Fermate il mondo, voglio scendere. Non ne posso più della cultura di morte che pervade ogni angolo d’Occidente. Aborto, eutanasia, disprezzo per il corpo umano defunto, compravendita di organi umani. La puzza di obitorio è dappertutto, ma la chiamano civiltà. Nell’anno di disgrazia 2020 il governo giallo fucsia non si è fatto mancare nulla contro il nostro popolo. É passata pressoché inosservata la norma che rende accessibile a tutte le donne – minorenni comprese, nei fatti – la cosiddetta pillola abortiva, il cui nome tecnico è RU-486. L’aborto farmacologico diventa normalità, l’ultimo sportello della finestra di Overton è spalancato. L’interruzione di gravidanza si produce nel chiuso di una stanza domestica, privatizzata come tutto il resto in questo pazzo Titanic in corsa gaia verso l’abisso tra lustrini e cotillons.  L’aborto è una pagina importante dell’agenda biopolitica dei padroni del mondo, ben mascherata dietro le solite parole d’ordine: diritti della donna, pianificazione familiare, diritti sessuali e riproduttivi, emancipazione femminile. Slogan attraenti, seduttivi ad uso di popoli narcotizzati, intrappolati nel nichilismo. 

Personalmente, non sono un attivista anti aborto. Dio mi perdonerà, è il suo mestiere, come scrisse Heinrich Heine, se penso in alcune circostanze è il minore dei mali. Sono tuttavia fermamente convinto che il comandamento “non ammazzare” valga più che mai, davanti a vite spezzate prima di nascere senza altra ragione che i comodi di chi le sopprime.  L’aborto non può essere un diritto, semmai l’ultima ratio in situazioni circoscritte e gravi. Tantomeno lo si può rubricare come semplice asportazione di cellule dal corpo della gestante (la non-madre), né si può sopprimere la voce del padre, cui appartiene il 50 per cento del patrimonio genetico del nascituro, partecipe del concepimento, titolare di diritti cui corrispondono profondi doveri. Di più: non penso affatto che l’opposizione al libero aborto sia una questione confessionale, come se difendere la vita sia privilegio dei soli credenti in un Dio personale. Infine, sono assolutamente convinto che la comunità costituita abbia il diritto di dire la propria su un tema tanto decisivo, in quanto la nascita di nuovi membri, ovvero la riproduzione sociale, è il primo dei doveri. Ciò che cresce nell’organismo femminile non sono cellule fastidiose da eliminare a piacimento, così come il corpo e la vita dei malati e degli anziani non è una somma negativa di cellule marcite, come sostiene l’incultura dello scarto.  

L’aborto, comunque la si pensi, non è un fatto individuale, intimo, delle donne che vi ricorrono. Per questo iniziative private e sistema pubblico devono sostenere la vita che nasce, le madri, le famiglie, i padri. É un’obbligazione naturale prima ancora che un impegno morale e civile. In quest’ottica, non può essere posto a carico dello Stato come servizio gratuito fornito dalla sanità pubblica, che lo derubrica a IVG, l’acronimo burocratico, finto neutrale, di Interruzione Volontaria di Gravidanza. Ancor meno può essere liquidato come scelta privata individuale di cui la comunità si disinteressa. Discorsi complessi, del tutto incomprensibili al relativismo e al soggettivismo contemporaneo, ossia all’incultura di morte dominante. Neppure nell’anno del virus l’efficiente macchina degli aborti “statali” si è fermata. Se avete bisogno di un intervento di chirurgia generale, persino, in qualche caso, di terapie salvavita, potere attendere, ma se volete liberarvi delle cellule vive sgradite, le quali, ricordiamolo, non sono arrivate lì da sole o per caso, le porte del sistema sanitario sono aperte. 

La contraccezione farmacologica, la mitica “pillola”, aveva già determinato una rivoluzione antropologica di cui abbiamo tardato a capire la portata: per la prima volta nella storia umana, l’uomo era in grado di separare la sessualità dalla procreazione. La liberalizzazione dell’aborto è stata il passo successivo. Ora siamo entrati in una fase ulteriore: la separazione della procreazione dal sesso, attraverso dispositivi “tecnici” e la completa normalizzazione/ privatizzazione dell’aborto attraverso RU-486, la “pillola del giorno dopo “. Basta dibattito, il tema non è più controverso: è superato. La donna è lasciata completamente sola nell’ora più difficile: le basta andare in farmacia e otterrà un prodotto chimico in grado di distruggere la vita che nasce dentro di lei. Questo ha disposto il governo, scavalcando la stessa legge 194/78. Il ministro Speranza e i suoi collaboratori hanno evidentemente molto tempo libero nonostante l’emergenza Covid 19. Fin qui i fatti e la cornice in cui avanza una nuova forma di aborto sostanzialmente clandestino, nel senso di privatizzato, domestico. 

