di Carla D’Agostino Ungaretti
Dopo la raggelante notizia del suicidio dei due grandi registi italiani Mario Monicelli e Carlo Lizzani, incapaci di accettare le inevitabili limitazioni imposte dall’età avanzata, un altro doppio suicidio mi ha colpito profondamente, trovandomi del tutto impreparata ad accettarlo come, del resto, tutti i suicidi[1].
Due anziani intellettuali francesi, noti e rispettati, i coniugi Bernard e Georgette Cazes entrambi di 86 anni, hanno deciso lucidamente e freddamente di morire insieme e hanno attuato il loro progetto in una stanza del famoso Hotel Lutetia di Parigi dove sono stati trovati mano nella mano, distesi l’uno accanto all’altra, con la testa avvolta in sacchetto di plastica. Non erano due poveri emarginati dalla società, due indigenti, due “sans papier” od “homeless”: come i due registi italiani erano personaggi noti e stimati. Lui, economista e filosofo, ancora lavorava nella redazione di riviste di alto livello; lei, insegnante di lettere nei licei, era autrice di libri di testo e attiva nel volontariato. Stavano insieme da quasi 70 anni, un primato che molti avrebbero invidiato loro. E’ vero che, nell’ormai lontano 1986, erano stati colpiti da una terribile disgrazia: la morte del loro secondogenito, appena ventunenne, in un incidente stradale, ma avevano ancora una forte ragione di vita: il figlio maggiore, a rappresentare la continuità e la prosecuzione esistenziale delle loro vite che, proprio per la presenza di lui, non dovevano avvertire come inutili.
E’ stato un suicidio freddo e ideologico, come quello di Monicelli e Lizzani, come quello di Roberta Tatafiore, la più intelligente rappresentante del femminismo italiano del ‘900 che, qualche anno fa, decise anch’essa di morire nella solitudine di una stanza d’albergo per attuare un gesto filosofico di pervicace affermazione del proprio IO. Altrettanto hanno fatto i coniugi Cazes, il cui unico rimpianto è stato quello di dover ricorrere a una morte per asfissia, violenta e brutale come quella di Monicelli e Lizzani, chiedendo però al figlio di continuare la loro battaglia in favore del “suicidio assistito“: “Perché impedire di morire a una persona che non ha più responsabilità, in regola col fisco, che ha lavorato tutti gli anni che doveva e ha esercitato attività di volontariato e servizi sociali, con quale diritto costringerla a pratiche crudeli, quando non vuole altro che lasciare serenamente la vita?” .
Questo è il punctum dolens del discorso: i coniugi Cazes hanno fatto una scelta di totale individualismo, in totale solitudine esistenziale, paghi soltanto di stare l’uno vicino all’altra. Potevano farlo e l’hanno fatto, perché allora invocare l’aiuto della società o dello Stato nell’attuare un progetto esclusivamente personale e privato? Perché rammaricarsi di non poter coinvolgere altre persone? Quando si fanno scelte personali così drastiche ed esistenziali, che bisogno si ha dell’aiuto altrui? Se nessuno, si sostiene, ha il diritto di sindacare o giudicare la loro scelta, nessuno del pari ha il dovere civico o morale di aiutarli nell’attuazione della loro individualistica volontà. Il metodo scelto per suicidarsi è stato necessariamente cruento e violento? Loro lo hanno voluto e allora non è giusto che siano loro e soltanto loro, in totale solitudine, ad assumersi la responsabilità della scelta e della conseguente attuazione?
E’ ovvio che chi, come me, ha della vita umana una visione cristiana a 360 gradi, non può facilmente capire e, tanto meno approvare o giustificare un simile gesto, ma, a prescindere dalle modalità con le quali essi hanno agito, ciò che mi turba profondamente è il perché di questo assurdo cupio dissolvi. I coniugi Cazes non erano malati (almeno a quanto se ne sapeva) non erano poveri, presumibilmente erano amati dal figlio superstite; perché allora hanno voluto morire se non per lanciare al mondo l’affermazione del proprio EGO e della propria volontà finalizzate a ottenere l’ammirazione, da parte del resto del mondo, per la loro forza di volontà inattaccabile da qualunque tentativo di dissuasione che provenisse dall’amore, dall’amicizia di coloro che avevano intorno?
Se i coniugi Cazes avessero chiesto a me, cattolica “bambina” di procurare loro un farmaco o qualunque altro strumento che li avesse aiutati a morire, la mia risposta non avrebbe potuto essere altro che: “Non contate su di me“, nella persuasione, però, che qualunque altra mia argomentazione contraria non avrebbe trovato udienza e allora mi sarei fatta la fama di crudele e insensibile al desiderio di morte serena di due vecchi. Così va il mondo oggi e noi cattolici dobbiamo prepararci al peggio. L’eutanasia e il suicidio assistito si vanno sempre più diffondendo nel nord Europa, sia legalmente che illegalmente e il battage mediatico che circonda questo triste fenomeno fa temere l’ “effetto Werther“, ossia il verificarsi di una spirale di suicidi mimici, come si verificò all’indomani della pubblicazione del romanzo di Goethe due secoli fa. Ma allora stava nascendo il Romanticismo che vedeva il vertice dell’amore nella morte: ora non si muore più volontariamente per amore, ma per solitudine e sfiducia in chi ci è vicino, o per superbia come, io credo, per i personaggi di cui ho parlato.
.
3 commenti su “Perché quell’assurdo desiderio di morte? – di Carla D’Agostino Ungaretti”
Perché, cara signora? perché il nocciolo di tutta la catastrofe contemporanea è il rovesciamento dell’autocomprensione umana: dalla gratitudine (fondata sulla realtà) ai genitori, a Dio, alle persone amiche, a chi fa qualcosa di grande… al rancore insostenibile (fondato sul delirio di autocontemplazione) verso tutto e tutti, perché le proprie voglie non sono esaudite. E le voglie umane non possono in nessun caso trovare soddisfazione, perché l’uomo è capax Dei, quindi può essere appagato solo dal Bene in Sè, e mai da alcun bene.
E si pretende che “lo Stato” fornisca il servizio di uccisione, perché la propria violenza contro la Realtà appaia un “adulto” giudizio contro la Realtà… meritevole di essere distrutta
Sì, la superbia… alla radice del peccato originale.
Non si prova compassione di fronte a questi due coniugi uniti nell’amore e nella morte, ma solo tristezza e dolore. Settant’anni insieme senza andare a fondo del senso originario della loro unione, senza vedere in ciò il progetto buono di Dio, la partecipazione del Suo Amore all’amore di un uomo e di una donna che alla fine della vita travalica l’umano per trasformarsi riunendosi alla sua Fonte e in essa divenendo sublime.