spirito e della sua civiltà, come lo era stata, per quattro lunghissimi anni, della sua gioventù. 

Contemporaneamente a Spengler, dall’altro lato del Reno, si levava la voce di Paul Valéry: “noi, le civiltà, ora sappiamo di essere mortali”. Analoghi concetti, analizzati prevalentemente sotto il profilo geopolitico e dal punto di vista dell’impero britannico, sarebbero stati poi espressi da Arnold Toynbee nel monumentale Civiltà al paragone. In Italia, Il Tramonto fu letto e apprezzato da Mussolini in lingua originale, ma pubblicato solo nel 1957 nella scintillante traduzione di Julius Evola. 

In tempi ancora successivi, il tema della decadenza della civiltà europea e occidentale diventerà un filone del nichilismo, ad esempio nell’opera del franco rumeno Emil Cioran. Tuttavia, nessun intellettuale indagherà tanto a fondo le civiltà storiche, né elaborerà una teoria generale, una vera e propria morfologia delle civiltà umane, quanto l’arcigno ingegnere tedesco. In più, esprimerà in anticipo su Heidegger, sullo stesso Jünger, su Ellul e molti altri una profonda riflessione sulla tecnica come elemento centrale della civilizzazione moderna.

Spengler esercitò altresì un’influenza rilevante su numerose correnti culturali, storiche e scientifiche, oltrepassando il pur variegato recinto della Konservative Revolution e di quella “cultura del pessimismo” di cui fu appartato, ma significativo esponente. Il tramonto dell’Occidente, gigantesco affresco di filosofia della storia, fu il simbolo di una stagione caratterizzata dalla messa in discussione della tradizione liberale. Spengler era un conservatore, un elitario a tutto tondo, e certamente la sua polemica contro la repubblica di Weimar fornì un armamentario ideologico di prim’ordine a correnti e suggestioni che confluirono poi nel nazionalsocialismo. 

La sua concezione, espressa nel Tramonto dell’Occidente, ma anche in Anni della Decisione, nell’Uomo e la Tecnica e nel suo testo più “politico”, Prussianesimo e Socialismo, può essere definita naturalismo storico, una teoria che interpreta la storia come espressione di leggi biologiche. “Le civiltà sono organismi e la storia universale è la loro biografia complessiva”. Niente di più materialistico, in apparenza, ma Spengler non può essere iscritto frettolosamente al campo materialista. Per lui, ciò che distingue la storia dalla natura è il suo carattere “organico”. Natura è tutto ciò che è dominato da una necessità meccanica, storia ciò che è dominato da una necessità organica. Pertanto, le civiltà – che egli analizza in un complesso, erudito percorso in cui si intrecciano archeologia, spiritualità, filosofia, storia, antropologia, etnologia – vanno concepite e studiate come organismi che nascono, crescono e muoiono. Realtà uniche e irripetibili, radicate in un tempo, un luogo, un popolo o un gruppo di popoli. 

Un passo del Tramonto illumina sulla concezione spengleriana. “Una cultura nasce nell’attimo in cui una grande anima si desta dallo stato psichico originario dell’eternità eternamente fanciulla e se ne distacca, come una forma da ciò che è privo di forma, come qualcosa di limitato e di perituro dall’illimitato e dal permanente. Essa fiorisce sulla base di un territorio delimitabile in modo preciso, al quale rimane vincolata come una pianta. Una cultura perisce quando quest’anima ha realizzato l’intera somma delle sue possibilità sotto forma di popoli, di lingue, di dottrine religiose, di arti, di stati e di scienze, ritornando quindi nel grembo della spiritualità originaria”

L’idea di tramonto dell’Occidente fa pensare all’esaurimento delle energie vitali ma anche all’insorgere di altre civiltà: declino di un mondo e alba di un altro. Ognuna è caratterizzata da un proprio sistema di valori che la impronta e diventa, dentro di essa, un assoluto che si relativizza se analizzato nel complesso delle distinte civiltà. La storia, dunque, non va interpretata secondo lo schema illuministico del progresso, ma come successione di grandi civiltà indipendenti l’una dell’altra, il cui movimento è circolare, similmente alle stagioni della vita: nascita, sviluppo, maturità, invecchiamento, morte. 

