Perdono fraterno: un gesto difficile ma necessario – di Carla D’Agostino Ungaretti

“Padre, perdonali

 perché non sanno quello che fanno” (Lc  23, 34)

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Rimetti a noi i nostri debiti

come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt  6, 12).

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di Carla D’Agostino Ungaretti

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zzXttznIo – che, oltre a essere una cattolica “bambina”,  sono anche la più bruttina e spelacchiata delle pecorelle che si sforzano di seguire Cristo anche quando il cammino è impervio – penso che il perdono sia uno dei gesti più difficili che gli esseri umani possano compiere quando hanno ricevuto una grave offesa, ma lo ritengo anche uno dei più necessari, non solo alla  salvezza della loro anima in senso cristiano, ma anche alla loro salute fisica e mentale. Le cronache sono piene di gesti tragici compiuti ai danni di uomini e donne che, in quanto tali, non sono assolutamente inferiori al’offensore in termini di dignità umana, ma vengono perpetrati per odio, invidia, gelosia ed egoismo. A volte questi gesti si concretizzano nell’omicidio e spesso derivano da passioni incontrollate che non tengono conto dei diritti e della vulnerabilità altrui, come nei casi di adulterio, sempre più frequenti in questo nostro mondo che ha perso tanti freni inibitori. Quei tragici comportamenti, frutto dell’odio che non è riuscito a trasformarsi in perdono, hanno distrutto intere famiglie, oltre alla vita personale di chi non è stato capace di rientrare in se stesso elaborando e sublimando l’offesa che gli era stata arrecata.

Purtroppo i modi e le occasioni di far del male al prossimo, sia a livello individuale che collettivo, sono innumerevoli e acquistano una diversa rilevanza e gravità a seconda della sensibilità dell’offeso o degli offesi ma, di qualunque genere sia l’ingiuria, difficilmente si riesce a passarci sopra con animo sereno e allora si può innescare una spirale di odi e di vendette che, nei secoli passati, potevano coinvolgere intere comunità. Mi viene in mente una poesia di Giosuè Carducci, “Faida di comune”, nella quale il poeta descrive, nelle forme di una ballata popolare, la sanguinosa vendetta consumata in epoca medioevale, dai pisani contro i lucchesi. Il messo lucchese, nel corso di un’ambasceria di pace, si era permesso di fare apprezzamenti irriguardosi nei confronti delle donne pisane,  offendendo a morte i loro uomini (“A i pugnali sotto i panni / Miser mano quei di Pisa”) e attirando sui suoi concittadini  la terribile vendetta di cui parlavo prima. Sarebbe sbagliato pensare che oggi queste cose non accadono più: le cronache sono piene di rivalità tribali, di vendette consumate, frutto di puro odio ideologico, di ritorsioni contro chi è ritenuto artefice della propria sfortuna e le forme non sono troppo diverse da quella descritta dal Carducci.

Perché si dovrebbe perdonare? Molti pensano che, se si vendicano, poi si sentiranno meglio, ma la giustizia fai – da – te delude sempre, perché inocula sentimenti e suggerisce comportamenti che esasperano l’animo della persona fino al punto che essa non riesce più a trarre soddisfazione dalla vita. Le testimonianze letterarie sono molte. I pisani si vendicarono sanguinosamente dei lucchesi, ma poi si saranno sentiti meglio? Anche se Carducci non lo dice, le cronache dei Comuni italiani nel Medioevo sono piene di rivalità e scaramucce provocate dal carattere litigioso, ombroso e suscettibile dei nostri antichi connazionali. Nel romanzo “Il conte di Montecristo“, Alexandre Dumas offre un’acuta descrizione di come l’odio accumulato e alimentato nel tempo possa diventare una ragione di vita. Edmond Dantès, vittima di una terribile ingiustizia, riesce a realizzare la sua vendetta, ma con quali risultati? Alla fine deve riconoscere che punire coloro che gli avevano fatto del male non solo non gli ha restituito la pace, ma ha coinvolto anche altri innocenti. Nel Rigoletto di Giuseppe Verdi, il povero buffone – la cui amatissima figlia è stata brutalmente sedotta dal libertino Duca di Mantova con l’ipocrita complicità dei cortigiani – giura di vendicare l’offesa subita dalla povera ragazza, nonostante quest’ultima lo implori di perdonare,  ma la sua vendetta si ritorcerà tragicamente contro la sua stessa figlia innocente. Sono solo i primi esempi che mi sono venuti in mente, ma sono innumerevoli i casi in letteratura che si potrebbero citare per dimostrare l’azione devastatrice che l’odio e la vendetta esercitano sull’umanità.

