PIETRO PRINI E LA NUOVA ONTOLOGIA – di Lino Di Stefano

di Lino Di Stefano

 

Una domanda a bruciapelo: “Ma dove sta scritto che per cominciare a filosofare occorre, necessariamente, iniziare dal problema gnoseologico o della conoscenza?” Eppure, da studente medio, da studente universitario e da docente di filosofia nei licei, l’approccio alla filosofia avveniva in linea di massima, partendo dalla conoscenza. E,a prima vista, quell’’incipit’ non sembrava e non sembra sbagliato per il semplice motivo che il rapporto soggetto – oggetto appariva e appare quasi prioritario, essendo esso anche un problema psicologico.

Ma torniamo ‘in medias res’ e vale a dire a Pietro Prini e al suo sforzo meditativo maggiore racchiuso nel noto volume ‘Verso una nuova ontologia’ (Roma, 1957). Non senza fare qualche cenno, altresì, sugli altri lavori del pensatore di Belgirate. Lavori quali ‘Itinerari del platonismo perenne’ (Torino 1950), ‘Marcel e la teoria dell’inverificabile’ (Roma, 1950, tradd. Francese, Parigi, 1953 e spagnola, Barcellona, 1961), ‘Esistenzialismo’ (Roma, 1952, trad. spagnola, Barcellona, 1958), ‘Discorso e situazione’ (Roma , 1961) e, infine, ‘Umanesimo programmatico’ (Roma, 1965) e ‘Cristianesimo e filosofia’ (Perugia, 1964), per menzionare i più significativi.

priniDopo aver posto l’accento sulla questione ‘Che cosa significa conoscere?’ e dopo aver evidenziato che, generalmente, nel linguaggio filosofico l’attività conoscitiva si riduce al rapporto tra conoscente e conosciuto, in definitiva, al nesso soggetto – oggetto, il filosofo piemontese chiarisce, altresì, che la conoscenza è stata, tradizionalmente, classificata in ‘immediata’ e ‘mediata’.

A questo punto, lo studioso opera un ampio ‘excursus’ partendo dalla crisi della conoscenza nel mondo greco per arrivare fino alle posizioni gnoseologiche dei nostri giorni. Dalla conoscenza per contatto o partecipazione – propria della mentalità primitiva – ad Omero e ai primi fisiologi, quali Eraclito, Empedocle ed altri, per i quali la conoscenza consiste, osserva Prini, “nel farsi simile alla cosa conosciuta” fino alla concezione secondo la quale l’udito e, in particolare, la vista diventano predominanti per la cognizione degli oggetti.

Insomma, il pensiero greco si muove lungo due direttrici: il tentativo di superare i confini della percezione sensoriale e la propensione a ridurre la percezione stessa in esperienza. Con Parmenide, lo scenario cambia in quanto, da questo momento, la percezione si converte in ‘noeìn’, cioè il pensiero solo se si pensi al famoso passo parmenideo secondo cui “tò gar autò noeìn estìn te kaì eìnai” (la stessa cosa sono il pensiero e l’essere).

Argomenta, al riguardo, Pietro Prini: “La verità della conoscenza (…) è l’essere. Il conoscere o noeìn è l’atto nel quale l’essere si fa manifesto, è il luogo del manifestarsi dell’essere”. Ora, se è vero che, ‘sub specie gnoseologiae’ la tesi del “venerando e terribile”, come lo chiama Platone, è coerente, è altrettanto certo, secondo Prini, che l’essere viene ridotto, dal capo della scuola eleatica, a mera unità indefinita che si confonde con l’’àpeiron’ di Anassimandro. Da qui, sempre per il nostro studioso, l’errore di Parmenide e dei suoi seguaci, di aver sostituito l’’on’ con l’en’ e vale a dire l’essere, ciò che è, con l’uno. Naturalmente, le sensazioni hanno i loro limiti sebbene aprano la strada a ciò che non si vede e qui grandi restano i meriti di Anassagora il quale con il suo ‘Nous’ schiude nuovi scenari con la riserva, però, che il ‘Nous’, pur essendo capace di pensare, non è una Persona.

