“L’eroe dei nostri tempi non si identifica in alcun ruolo ed è sempre pronto ad entrare in trance e ad esplorare livelli inconsueti dell’essere. In questo nuovo clima l’androgino non suscita più allarme. … Il maschio e la femmina totali sembreranno forse presto anomalie irritanti“. (Elemire Zolla)
di Piero Vassallo
Nel 1949, Pier Paolo Pasolini, reo di corruzione di minori (pedofilia e efebofilia) e di atti osceni in luogo pubblico, fu espulso dal Pci “per indegnità morale e politica”. Correvano gli anni stalinisti, e la cultura sovietica era dominata da Gyorgy Lukács, il severo ideologo che approvava la rivoluzione senza guanti bianchi, ma censurava la parafilia, termine usato dalla psichiatria per indicare l’omosessualità [1].
Nel 1956 il rapporto Chruscev iniziò la fine dello sdoppiamento della strategia sovietica: nelle radiose giornate dei carristi a Budapest fu confermata la rivoluzione senza guanti bianchi, in compenso la trasgressione morale fu cautamente tollerata dai sorveglianti sulla letteratura e sulla cinematografia.
In campo estetico la svolta chrusceviana del 1956 avviò l’interruzione del conflitto tra realismo proletario e intimismo borghese.
Non fu la fine della cultura comunista ma un primo passo verso la fatale involuzione borghese prevista da Augusto Del Noce. Infatti il 1956 è l’anno di “Officina”, la rivista italiana che segnò la fine del neorealismo, dichiarò la libera uscita dei letterati e infine decretò il successo del pasoliniano “Ragazzi di vita”.
In un breve giro di tempo, la diversità imbarazzante e intoccabile del poeta bolognese uscì dal margine vergognoso, in cui la aveva isolata il Pci, e diventò il vessillo della neorivoluzione orgogliosamente marciante sulla via di Sodoma e Gomorra.
Cominciò la metamorfosi della lotta operaia in festosa promozione dell’aborto, dell’adulterio, della pederastia, della tossicodipendenza, dell’incesto e della thanatofilia.
Alberto Asor Rosa sostenne che Pasolini rappresenta il passaggio dal neorealismo “ai miti della regressione sottoproletaria”, ossia la prova generale della sostituzione del binomio Marx-Lukács con il quintetto adelphiano Nietzsche-Freud-Mann-Bataille-Marcuse.
Pasolini è dunque l’emblema del passaggio dall’illusione rivoluzionaria al trionfo del nulla nella discarica borghese. Non per caso nel pieno della gioiosa festa sessantottina, Max Horkheimer propone l’istituzione di uffici deputati all’eutanasia [2].
Lo ha confermato un interessante saggio di Ilario Quirino, edito nel 2002 da Costantino Marco in Lugro di Cosenza. Nel saggio in questione, l’autore approfondì la tesi di Alberto Zigaina, secondo il quale Pasolini cercò disperatamente/maniacalmente la propria morte.
Con il sussidio di alcune teorie psicoanalitiche, Quirino compose il ritratto dell’ideologo scismatico, che si aggirava (quasi rapito da mistico furore) tra le perversioni atroci e le punitive delizie, che sono narrate nel fluviale e ripugnante romanzo autobiografico “Petrolio”.
Pasolini è il ritratto paradossale della bacchettoneria “oltre umana” infuriante a sinistra. Aveva dunque la ragione Adriano Romualdi, quando criticava l’infatuazione pasoliniana dei neodestri, ascari di Cacciari, secondo Lucio Colletti: “Come il più basso D’Annunzio, Pasolini è ad un tempo esteta e cruscante, amatore e collezionista di preziosità linguistiche, ricercato e fatuo. E come molte prose dannunziane, la prosa pasoliniana, pur capace di abilissime bravure, ci stanca o meglio ci stucca. … In fondo Pasolini è un nietzschiano. I suoi eroi, cui tutto è permesso, hanno il loro bravo posto tra le falangi delle scimmie di Zarathustra, che hanno invaso l’Europa. Gli elementi della sua concezione generale della vita rimangono, nonostante le verniciature marxiste, sul terreno del ritualismo spicciolo tra i detriti dei grandi tentativi romantici”.
Quirino non comprese il versante nietzschiano/dannunziano di Pasolini ma vide lo steccato che separa il misticismo dalla mania del suicida.
Infatti citò un testo pasoliniano, nel quale l’alienazione suicidaria, (“la disperazione degli uomini destinati ad essere morti”), incide un carattere misterioso (“il sentimento primo di non essere accolti con amore”) sulla regressione “più terribile e incurabile”.
La tensione tra il mortifero amore contro natura e l’amata morte, che attraversa tutta l’opera di Pasolini, sarebbe dunque la conseguenza di una ferita originaria, e di una speciale, purissima vocazione religiosa, di una mistica refrattarietà al mondo.