In polemica con Kant, portò al massimo livello la contrapposizione tra Kultur e Zivilisation, presente nella cultura tedesca sin dal secolo XVIII. Kultur, per Spengler, è la civiltà, mentre Zivilisation, civilizzazione (o società) è il suo stadio ultimo, manieristico, degenerativo. Nel suo percorso organico, ogni Kultur-civiltà attraversa vari stadi. L’iniziale slancio creativo porta alla maturità, alla pienezza, ma sfocia ineluttabilmente in una sorta di irrigidimento, sintomo di vecchiaia e tramonto. La Zivilisation è caratterizzata da norme e valori meramente esteriori, convenzionali, il cui esito è lo scetticismo diffuso e poi il materialismo, ultima tappa prima del definitivo tramonto. 

Se questa è la cornice, l’Occidente – Abendland – terra della sera o del tramonto nel titolo, quasi un’endiadi se abbinata a untergang, che significa tramonto, ma anche caduta – è solo l’ultima in ordine di tempo delle grandi civiltà storiche. Il suo percorso si è concluso, ha perduto forza, dinamismo: il tempo di Spengler è quello del declino, che un secolo dopo ha definitivamente compiuto il suo ciclo. Il destino è quello di diventare storia, passato, e lasciare il campo a civiltà nuove, giovani, le civiltà “di colore” di cui aveva previsto l’avvento. I sintomi della decadenza per Spengler erano evidenti nella crisi della morale e della religione, nel prevalere delle democrazie e del socialismo, nel potere crescente del denaro che si fa potere politico. 

Nel contempo, si spengono i grandi stili artistici – approfondirà il tema nella generazione successiva l’austriaco Hans Sedlmayr – l’arte si riduce a moda, l’umanità si concentra in poche grandi metropoli, gli alveari disumanizzanti di cui parlerà, ad esempio, lo scrittore spagnolo Camilo José Cela. Dilaga un atteggiamento sentimentale di fondo, o meglio un’emotività immediata, priva di profondità. 

Per Spengler, tutto ciò condurrà al “cesarismo” – il potere di un uomo solo – e poi alla barbarie, su cui nascerà una nuova civiltà, che egli chiama “russa”, più per orrore del bolscevismo che per disprezzo verso il vicino slavo.  L’avvicinamento tra Germania e Russia fu anzi uno dei temi della Rivoluzione Conservatrice (i popoli dal “sangue giovane”), in particolare di Arthur Moeller Van Den Bruck, che infatti accolse con scetticismo l’opera di Spengler. 

L’ingegnere sassone fu influenzato soprattutto da due giganti della cultura tedesca, Goethe e Nietzsche. Dal grande letterato, che egli considerava soprattutto un pensatore, trasse l’interesse per la figura archetipica di Faust, l’uomo che non vuole limiti, disposto a tutto per sapere, avanzare e penetrare i segreti della natura e dell’essere. Uomo “faustiano” è la definizione che Spengler dà dell’idealtipo occidentale, animato da una febbrile volontà di potenza che lo porta alla scoperta, alla conquista, all’amore per il rischio e l’ignoto. Ma l’universalizzazione della civiltà e del carattere faustiano, per Spengler, sono l’inizio della sua fine, poiché “una civiltà fiorisce su una terra esattamente delimitabile, alla quale resta attaccata come una pianta”. La nostra, come le altre civiltà-kultur inizia il suo declino che diventa civilizzazione, poi tramonto e infine caduta nel momento del suo apogeo. “Una volta che lo scopo è raggiunto e che l’idea è esteriormente realizzata nella pienezza di una tutte le sua interne possibilità, la civiltà d’un tratto s’irrigidisce, muore, il suo sangue scorre via, le sue forze sono spezzate, essa diviene civilizzazione.”  La Kultur perde, per così dire, la sua “forma”.     