Tutto questo, ci conduce a Edmund Husserl per il quale al centro dell’indagine non c’è la conoscenza, bensì la ‘coscienza’; quella coscienza che, poi, si chiamerà ‘coscienza pura’ per effetto della sospensione del giudizio o ‘epoché’ e della messa tra parentesi del mondo o ‘Einklammerung’. Insomma, messo da parte ogni atteggiamento naturale, ogni coscienza, parole di Husserl, “è coscienza di qualcosa” colla psicologia nelle nuove vesti non solo di ‘psicologia senz’anima’ , ma anche, è sempre Husserl che parla, “psicologia senza coscienza”.

Da qui, la testuale conclusione husserliana secondo la quale”la psicologia è, tanto quanto la scienza della natura in senso stretto e abituale, senz’altro scienza dell’esperienza esterna”. Ma da qui, inoltre, la perentoria e testuale considerazione del grande filosofo tedesco, secondo cui ogni “scienza rigorosa ha bisogno di concetti rigorosi richiesti attraverso la particolarità del suo ambito: concetti che esprimono proprio questa particolarità”. Solo in tale maniera – cioè mediante la riduzione fenomenologica o trascendentale – la coscienza viene riportata alla sua dimensione originaria e, in definitiva “verso le cose stesse!”. Questo il senso più genuino dell’imperativo husserliano: “Zu den Sachen selbst!” ed ovverosia verso le cose stesse.

Paolo Filiasi Càrcano, autorevole esponente del positivismo, concepito, in senso tecnico – metodologico afferma che la scienza deve basarsi su un’esperienza raggiungibile da tutti ponendo l’accento sulla natura semantica del pensiero. Nel significato che senza quel complesso di segni e di significati – costituito dalla lingua e dalle parole – non è possibile il pensiero o coscienza che dir si voglia.

In altri termini, la gnoseologia viene, da tali correnti di pensiero, risolta in analisi del linguaggio e, di conseguenza, ridotta – con i suoi fenomeni e con i suoi fatti – a protocolli e vale a dire a formule elementari ed atomiche. Questa, in sostanza, la visione del cosiddetto ‘Wiener Kreis’ e di altre scuole di pensiero similari con studiosi quali Carnap, Neurath, Schlick, Reichenbach, mentre Ludwig Wittgenstein occupa una posizione a parte, ma sempre in linea con i dettami teoretici dei menzionati indirizzi.

E qui, entra in gioco l’esistenzialismo, segnatamente, quello heideggeriano che sposta l’indagine sull’essere e lo stesso domandante, fondando così una “fenomenologia dell’esperienza metafisica” come dice Prini.

Heidegger si chiede spesso: “che cos’è l’essere?”, oppure “Wie steht es um das sein?” (Che ne è dell’essere?) non senza accusare il pensiero occidentale di presentarsi come ‘oblio dell’essere’. Essere che per il pensatore di Messkirch deve essere riportato al suo genuino significato di verità. Intesa quest’ultima come ‘alétheia’, cioè disvelamento e non–nascondimento. Disvelamento che, com’è noto, si rivela attraverso il linguaggio visto che il linguaggio è la casa dell’essere e i poeti sono i pastori dell’essere.

Dopo aver riconosciuti i dovuti meriti della lezione del neo–idealismo italiano sviluppatosi, osserva il nostro studioso, “con tale impegno critico e tale operosità culturale da riuscire a condurre, esso stesso, al di là di se medesimo, da porre esso stesso i problemi del proprio ‘superamento’”, Pietro Prini opta per una forma di ‘ontologia semantica’ propria di un sapere oggettivo comportante l’invertibilità della domanda e della risposta. In altre parole, è sempre il nostro filosofo che parla, “colui che risponde, per rispondere adeguatamente, può e deve ‘mettersi’ al posto di colui che domanda, così come questo, per controllare la giustezza della risposta, può e deve mettersi al posto di colui che risponde”. Naturalmente, chi parla è giocoforza che usi il linguaggio del suo interlocutore e che la domanda miri all’’essere’ stesso dell’interlocutore in vista di una ‘testimonianza’.

In conclusione, l’ontologia , per Prini, non è altro che la lotta contro il velamento primordiale dell’essere e, in ultima analisi, la scienza delle origini, considerato, altresì, che tale disciplina non si spinge oltre le essenze. Da qui, ancora per Prini, l’importanza ontologica di alcune esperienze come la poesia, la morale, la mistica e la religione.

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