Dalla mistica confusione di malattia e vocazione all’incursione selvaggia nelle parole di san Paolo intorno allo “stecco nella carne” il passo è breve.
Pasolini fu realmente incuriosito dalla teologia paolina, come risulta dalle assonanze che Quirino segnala e sottolinea puntigliosamente. Se non che la curiosità pasoliniana era intorbidata dall’intenzione della più bassa propaganda. Nel progetto per il film su san Paolo, infatti, santo Stefano diventa un partigiano comunista, i farisei hanno la parte dei nazisti invasori e san Paolo quella del collaborazionista, prossimo a convertirsi all’ideale.
In seguito Pasolini (lo sottolineò senza difficoltà anche Quirino) attribuisce al rapporto dell’Apostolo con Timoteo “le caratteristiche sessuali che hanno infiammato la vita dell’autore”.
In breve: Pasolini tentò di affondare il Cristianesimo nelle sabbie mobili della pederastia religiosamente corretta. Il suo progetto fu purtroppo condiviso da Giovanni Testori e da un’inquietante schiera di religiosi e fedeli capovolti.
L’opera di Pasolini è dunque una metafora del comunismo nella fase mistificatoria e corruttrice, quella lucidamente prevista da Augusto Del Noce.
Pasolini converte le illusioni ideologiche nei consolamenti procurati dal vizio dell’oligarchia iniziatica. I suoi scritti “corsari” sono parodie della povertà evangelica e mistici rivestimenti delle raffinatezze crepuscolari.
San Paolo scriveva le sue lettere con la mano deformata dalla fatica operaia, l’incensato Pasolini riceveva compensi sontuosi e dotti applausi, pubblicando le tesi della rivoluzione libertina nelle colonne di un giornale schierato con la più bieca oligarchia oscurantista, quella che ha organizzato la metamorfosi dell’ateismo marxiano nella religione capovolta professata dal partito radicale di massa [3].
[1] Negli anni Cinquanta del xx secolo, la metamorfosi dell’ateismo scientifico e la sua precipitosa discesa nel sottosuolo gnostico e sodomitico erano fenomeni conosciuti dagli studiosi cattolici. In seguito la notizia dell’insorgenza neognostica nella ragione moderna circolò nei più vasti ambienti clericali. Nel 1959 Gianni Baget-Bozzo pubblicò, in “Studium“, la rivista dei laureati cattolici, un saggio, “Dal razionalismo alla gnosi”, in cui erano puntualmente elencati i segnali della tempesta confusionaria, che l’insorgenza neognostica stava addensandosi sopra il pensiero moderno. Uditore dei dotti ragionamenti del cardinale Giuseppe Siri sulla riemersione della gnosi ereticale, Baget-Bozzo descrisse l’umiliante metamorfosi delle verità portate in trionfo dagli atei filosofanti: “Fallito il grandioso tentativo hegeliano di ridurre alla ragione la natura e la storia, ritorna drammatica l’esperienza della dualità, il pensiero ricorre a una conoscenza metalogica (l’apertura all’essere di Heidegger, l’intuizione bergsoniana) distinta e parallela alla conoscenza scientifica”. Nel nuovo scenario il pensiero laico capitolava: difendeva ancora la granitica fede nella Scienza sovrana ma ammetteva la conoscenza visionaria del soprarazionale. A Baget Bozzo non fu difficile dimostrare che la svalutazione dell’essere rovesciava l’esausto razionalismo nell’occultismo: “una conoscenza che non può intendere il sensibile che come mito o al massimo come simbolo, non può porsi che come una nuova gnosi. … Il postulato razionalistico, nella forma decadente dell’esistenzialismo offre l’identico supporto che il postulato anti-materiale forniva alla prima gnosi. Oggi come allora, la gnosi nasce dall’incontro delle grandi religioni orientali con il Cristianesimo e dal desiderio, se non di una fusione, di un’omogeneizzazione”.
[2] Max Horkheimer, “Taccuini 1950-1969″, op. cit., pag. 180.
[3] L’ideologia radicale, elucubrata da Marco Pannella e da Emma Bonino, è violentemente, totalitariamente contraria alla morale cattolica. Lo rammento Quinto: “Il divorzio, l’aborto, la promozione dell’omosessualità e tutte le battaglie contro la vita promosse dal leader radicale sono impregnate da quella cultura del male che si contrappone al bene, alla Verità“. Cfr.: Danilo Quinto, “Da servo di Pannella a figlio libero di Dio“, Fede & Cultura, Verona 2012. Dal suo canto Paolo Pasqualucci sostiene che “se nei nostri ordinamenti non si restaura la legge di natura e divina siamo destinati all’estinzione o comunque (fatti salvi altri castighi divini) a diventare in un futuro non tanto lontano schiavi dei popoli prolifici”. Cfr.: “Unita e Cattolica L’istanza etica del Rsorgimento e il Rinnovamento dell’Unità d’Italia”, Nuova Cultura, Roma 2013, pag. 89