Concetti che Spengler esprimeva in piena euforia progressista, con una straordinaria capacità di anticipo sui tempi. Fu il primo a cogliere i segni di quello che nei decenni successivi diventerà il progetto cosmopolita dell’Occidente, indizi di una volontà di potenza che – paradossalmente – si rovescia in tramonto per la perdita dei caratteri originari. 

Si è spesso parlato di pessimismo spengleriano: il declino è fatale, non vi sono vie d’uscita alla luce del grande affresco dipinto nel Tramonto. Tuttavia, il suo è un pessimismo attivo, che invita a tenere duro, a non essere passivi, respingendo con fermezza, ad esempio, le contaminazioni. Inevitabile è il rifiuto del cosmopolitismo e di quella che oggi chiamiamo multiculturalità. L’avvertimento di Splengler è impietoso: culture radicate in tradizioni differenti non si possono mescolare. La conseguenza dell’innesto è l’accelerazione del declino dell’Occidente ad opera di popoli “giovani” che credono nella loro tradizione e identità culturale. Popoli ancora ricchi di simbolicità, non disposti a farsi “contaminare”, e che in tale determinazione esprimono la potenza ascendente di una civiltà contrapposta a quella al tramonto.

Il globalismo porta con sé la perdita di ogni riferimento simbolico, che per Spengler rappresenta invece l’energia vitale di ogni civiltà. Perdere i simboli significa tramontare, per cui la globalizzazione – occidentalizzazione malata del mondo – non è il segno di una vittoria, ma la prova irrevocabile del declino. Un tramonto che Spengler individua in modo speciale nell’umanità sradicata delle metropoli, scettica, folla solitaria, trasformata da persona in essere collettivo, nomade e monade, incapace di pensiero, un soggetto che si lascia vivere senza un domani, privo di slanci, obiettivi, bandiere. 

La preferenza – o la nostalgia – di Spengler per un mondo di piccole comunità, per la vita rurale, paragonata alla meccanica impersonale dell’universo metropolitano, destò l’ammirazione del sociologo e urbanista Lewis Mumford, autore del Mito della Macchina e La cultura delle città, analista d’eccezione dell’epoca ingegneristica che stava compiendo il passaggio da una società biologica a una meccanica. Un passaggio epocale in via di completamento che ha comportato la svendita dell’anima dell’uomo faustiano, schiavo degli apparati da egli stesso inventati dopo aver scoperto e utilizzato molti segreti fisici e aver fatto di Techne uno strumento di dominio planetario. 

La storia, sulle tracce di Goethe, è per Spengler “natura vivente”, un impianto culturale che non poteva che essere inviso alla filosofia hegeliana e marxista, così come il suo radicale anti egalitarismo, esposto soprattutto in Anni della decisione. “La società si fonda sulla diseguaglianza degli uomini. Questo è un fatto naturale. Ci sono nature forti e nature deboli, caratteri inclini e caratteri inadeguati a comandare, temperamenti creativi e temperamenti privi di talento: rispettabili e disprezzabili, ambiziosi e modesti. Quanto più ha un senso e un significato, tanto più una Kultur assomiglia al processo formativo di un nobile corpo animale o vegetale, per cui tanto maggiori risultano le diversità tra gli elementi costitutivi: le diversità, non i contrasti, i quali infatti vengono introdotti soprattutto per calcolo.” 

