Perché oggi non dovremmo dirci occidentali

«Dico che la fine di una civiltà è per l’uomo la scena più satura di malinconia. La possibilità che una civiltà muoia duplica la nostra mortalità». (Ortega y Gasset)

Non è un caso che l’interesse per il “tramonto dell’occidente” si sia riacceso in modo particolare negli ultimi tempi di fronte a fenomeni straordinari come il dissolvimento della democrazia, o le degenerazioni del capitalismo, emersi ormai in tutta la loro impietosa realtà. Infatti, la crisi ingloriosa della prima e certe conseguenze devastanti del secondo, dopo avere impegnato il pensiero politico e la filosofia della storia, sono risaliti con prepotenza anche alla coscienza comune perché è impossibile ignorarne la portata e le conseguenze.

Tuttavia, è anche fuorviante fissare l’attenzione soltanto su fenomeni, pur tanto significativi, che però si inseriscono in una ben più ampia crisi di civiltà, che vede lo stravolgimento della legge naturale e dei canoni più elementari e irrinunciabili dell’etica. 

L’Occidente, erede della civiltà antica, che dopo secoli di oblio rinacque forgiando una nuova civiltà europea e modelli di valore universale, ha fatto perno sul cristianesimo ed è approdato poi all’illuminismo. E sulle conquiste e sui lasciti di tutta quella storia pregressa va misurata la gravità di una decadenza, che infatti si è presentata sia come deterioramento della dottrina e della morale cristiana, sia come degenerazione dei sistemi politici economici e sociali di cui il razionalismo illuministico aveva vantato la paternità.

Ma non si è trattato di parabole parallele, separate tra loro. Anche un pensatore laico, come Huizinga vedeva alla base di questo decadimento anzitutto quell’oblio delle norme morali derivato dall’ “amoralismo filosofico”, frutto estremo dell’illuminismo che “con la negazione della morale cristiana indusse anche la negazione della morale borghese”. Era quanto, con esemplare chiarezza di pensiero e di parole, aveva avvertito e presagito Pio X nella Pascendi, prima che fosse lanciato al mondo l’annuncio nichilistico della morte di Dio. 

Poi due guerre di annientamento diedero forma tragica al tramonto dell’occidente che emerse con il volto definitivamente sfigurato dalle macerie di tali immani catastrofi. Tuttavia, anche allora non mancarono quelli ancora convinti che una civiltà tanto ricca di tradizione e di capacità creative, avrebbe potuto ritrovare, “oltre la linea” estrema del degrado, una nuova aurora.

Invece, consumate le illusioni tratte dal nuovo benessere, il decadimento morale, culturale, politico, economico e religioso ha subito in pochi decenni una tale accelerazione da far apparire il processo come ormai inarrestabile. 

Questa volta però ad oscurare un nuovo orizzonte non sono stati soltanto i persistenti fattori interni di decadenza culturale e morale, il male oscuro contenuto nella nuova civiltà della tecnica temuto e predetto da tempo, o le fatali ansie di “aggiornamento” del cattolicesimo romano. Sull’occidente europeo si è andata stendendo sempre più l’ombra e la mano di un altro occidente, transatlantico, munito di diversi codici morali, di disinibite visioni di potere, di illimitata fiducia nei vantaggi della distruzione “creativa” da applicare anzitutto, ma non solo, in via militare, nel mito della guerra quale fonte primaria di arricchimento. 

Questo diverso “Occidente”, all’Italia in particolare, sottomessa con la firma del Dettato di pace che tanto aveva sconfortato Benedetto Croce, aveva messo al collo il cappio che si stringe automaticamente ad ogni minimo tentativo di fuga. Ma siccome anche le corde possono essere tagliate e i trattati disattesi, come insegna la più moderna etica internazionale, occorreva una prova d’amore siglata col sangue.

Così, pochi anni dopo l’atto di sottomissione, un governo italiano, che oggi pare giganteggiare al confronto con i nani insediati democraticamente in tutti i palazzi del potere, consentì l’installazione di basi militari munite di adeguato corredo atomico a due passi da tutte le più vantate bellezze italiche che da quella vicinanza traggono indiscutibile vantaggio. Una volta diventati definitivamente “servi in casa nostra”, siccome secondo la migliore pedagogia penitenziaria i prigionieri vanno anche rieducati, ci sono state elargite a titolo gratuito anche le più innovative dottrine in tema di morale famigliare, di aborto, eutanasia, fino alle più recenti geniali declinazioni dell’omo e trans sessualismo genderista, ora propagandato anche dalla prestigiosa ditta Disney.

Non solo. Poiché da che mondo è mondo i figli degli schiavi appartengono al padrone, la nuova pedagogia “creativa” è stata portata nelle scuole di ogni ordine e grado, sotto l’alto patrocinio dell’Onu, dell’OMS, e dell’UE, cioè di tutti i falsari dell’occidente democratico a trazione transatlantica, impegnati a trafficare con i “diritti” e lo “stato di diritto”, tutte cose che mantengono, specie tra i più acculturati, una certa esoterica suggestione. 