       Perdonare non significa rinunciare alla giustizia? No, perdono e giustizia sono categorie differenti. Il primo è essenzialmente interiore, la seconda è esteriore e interpersonale. Il perdono riguarda i sentimenti, le emozioni e le valutazioni interiori; la giustizia riguarda l’aspetto giuridico e istituzionale di cui la società umana, peraltro, deve necessariamente tenere conto se non vuole precipitare nell’anarchia e nell’arbitrio. Per questo si può ottenere giustizia senza perdono e perdono senza giustizia.

        Nietzsche direbbe che il perdono è  “debolezza malata”, rinuncia alla giustizia, giustificazione del male che penalizzerebbe chi si sforza di essere coerente e giusto[1]. In realtà chi è riuscito a perdonare davvero,  e non solo a parole, ha potuto sperimentare la potenza a livello individuale, sociale, politico del perdono. Si tratta di un processo lento e faticoso, che richiede la capacità di esaminare i propri sentimenti, di riconoscere l’esistenza di realtà psicologiche diverse dalla propria, in cui non tutto è bianco o nero e la vita quotidiana ordinaria, che è un tremendo guazzabuglio di soddisfazioni, delusioni, successi, fallimenti, espone tutti noi alla possibilità di compiere o subire il male.

       Nessuno nega che subire un’ingiustizia sia profondamente lacerante ma se si rifiuta a priori la possibilità di perdonare  ci si tormenta in maniera molto più crudele fino a distruggersi,  come hanno mostrato la letteratura di ogni tempo e l’esperienza di ciascuno: quanti sono dilaniati dai sensi di colpa per ciò che hanno compiuto? Quanti  si tormentano da sé per il male ricevuto da altri, lo rievocano continuamente avvelenandosi sempre più? Ne ho sentiti di questi casi! Infatti, non occorre arrivare a uccidere o a rubare per far del male al prossimo: chi non ha mai sentito parlare, soprattutto nel mondo del lavoro, di ingiustizie subite da chi lavorava onestamente, di soprusi più o meno velati, di mancato riconoscimento dei propri meriti, di qualcuno che ha “fatto le scarpe”  a qualche collega più debole o più sprovveduto?

         Nel suo significato etimologico il perdono rivela l’atteggiamento di generosità e di gratuità di chi, superato ogni desiderio di vendetta verso chi lo ha offeso, offre la possibilità di un nuovo rapporto. L’Antico Testamento è ben consapevole della rigenerazione, della possibilità di vita nuova  offerte gratuitamente e generosamente da Dio all’uomo che invoca il Suo perdono. La remissione divina dei peccati commessi dal re di Giuda, Ezechia, è talmente efficace che questi, guarito da una grave malattia, canta: “Tu hai preservato la mia vita / dalla fossa della distruzione, / perché ti sei gettato dietro le spalle / tutti i miei peccati” (Is 38, 17). E’ un’espressione forte che indica come Dio, perdonando, addirittura non vede più il peccato che, pertanto, non esiste più.