C’è un certo pudore a parlare di un tema come questo: da uomo, chi scrive non può sapere davvero quale sia la relazione tra la gestante, la gravidanza e le cellule che saranno esseri umani, il concepito che è uno di noi.  Non ci interessa giudicare, non ne siamo all’altezza; restiamo però sbigottiti dalla leggerezza con cui le donne sono lasciate sole in una delle scelte più importanti dell’esistenza, addirittura incoraggiate a risolvere “il problema” – sembra che questo sia accogliere la vita- con il semplice atto di assumere un preparato (farmaco non lo chiameremo mai). La comunità, la società, lo Stato, io stesso, ce ne laviamo le mani. Eccoti la pillola RU-486, fai quel che vuoi e lasciaci in pace, donna o ragazza: siamo in altre faccende affaccendati. 

Invece no. L’ associazione ProVita ha dedicato un numero monografico della sua rivista alla pillola RU-486. Chi scrive l’ha letta tutto di un fiato, annotata articolo per articolo e alla fine gli è preso un dolore freddo, uno sconforto senza parole, simile a ciò che si prova alla morte di una persona cara. La pratica, di per sé gelida come la morte che procura, infatti non è solo grave, ma anche pericolosa, rischiosa per le donne che vi ricorrono, spesso per leggerezza, disinformazione e solitudine. Provita & Famiglia usa un’espressione assai forte, purtroppo documentata e appropriata: la pillola RU-486 è un “pesticida umano”. I pesticidi distruggono nei campi tutto ciò che trovano, senza riguardo per le leggi naturali e biologiche. 

Nelle nostre città, è in arrivo una campagna di sensibilizzazione con l’immagine di una giovane donna esanime a terra, sola, e la domanda decisiva: prenderesti mai del veleno? Come sempre, gli autonominati libertari e tolleranti stanno facendo di tutto per far ritirare il manifesto. Forse ci riusciranno: nessuno stupore, sono gli ascari – o gli utili idioti- della cultura di morte andata al potere. La maggiore organizzazione mondiale impegnata nel controllo delle nascite, apertamente abortista, è la IPPC International Planned Parenthood Federation (IPPF), una rete globale di cliniche nata nel 1952, sotto gli auspici non del comunismo sovietico o del radicalismo di sinistra, ma di associazioni legate alla famiglia miliardaria Rockefeller. Riceve centinaia di milioni di dollari all’anno dai governi, in particolare da quello americano, tanto che circa tre quarti del suo bilancio è denaro pubblico. Il resto proviene dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), dalla Commissione dell’Unione Europea (!!) e da fondazioni di “filantropi” come l’Open Society di George Soros e la Bill and Melinda Gates Foundation. Credete ancora nella spontaneità dei movimenti sociali a favore dell’aborto? 

La pillola, lo vogliamo ripetere, rappresenta insieme la privatizzazione e banalizzazione dell’aborto, che cessa così di diventare una questione della comunità nel suo insieme, ma è tutt’altro che un’aspirina. L’aborto, secondo gli alfieri della cultura da obitorio sterilizzato, deve diventare cosa di poco conto, da risolvere nelle mura domestiche. L’esito è radicalmente nichilista e antiumano. Così si esprime ProVita & Famiglia: “la diffusione della RU-486 viene pagata a caro prezzo dalle donne. Basta il buon senso per capire che una sostanza che uccide un bambino non può far bene alla salute della donna che lo porta in grembo”. Le statistiche non esistono, per il fatto stesso del buio in cui si consuma l’assunzione della pillola e si affrontano le conseguenze, ma le stime parlano di una mortalità elevata, sino a dieci volte superiore a quella determinata da aborti chirurgici. La vita delle cellule, la ricchezza inestimabile di vite impedite non conta nulla, lo sappiamo bene. Ma non conta neppure la vita e la salute delle donne coinvolte, a cui la società autodefinita “civile” è capace solo di offrire un veleno a prezzo di mercato. 