Profetica è l’analisi della civilizzazione stremata, estenuata, nella quale “il significato di maschio e femmina va perduto, e la volontà di perpetuarsi viene meno. Si vive solo per se stessi, non per l’avvenire delle generazioni. Per il contagio diffuso dalla città, la Nazione in quanto società – all’origine il plesso organico di famiglie – minaccia di dissolversi in una somma di atomi privati, ciascuno dei quali mira a trarre dalla propria vita e da quella degli altri la massima quantità di piaceri: panem et circenses”. E ancora “I popoli bianchi, fino a che punto si sono inoltrati in questo pacifismo? Il chiasso contro la guerra esprime una posa intellettuale, un atteggiamento astratto, oppure rivela la consapevole abdicazione alla storia, a prezzo della dignità, dell’onore, della libertà? Ma la vita è guerra. Il bisogno di una quiete da fellah, di un’assicurazione contro tutto ciò che disturba la piatta quotidianità, contro il Destino in ogni suo aspetto, sembra aspirare a questo esito: una sorta di mimetismo dinanzi alla storia mondiale, il fingersi morti di insetti umani di fronte al pericolo, l’happy end di un’esistenza priva di significato, segnata da una noia sulla quale musica jazz e balli negri intonano la marcia funebre della grande Kultur. Gli uomini di colore non sono pacifisti. Non sono attaccati a un vivere il cui unico valore è la lunga durata. Se noi la deporremo, saranno loro a raccogliere la spada. Una volta essi temevano l’uomo bianco, ora lo disprezzano”.

In L’uomo e la tecnica affronta un tema che il Terzo Millennio ha reso ulteriormente urgente: che cosa significa tecnica? Qual è il suo senso nella storia, il suo peso nella vita dell’uomo, il suo posto morale o metafisico? La risposta di Spengler è duplice, forse contraddittoria: nel Tramonto dell’occidente è la pianta malata di cui si ciba la decadenza, in L’uomo e la tecnica, anticipando pensatori come Heidegger e Hannah Arendt e scrittori “filosofici” come Ernst Jünger (L’Operaio) connaturata all’uomo, è parte della stessa essenza umana. In questo si avvicina ad Arnold Gehlen, l’antropologo per il quale l’uomo è l’essere che, attraverso intelligenza e razionalità tecnica, si “esonera” dai gesti materiali e supera la dimensione istintuale. La tecnica, dunque, è insieme strumento e destino della specie umana, sino all’ardito accostamento di tecnica e metafisica. 

Nel Tramonto, Spengler tenta per primo un esperimento di portata tellurica, esposto chiaramente dall’autore: “in questo libro viene tentata per la prima volta una prognosi della storia. Ci si è proposti di predire il destino di una civiltà e, propriamente, dell’unica civiltà che oggi stia realizzandosi sul nostro pianeta, la civiltà euro-occidentale e americana, nei suoi stadi futuri”. 

La diagnosi è severa, la prognosi infausta: l’Occidente cade per consunzione, né può trovare sbocchi di sopravvivenza, giacché ha concluso il suo ciclo vitale. Spengler contesta il percorso lineare della storiografia secondo il quale gli eventi seguirebbero un andamento teso a un fantomatico progresso, riagganciandosi piuttosto a concetti come l’eterno ritorno e la nicciana volontà di potenza – oggi definitivamente risolta nel suo contrario, al di fuori del titanismo tecno scientifico – e al mito di Faust. 

Essenziale, in largo anticipo sui tempi, è la consapevolezza di vivere in un’epoca di crisi, in particolare intellettuale e valoriale, l’esaurirsi delle certezze che il Novecento ereditava dall’ottimismo del secolo precedente, il cui apice fu il positivismo. Vide il progresso anche nella sua tendenza inesorabile a tagliare i ponti con il passato. “Quello che ci appare più chiaro nei suoi contorni è il tramonto dell’antichità, mentre già oggi avvertiamo chiaramente in noi e intorno a noi i primi indizi di un avvenimento ad esso del tutto analogo per corso e durata, che appartiene ai primi secoli del prossimo millennio: il tramonto dell’Occidente”. 