          Che il perdono sia una realtà complessa e delicata, non riducibile a una codificazione giuridico sociale, traspare anche dall’Antico Testamento ed è rivelato da un curioso dato statistico: nell’ebraico biblico, lingua composta da soli 5750 vocaboli, sono ben otto i verbi a disposizione per coprire semanticamente un’esperienza tanto carica di sfumature diverse[2]. Il Salmo 51 (Miserere) usa tre verbi: lavare, purificare, cancellare per esprimere la misericordia di Dio che perdona l’infedeltà dell’uomo generando un cambiamento, una trasformazione radicale che cambia il cuore dell’uomo stesso. “Crea in me, o Dio, un cuore puro / rinnova in me uno spirito saldo” (51, 12) , implora il salmista ben conoscendo il potere rigeneratore del perdono e ben sapendo che solo purificando se stesso potrà a sua volta perdonare.

         Questa azione trasformante e rigeneratrice è espressa con ancora maggiore forza da Gesù Cristo che, con l’annuncio del Regno, manifesta il senso pieno della bontà e dell’amore del Padre che cambia il cuore dell’uomo, strappandolo alla sua schiavitù, se l’uomo riconosce di essere peccatore bisognoso di perdono e accetta la Sua Grazia. La parabola “del Padre Misericordioso” (Lc 15, 11 ss) ci rivela quanto Dio sia felice di perdonare: nel Suo amore senza riserve o condizioni, il Padre accoglie il figlio e, al suo ritorno, lo stringe tra le sue braccia senza chiedergli nulla. Il figlio maggiore, invece, pur comportandosi bene, covava dentro di sé un certo risentimento per il fratello ribelle o forse anche un pizzico di invidia per non essere stato capace di fare come lui. E’ un atteggiamento psicologico che si verifica spesso in molti perbenisti dal comportamento ineccepibile ma privo di carità.

          Molte pagine del Nuovo Testamento hanno generato nei secoli uno stupore che non potrà mai estinguersi: quando mai l’umanità è stata capace di concepire l’assoluta novità di questa manifestazione di amore, di gratuità, di misericordia capace di rigenerare il mondo e di riconciliarlo a Dio? Non solo Gesù annuncia questo perdono, ma Egli per primo lo mette in pratica attraverso le opere e soprattutto mediante la Croce offrendosi come il sacrificale “Agnello di Dio” che porta e condivide il peccato del mondo e l’uomo che accoglie il Cristo Crocifisso è perdonato, riconciliato e reso giusto dalla Redenzione realizzata sulla Croce.

         Lo Spirito Santo e l’esempio di Gesù ci fanno riflettere sulla necessità del perdono anche tra fratelli. Già l’Antico Testamento lo aveva intuito: “Perdona l’offesa al tuo prossimo; e allora per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati. Se qualcuno conserva la collera verso un altro uomo, come oserà chiedere la guarigione al Signore?” (Sir 28, 2- 3). S. Paolo è altrettanto esplicito: “Siate benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato voi in Cristo” (Ef  4, 32). Dio è il modello di misericordia per coloro che si riconoscono Suoi figli (Mt  5, 43). Basta aprire il Nuovo Testamento per trovare continuamente sottolineata la necessità del perdono fraterno “fino a settanta volte sette” (Mt 18, 21 – 22) perché Dio ci ha amati e perdonati per primo con il sacrificio di Cristo e la nostra capacità di realizzare davvero il perdono fraterno predeterminerà il giudizio finale.

          Ma quanto è difficile perdonare!  E’ talmente difficile che la stessa letteratura psicologica e psicanalitica ha trascurato il tema del perdono. Lo stesso Freud non ne ha mai parlato ed è facile capire perché: parlare di perdono avrebbe significato per lui superare la barriera antropologica materialistica tipica del suo pensiero, avventurandosi su terreni sconosciuti, e altrettanto è avvenuto,  per tutti gli altri studiosi, relativamente ad altre tematiche come l’altruismo, la gratitudine, la speranza anch’esse connesse con il perdono.