Attraverso una egemonia politico economica, nuovi fattori di disfacimento culturale sono penetrati dunque nelle maglie larghe della crisi morale e culturale di un’Europa già in balia dei nuovi venti di dottrina e resa incapace di reagire anche grazie all’indottrinamento mediatico imposto da un padrone illuminato. Sulla base della distinzione aristotelica tra animali non parlanti e animali muniti di voce come gli schiavi, qualunque iniziativa culturale a beneficio della popolazione schiavile addomesticata è destinata ad avere successo. 

Tuttavia, l’occidente europeo è un suddito non solo da domare, ma anche da combattere come concorrente. Perché lo schiavo può diventare per bravura anche potente, come capitava a certi liberti di genio della Roma antica, e magari arrivare a ribellarsi mettendo in discussione il principio di autorità. In questi casi, gli ostacoli vanno neutralizzati con ogni mezzo, l’omicidio, il ricatto, il taglio di un gasdotto, una sommossa telecomandata e via discorrendo.

Il quadro appena tracciato non contiene di certo nulla di originale, ma deve essere tenuto a mente anzitutto quando si parla di declino dell’occidente, per ricordare che lo straordinario decadimento politico, intellettuale ed etico, che ha alimentato anche le degenerazioni della democrazia e del capitalismo, non è affatto tutta farina del sacco europeo.

La decadenza di questa civiltà va valutata alla luce di fattori legati di certo alla sua storia e alla sua cultura. Ma su questi si è andata innestando, grazie ad una intervenuta sudditanza politica, una degenerazione culturale di importazione.

Molto deve il declino della civiltà europea al contributo americano in termini di canoni morali, dottrine politiche, costumi, filosofia di vita, dottrina economica, etica sociale e di politica internazionale, mentre il militarismo più sfrenato è stato premiato con il nobel della pace. Però troppo spesso di questa matrice poco si è tenuto conto. Così le aberrazioni genderiste, ad esempio, hanno potuto insinuarsi senza tanto clamore, perché considerate spesso come un fenomeno marginale, quasi modaiolo, di cui si è ignorata la matrice politica e la forza dirompente, funzionale alla destabilizzazione socioculturale programmata dall’imperialismo globalizzante che ha bisogno di sudditi sradicati anche dalla legge naturale. Non per nulla nella caserma romana degli schiavi era inibita la formazione della famiglia.

In questa prospettiva è allora necessario e urgente ridefinire un concetto indebitamente distorto di Occidente che ha prodotto e produce conseguenze pratiche molto pericolose, anche sul piano della nostra falsa coscienza.

Infatti, attraverso una manipolazione terminologica non innocente, da troppo tempo questo termine viene usato arbitrariamente per indicare una unica realtà politico culturale, che abbraccia l’occidente europeo e insieme quello atlantico o statunitense che dir si voglia.

La conseguenza diretta è evidente: la potenza considerata egemone ritiene di dover parlare a nome di quanti vengono definiti geograficamente occidentali, ovvero di quelli che essa decide debbano essere considerati politicamente e “ideologicamente” occidentali. 

Ma l’assimilazione tra concetto geografico e concetto culturale e la sua trasposizione allo spazio transatlantico induce alla sovrapposizione e assimilazione di spazi non solo culturalmente estranei, ma persino antitetici e in conflitto di interessi, e ed è dunque doppiamente incongrua e arbitraria. 

Infatti, anzitutto dovrebbe essere evidente che una “civiltà americana” ha a che fare con quella europea quanto il prestigioso Gugghenheim veneziano in cemento armato ha a che fare con la vista sul Canal Grande. Mentre fare del concetto geografico un concetto politico è in questo caso come riconoscere a Cesare e Vercingetorige interessi comuni. 

Gli Stati uniti sono stati portatori di una nuova antropologia, e hanno sentito precocemente la propria autonomia e originalità tanto da guardare al Continente Europeo prima come ad un modello, poi come ad una terra di conquista, oggi come a un suddito di cui disporre a piacimento e all’occorrenza, da distruggere.

Con il pragmatismo ereditato dalla radice anglosassone, si sono guardati fin dall’inizio e durante tutta la loro storia, dall’osservare i principi che bene o male disciplinavano il diritto internazionale europeo, secondo la precoce inattaccabile diagnosi schmittiana.

Quel nuovo modo di considerare i rapporti internazionali, avallato dal crescente potere economico e militare, ha finito per contaminare tutto un sistema politico e diplomatico e stravolgere le più elementari regole della convivenza tra stati sovrani comunemente riconosciute. La deregulation alla base della nuova economia di mercato è stata trasferita sul piano dei rapporti internazionali dove tutto diventa plausibile se corrisponde a disegni strategici, peraltro spesso anche fallimentari, orientati a un espansionismo ossessivo perché creduto economicamente irrinunciabile. 

