PADOVA. COME SIAMO DIVENTATI “PARTNER” DEI NOSTRI FIGLI APPENA NATI – di Patrizia Fermani

di Patrizia Fermani


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Le avanguardie accademiche padovane continuano ad onorare la propria vocazione culturale. Già in passato le istituzioni universitarie hanno dato prova di straordinaria sensibilità verso una nuova visione esistenziale e antropologica, come quando la clinica ostetrica ha mutato la propria denominazione in quella di “centro per la riproduzione umana”, e ciò anche a dispetto di facili assonanze con l’industria avicola tanto importante per l’economia del Nord Est.

Da questo stesso centro è venuta ora la soluzione di un problema che ai più poteva sembrare insuperabile, quello della dicitura da apporre ai braccialetti di identificazione del neonato fabbricato in provetta all’estero su commissione di una coppia di lesbiche, e poi sfornato nella suddetta struttura sanitaria. Messo di fronte alla forza dei fatti, e convinto che tutto ciò che è reale deve essere anche razionale, il direttore sanitario ha fatto ricorso al principio scientifico per cui dove sta il meno deve stare per forza anche il più. Così ha pensato di applicare a tutti quelli che, passando per il suo centro, hanno partecipato in un modo o nell’altro alla nascita di un nuovo prodotto del concepimento, la qualificazione di “partner”. Ed è encomiabile che qualcuno, con fiduciosa lungimiranza, anticipi nel suo piccolo quella società a taglie unificate e unisex che cancellerà secoli di antagonismi, di rivalità e di -diciamolo- invidie inconfessabili tra uomini e donne. A questi squilibri sopperirà di certo in futuro l’eugenetica, anche se forse si avranno sgradevoli fasi intermedie come quella, magari, della castrazione collettiva.

Tuttavia, al di là della trovata ingegnosa, rimane di certo il fatto che la legge vieterebbe per ora la fecondazione eterologa; ma è anche vero che, in attesa di essere spazzata via del tutto dal nuovo vento elettorale tecnocratico, è stato creato un meccanismo perfetto capace di eluderla in toto, quella legge già indebolita. Nelle more infatti, basta delocalizzare la prima fase del processo produttivo, e fare sì che risulti made in italy soltanto il prodotto finito.

In ogni caso, tornando alla storia del braccialetto, bisognerà convenire che la qualificazione di partner data alla utilizzatrice finale dell’onanismo sanitario finisce per richiamare l’attenzione proprio su quel figlio di padre sconosciuto, e ora anche inconoscibile, che la burocrazia indicava un tempo con l’imbarazzante sigla di n n, felicemente espunta dall’anagrafe democratica e repubblicana. Ma per il nostro esponente dell’avanguardia culturale padovana, tutto non si può avere. Nel frattempo, possiamo darci arie di “partner” internazionale dell’Europa più avanzata.

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