          Eppure il perdono ha un valore importante nella vita umana e nella conoscenza di sé perché è più facile perdonare se si è fatta l’esperienza, che spesso lascia turbati, dell’essere stati perdonati, come il Vangelo ci dimostra quasi in ogni sua pagina. Il perdono ha effetti talmente salutari sul benessere psicofisico di chi perdona che dovrebbe essere ritenuto auspicabile anche nei casi delle offese più gravi, come l’omicidio e l’abuso sessuale.

        Tuttavia, in quanto esseri umani siamo tutti, per così dire, esposti a cadere nell’odio. Come si può perdonare chi fa del male  a una persona che amiamo, a un coniuge, a un figlio? Ancora mi risuona nelle orecchie il grido della vedova di uno dei poliziotti preposti alla scorta di un personaggio importante, ucciso insieme a lui in una strage di mafia:  “Io vi perdono, ma voi inginocchiatevi!” . Ammiro molto quella signora: io, cattolica “bambina”, non ci sarei riuscita tanto facilmente. Avrei avuto bisogno di un lungo periodo di purificazione interiore, dell’assistenza costante del mio direttore spirituale, di un esame di coscienza personale quotidiano, minuzioso e inesorabile, finalizzato a mettere anche me di fronte ai miei innumerevoli peccati e manchevolezze  e, infine, dell’aiuto dello Spirito Santo.

         Perdonare, però, non significa dimenticare. Perdono e oblio non sono sinonimi, perché il primo è un atto volontario, il secondo è involontario. E in effetti, come si può cancellare la memoria di ciò che è accaduto e che, bene o male, ci ha ferito? Io credo che chi è sinceramente intenzionato a perdonare, riconoscendo l’obiettivo effetto benefico e salvifico del perdono, può tentare di depurare il ricordo dell’evento offensivo da qualunque traccia di emotività personale; se si riesce a considerare l’evento come una disavventura della vita, come un incidente che è capitato a noi come poteva capitare a chiunque altro, oppure  se si cerca di capire perché quel fatto sia avvenuto, forse si è sulla strada giusta.

        Tutti sanno che l’adulterio ha effetti devastanti sul matrimonio. Qualche  anno fa ebbi notizia di una signora che, scoperto il tradimento del marito, capì che lui, giunto alla soglia dei sessant’anni e sentendo fuggire la gioventù, aveva  voluto dimostrare a sé stesso di essere ancora giovane e “tombeur de femmes“. La moglie, molto più saggia di lui, comprese e perdonò. Ma ho sentito anche un altro caso in cui il marito adultero, ottenuto il divorzio e risposatosi con l’amante, ad un tratto cominciò a sentire un certo senso di colpa e di rimorso nei confronti della moglie innocente e abbandonata tanto che, per tacitarsi la coscienza, cercò di riallacciare con lei rapporti quasi “da parenti”, proponendole di diventare la madrina di Battesimo della bimba nata dal suo secondo matrimonio. La ex moglie, che oltre tutto non aveva avuto figli, era riuscita a perdonare e a condurre una vita abbastanza serena nell’accettazione della propria solitudine. Tuttavia, prescindendo dall’aspetto grottesco di quella proposta – che denotava, non il pentimento sincero, ma il maldestro tentativo dell’uomo di passare un colpo di spugna sul suo riprovevole comportamento – non si sentì di accettare quel tipo di “riconciliazione” cominciando a frequentare la nuova famiglia del suo ex marito come se fosse stata una “cara zia” dell’innocente creatura nata dall’adulterio, diventandone addirittura la madrina. “Perdonare l’inganno, sì”  mi disse “ma  mettermi nella condizione di subire anche la beffa, no”. E così pregò l’ex marito di scordarsi di lei e di non cercarla più. Mi spiegò che ormai, con l’aiuto di Dio, era riuscita a non provare  più alcun risentimento nei confronti di quell’uomo e della donna che glielo aveva portato via, ma temeva che riallacciare rapporti “da parenti”, come se nulla fosse successo, avrebbe riaperto una ferita ormai cicatrizzata. Fui d’accordo con lei: non credo infatti che Nostro Signore ci chiedesse anche questo, quando ci esortò a perdonare fino a settanta volte sette.  Infatti se è vero che l’odio e il risentimento sono peccati gravi, allora dobbiamo”fuggire le occasioni prossime ad essi“, favorendo la loro rinascita, come promettiamo a Dio in Confessione nel nostro Atto di Dolore.