Anzi, proprio nel campo dei rapporti internazionali anche la contaminazione “culturale” è ormai tanto avanti, grazie alla poderosa macchina propagandistica appaltata agli agenti pubblicitari europei, che ogni operazione disonorevole come quella dei famigerati accordi di Minsk non smuove le assopite coscienze dei sudditi europei, come ogni intervento moralmente ripugnante è messo al riparo, per assuefazione, dal dissenso interno. 

Brutalità, cinismo, menzogna ed ipocrisia sono le regole di comportamento valide sia in pace che in guerra sotto la guida suprema dell’utile. Vale per tutto il criterio che presiede la guerra aerea condotta con la regola del bombardamento a tappeto sulle città, già sperimentato con successo in Europa e che comporta il massimo risultato col minimo sacrificio umano proprio. Metodo perfezionato definitivamente contro la Serbia, che non aveva dichiarato guerra a nessuno, ma era stata eletta a nemico di turno necessario per far girare la preziosa industria militare made in Usa. Vi furono sganciate eroicamente 300.000 bombe in poche settimane, e nessun soldato “occidentale” rimase sul campo. Ma era stata inaugurata una nuova serie di altre eroiche imprese, del cui orrore è meglio tacere. Ogni europeo dovrebbe finalmente chiedersi che cosa ha a che fare con tutto ciò l’Europa che da quasi un secolo si straccia le vesti per la barbarie nazista. 

Ora dovrebbe risultare evidente che la formula geografica serve a creare, oltre ad una falsa assimilazione culturale, anche la suggestione di una assimilazione politica data per scontata come ineludibile, al pari della monacazione di Gertrude. 

In conclusione, poiché l’occidente europeo è cosa storicamente e culturalmente e ideologicamente diversa dall’occidente americano, e i rapporti di forza determinano tra i diversi soggetti politici condizioni totalmente squilibrate, l’allargamento del concetto di civiltà Occidentale dai confini europei allo spazio transatlantico, comporta una assimilazione artificiosa, incongrua e soprattutto pericolosa per le sue conseguenze imbarazzanti quanto indesiderabili, e il problema stesso della crisi della civiltà europea ne viene totalmente viene sviato.

Questo uso estensivo di “occidente” avalla cioè una pretesa continuità culturale e politica che condiziona non solo modi di pensare e scelte irrazionali, ma soprattutto decisioni aberranti come l’attuale bellicismo ad ampio spettro parlamentare. 

È vero che un allargamento del concetto di civiltà Occidentale dai confini europei allo spazio transatlantico era avvenuto sia in virtù del credito acquistato dagli Stati Uniti con la leggendaria dichiarazione di indipendenza e poi grazie ai due interventi “liberatori” dell’Europa, sicché per molto tempo la distanza sempre crescente tra le due entità geopolitiche non è stata adeguatamente avvertita. Non per nulla lo stesso Spengler, parlando di occidente, faceva letteralmente riferimento a quello europeo e americano insieme, anche se la civiltà occidentale di cui si occupava misurandone la senescenza era essenzialmente quella centroeuropea. 

Perfino Guenon, nel 1927, a quasi dieci anni dalla fine della prima guerra mondiale, dava per scontato che Occidente fosse l’Europa e l’America insieme. Ma si trattava di una assimilazione superficiale quanto improvvida, laddove Schmitt aveva già misurato perfettamente anche la forza distruttiva della mentalità della politica e della cultura americana sull’indebolito spirito europeo oggi capace soltanto di reazioni scomposte e di votarsi all’autoannientamento. 

Insomma, quella assimilazione terminologica deve essere esorcizzata e respinta con forza perché più minacciosa che impropria. Perché, anche al di là delle fasulle vicinanze culturali, falsifica un insanabile conflitto di interessi le cui conseguenze inquietanti dovrebbero essere sotto gli occhi di tutti. Perché dà corpo ad una follia collettiva che ha messo fuori uso la ragione e la capacità di vedere e capire la realtà.

L’Europa come Pinocchio, in balia della propria stoltezza, è entrata nelle fauci di un Occidente più grande, ovvero della balena che minaccia ora di digerire il burattino da un momento all’altro, anche per interposta guerra provocata ad hoc. 

2 commenti su “Perché oggi non dovremmo dirci occidentali”

  1. L’Europa, in quest’occidente a guida americana, non è un soggetto geopolitico, ma bensì un oggetto; o, per dirla con gli autorevoli compilatori di Limes, essa è la perla dell’Impero americano.

    (Ah, e gli ultimi romantici, i quali non se ne avveggono – in buona fede, si spera – fanno proprio tenerezza)

  2. forse, chiarire l’equivoco della generalizzazione del concetto di civiltà occidentale, instillato ad hoc, sembrerebbe….
    può finalmente farci ritrovare il significato originario di civiltà Europea.
    e ridarci il senso di indipendenza culturale con cui ripartire…
    grazie

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