Il percorso immaginato dall’ingegnere prussiano si è compiuto. La prognosi si è rivelata esatta; del resto Spengler non aveva prescritto alcuna terapia. Se ogni civiltà è un organismo e ha quindi una nascita, una crescita, una decadenza e una morte, come ogni organismo biologico il ciclo è ineluttabile, determinato dal corredo di possibilità di cui dispone all’inizio del suo sviluppo. In linguaggio contemporaneo, ogni civiltà ha un proprio codice genetico e una scadenza. È la logica organica della storia. Una specie di destino, una categoria estranea alla razionalità, un amor fati delle civiltà che non spiega la decadenza, ma ne prende atto e, in qualche maniera, la attribuisce all’inesorabile legge dell’inizio e della fine. 

La civiltà occidentale seguirà il cammino di tutte quelle che l’hanno preceduta. L’anamnesi, i sintomi della decadenza sono rintracciati da Spengler nei fenomeni economici e politici del mondo a lui contemporaneo, e li scorge nell’affermazione della borghesia, nel primato dell’economia sulla politica, nella democrazia avvinta dal denaro, nella crisi dei princìpi religiosi e nella inesistente libertà di pensiero. “Non esiste una satira più tremenda della libertà di pensiero. Un tempo non si poteva osare di pensare liberamente; ora ciò è permesso, ma non è più possibile. Si può pensare soltanto ciò che si deve volere, e proprio questo viene percepito come libertà”. Riflessioni che sembrano riferirsi, con un secolo di anticipo, all’odierna “cultura della cancellazione” di provenienza americana, ma di matrice francese e francofortese. 

Un altro aspetto assai interessante è il singolare relativismo spengleriano, in parte mutuato da un pensatore storicista come Wilhelm Dilthey. Ogni civiltà rappresenta un mondo a sé, elabora un proprio linguaggio formale, un simbolismo, una specifica concezione della natura e della storia. La comprensione è dunque reale solo dentro la medesima civiltà, orizzonte primario e intrascendibile. La conseguenza è l’affermazione che non può esistere una filosofia o una morale universale assoluta, e nessun principio teorico o pratico può ambire a una validità non contingente. 

Vi è dunque un dualismo natura-storia. La prima è il dominio della necessità causale espressa nelle formule e nelle leggi della scienza. La storia è il regno della vita e del divenire vitale, in cui il protagonista non è tanto l’uomo, quanto la “cultura”, un tema caro al romanticismo tedesco, da Herder sino a Burkhardt. Il destino prevede inesorabilmente il tramonto, ovvero la Zivilisation, prodromo della fine. Nessuna speranza, quindi, se non in un radicale sovvertimento di tutti gli pseudo-valori della civilizzazione che riconduca l’Occidente al rinnovamento attraverso la riscoperta delle sue origini. Lo spiraglio chiuso dallo Spengler del Tramonto è riaperto, o almeno lasciato socchiuso nella formula suggestiva di Anni della decisione, il libro della maturità e della proposta: “L’unica cosa che promette la saldezza dell’avvenire è quel retaggio dei nostri padri che abbiamo nel sangue. Idee senza parole”

L’Occidente ha rinunciato anche a quello e muore in un deserto di idee e in un’alluvione di parole che significano il contrario di ieri e di sempre. La profezia dell’ingegnere filosofo della storia si è avverata, al tramonto segue la notte. Spengler ne fu consapevole nell’ultima parte della sua vita, in cui, isolato dal nazismo “plebeo”, raccoglieva appunti e idee che non poté mai organizzare e tanto meno pubblicare. Immaginò un titolo, drammatico ma aperto alla speranza: Sentiero nel buio. È quello che, faticosamente, quasi tragicamente, deve percorrere il tramontato Occidente per sperare, chissà come, dove e quando, in un nuovo ciclo di Kultur, forse l’eterno ritorno immaginato da Friedrich Nietzsche.  

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