        Se Gesù ci ha chiesto di perdonare fino a settanta volte sette, vuol dire che possiamo farcela perché Dio non ci chiede mai nulla che sia superiore alle nostre forze e non manda Croci troppo pesanti da portare. Naturalmente, però, bisogna essere disponibili a porci in un’ottica cristiana perché, come disse Lui stesso, senza il Suo aiuto non possiamo fare nulla. Dobbiamo accettare i nostri limiti e abbandonarci alla Sua volontà. Se Dio ha permesso che ci venisse inferta una grave ferita, sia fisica che morale, dobbiamo pensare che tutto ciò rientra nel progetto divino per la nostra santificazione.

         Allora, sia sempre fatta la Sua volontà!

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[1] F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, Adelphi, Milano 1984.

[2] Cfr. Gianfranco Ravasi. Grammatica del perdono.  EDB

4 commenti su “Perdono fraterno: un gesto difficile ma necessario – di Carla D’Agostino Ungaretti”

  1. Cara pecorella bruttina e spelacchiata (mi ha fatto molto sorridere!!!), la sua analisi
    come sempre ricca ed esauriente,chiarisce molto bene l’iter del perdono e anche
    dell’oblio.
    Bisogna meditare con il cuore il suo scritto, e farne tesoro.
    Grazie!!

  2. Grazie, cara Carla d’ Agostino, per questo scritto in cui ho trovato risposta a molti problemi che mi affliggono in questi giorni. E’ proprio vero che chi scrive ha una grande missione e quando la espleta al meglio, come lei, si fa tramite della parola di Dio. Le auguro Buona Pasqua.

  3. Marina Alberghini

    Non sono d’accordo.La frase di Cristo si rivolge a chi non è in grado di sapere cosa sia il male perché è pazzo o ha altri disturbi, non a chi lo fa coscientemente per fare del male.Difatti specie in Marco Cristo ha forti invettive contro i farisei, i pedofili, i mercanti del Tempio ,i sepolcri imbiancati e non li perdona affatto.Ammette il perdono se il peccatore si pente , difatti mica perdona i due ladroni ma quello che si è pentito!ma perdonare sempre e chiunque non fa che incoraggiare il crimine e fare un bel regalo ai prepotenti e al Potere.Cristo non era uno scioccone buonista ma un uomo forte che reagiva alle ingiustizie e sapeva benissimo cosa è il Male e lo odiava.

  4. LUDOVICO SANTORO

    Non voglio assolutamente affermare che ho ragione, ma lasciatemi almeno dire che non sono d’accordo. Ormai siamo tutti preda del buonismo più squallido, buonismo che -il più delle volte- premia i malvagi e castiga i buoni, Non sono un ragazzino, mi mancano pochi mesi per gli ottanta, ne ho visto di cotte e di crude, anche io ho peccato e non so se sono stato perdonato o meno, ma non mi interessa. Quando ho peccato -e me ne sono reso conto- ho chiesto per primo perdono a Dio e poi a chi, eventualmente, avevo offeso senza aspettare che qualcuno mi venisse ad assolvere o mi dicesse come dovevo comportarmi. Ma questo, oggi, non sta più bene. Se non si perdona si assumono i caratteri del “feroce” mentre gli altri si trasformano in moltitudini di pecorelle belanti.
    No. Non ci riesco. Il perdono è un gesto ed un atto che va estremamente valutato e ponderato prima di concederlo altrimenti anche il perdono si trasforma in una
    iniziativa all’italiana, ovvero: parole, parole, parole!.

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