PADOVA, CLINICA OSTETRICA. “POLITICAMENTE CORRETTA” E ANCHE UN TANTINO DISUMANA – di Elisabetta Frezza Bortoletto

di Elisabetta Frezza Bortoletto

 

 

brcLa clinica ostetrica dell’ospedale di Padova (che va sotto il nome magnifico e progressivo di “Dipartimento di Scienze Ginecologiche e della Riproduzione Umana”, in impeccabile gergo d’avanguardia) è salita col nuovo anno agli onori delle cronache per avere democraticamente e felicemente accolto la pretesa di una puerpera di ottenere per la compagna, altra genitrice femmina del medesimo neonato, un contrassegno adeguato alla fattispecie: il braccialetto con la dicitura di “padre” risultava infatti palesemente inadeguato e quasi quasi offensivo nella sua retriva obsolescenza. Con sollecitudine compiacente, la clinica “amica delle mamme” (forse ormai orientata verso la partenogenesi) ha prontamente confezionato un braccialetto unisex, ma non solo: ha tratto dal caso singolo -peraltro originato da una pratica contra legem per l’ordinamento italiano vigente, di fecondazione eterologa- la ghiotta occasione per riscuotere un plauso entusiasta e senza riserve dal mondo trasversale del politicamente corretto, accecato sempre più dai fumi dell’ideologia libertaria. Ha cioè imposto in via generale la denominazione sessualmente neutra di “partner” al genitore numero 2.

Ho avuto una certa consuetudine con quella clinica, per averci partorito i miei cinque figli e, anche, per esservi stata assistita per i postumi di tre aborti spontanei.

Di ciascuno di questi eventi serbo un ricordo nitido e dettagliato di luoghi, volti, parole, rumori, colori, tutto. Custodisco la memoria, legata a quegli ambienti, della beatitudine che accompagna il miracolo della nascita, capace di cancellare in un lampo qualsiasi dolore fisico, così come la memoria del profondo struggimento interiore legato alla morte di una creatura ancora racchiusa nel grembo, che diviene nel tempo nostalgia per un figlio, quel figlio, che si pensa e si crede nel l’abbraccio di Dio.

L’ultimo aborto che ho vissuto risale a meno di un anno fa e credo valga la pena di rilevare alcuni aspetti di quella recente esperienza.

Eravamo in un gruppetto, quella mattina, a subire il medesimo trattamento da polli in batteria. Non un sorriso, non una parola gentile. Anzi, per avere chiesto il permesso di vedere un minuto mio marito prima dell’intervento, sono stata rimproverata ad alta voce come una scolaretta negligente per non aver letto con la dovuta attenzione il foglio di istruzioni della giornata.

Ed era facilmente intuibile che alcune di quelle mamme portavano dentro di sé, in quei momenti, un figlio ancora in vita. Non un tocco di mano, non un tocco di voce che non fosse quello, meccanico e glaciale, delle disposizioni da eseguire, e senza fiatare.

Quel giorno sono diventata un “caso”, rimpallato di mano in mano con un misto di stupore e fastidio, e senza che alla fine si riuscisse a trovare il soggetto competente per materia, per aver chiesto, con tanto di domanda scritta, che i resti del mio bambino non fossero gettati tra i rifiuti ospedalieri, ma venissero conservati per ricevere la sepoltura degna di un essere umano: una curiosa pretesa la mia, tra l’eccentrico e il macabro, che disturbava le pratiche zelanti e asettiche di chi è evidentemente abituato a dare risposta e applicazione ad altro tipo di diritti, delle madri e delle donne.

E qui si ritorna all’incipit, e il cerchio si chiude.

Nella frenesia cieca e ignorante di assecondare scelte irragionevoli e arbitrarie di adulti fieramente autodeterminati, ci si scorda di chi non ha voce né pretese: ci si scorda dei bambini, del loro diritto di vivere, di essere generati nel grembo di una madre e accolti tra le braccia di un padre, di essere accompagnati e cresciuti da quella mamma e da quel papà. E non si venga a dire che è ora di superare trite convenzioni sociali, o modelli culturali passati di moda: si tratta dei fondamenti stessi della natura dell’uomo, sacri e inviolabili per chi abbia a cuore la sua dignità.

Ripenso allora ai tanti visi che ho incrociato lì dentro, tra coloro che ivi prestano la loro opera, e mi auguro che qualche ostetrica o puericultrice, qualche medico o infermiera, sappia ribellarsi alla prassi trionfale del nuovo braccialettino politicamente corretto (io li conservo tutti quei braccialettini, nella versione oramai démodé, dentro il cassetto del mio comodino); mi auguro che qualche neo-papà, varcando la soglia del nido per prendere tra le braccia il suo bambino appena nato, pretenda dall’azienda ospedaliera di Padova il ripristino del suo nome di PADRE.

1 commento su “PADOVA, CLINICA OSTETRICA. “POLITICAMENTE CORRETTA” E ANCHE UN TANTINO DISUMANA – di Elisabetta Frezza Bortoletto”

  1. ho capito perchè mi hai risposto nella mail… : “più che l’avvocato è il cuore di mamma a parlare”.
    Davvero forte questa testimonianza.
    Complimenti anche per questo sito.
    Grazie valter

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