Il principio attivo è il mifepristone, uno steroide sintetico dalla potente attività antiprogestinica, cioè contro l’ormone naturale protettivo della gravidanza. L’ OMS l’ha accettato nel 2003 per raccomandarlo, tre anni dopo, come alternativa alle tecniche chirurgiche nel Terzo Mondo. Il mifepristone agisce provocando la morte dell’embrione, ma solo nel 5 per cento dei casi il “materiale” viene eliminato spontaneamente entro un paio di giorni, attraverso un copioso sanguinamento simile a una mestruazione. Nella maggioranza dei casi i tempi sono più lunghi e si deve associare la somministrazione di prostaglandine che stimolano le contrazioni uterine. Effetti collaterali e complicanze sono frequenti e severe: infezioni, emorragie, intensi dolori e reazioni allergiche. Quelli post RU-484 sono spesso giorni e giorni di dolore, paura e disagio psico fisico, in cui la donna soffre mentre guarda la morte di quello che avrebbe potuto essere suo figlio. 

La madre percepisce la presenza di quel “di più” da subito. L’aborto farmacologico cerca di silenziare “la verità scientifica della relazione biologica, immunologica, ormonale e psicodinamica che si crea dal concepimento tra il figlio e la madre”. La scelta di abortire con la RU-486 comporta contrazioni dolorosissime e genera un’iper responsabilizzazione della donna. Nel 56 per cento dei casi, la non-madre è esposta all’esperienza devastante di vedere l’embrione espulso dal suo corpo.  Non esiste più un linguaggio di verità che chiami figlio l’esserino, il grumo di cellule considerato una minaccia da eliminare.  La pillola abortiva è l’ennesima rivoluzione biopolitica. Rendere l’aborto un atto privato, un gesto qualunque, fa sì che venga a mancare anche la giustificazione della legge 194, che, almeno nelle intenzioni, prevedeva la rimozione delle cause e qualche forma di aiuto alle donne decise a portare avanti la gravidanza. 

Sgomentano alcune testimonianze di donne che hanno vissuto la RU-486 come un calvario. “Mi hanno assicurato che sarebbe stata una cosa semplicissima. E invece stavo malissimo, ho avuto contrazioni per sei ore, vomitavo, ero completamente disidratata. Ho pensato che stavo per morire”. Una modalità di aborto semiclandestino su cui sarebbe importante sentire l’opinione di chi si batté, negli anni Settanta, per l’aborto legale e ospedaliero come unica soluzione sicura alla piaga dell’aborto delle forbici e delle “mammane”.  La soluzione della modernità senza principi non è dare significato alla vita e attribuire un valore non banale alla sessualità, aiutare concretamente la sua accoglienza, responsabilizzare le future madri e i futuri padri, ma rimuovere il problema, affermando l’interruzione traumatica del ciclo della vita come un diritto.  

Silvana De Mari ricorda che in un mondo in cui la psicologia ufficiale nega l’esistenza di una sindrome post aborto, il fenomeno è ancora più drammatico nel caso degli aborti farmacologici rispetto a quelli chirurgici, in cui la donna è, in qualche modo, l’oggetto dell’atto, non il soggetto e l’attrice diretta. “Il dolore della donna che abortisce viene negato, come se fosse pensabile che un gesto antifisiologico come l’aborto, che sprofonda il ventre della donna nella morte, possa non lasciare un solco nella mente, una voragine nell’inconscio”.  Non sappiamo più riconoscere l’evidenza: interrompere una gravidanza è un atto anti fisiologico, una violazione del ciclo della natura. Ci hanno persuasi che si tratta solo della rimozione – sicura, perfino non traumatica- di cellule inutili perché sgradite. 

Nella modalità farmacologica, l’aborto può durare giorni e settimane di dolore, paura, nuova solitudine, mentre la società non vuol più interessarsi della trasmissione della vita né fornire alla sessualità un senso diverso dalla pulsione istintiva. Il meccanismo culturale in cui siamo immersi porta a negare il senso di colpa, che pure coglie gran parte delle donne che abortiscono, ma che dovrebbe farsi sentire pesantemente anche in quei non-padri che lo consigliano o impongono.  Troppi uomini restano indifferenti o si sentono sollevati dinanzi a una tragedia a cui sono fisicamente estranei, ma che dovrebbe coinvolgerli moralmente ed emotivamente come compagni di vita e membri di una comunità che rifiuta di educare all’accoglienza di nuovi membri, intenta a scartare, rimuovere tutto ciò che non dà piacere o produce fatica, responsabilità, impegno. 

É il comandamento della nostra società che nasconde la polvere sotto il tappeto e dietro la cortina luccicante dei diritti, della libertà, del progresso, ed invera, banalizzandolo, il “vivere per la morte” heideggeriano. Non più dolorosa coscienza della finitudine, ma nichilismo che tende a spazzare via a qualsiasi prezzo ogni principio, situazione, dato biologico in rotta di collisione con il principio di piacere, unico progetto di vita. Lo stesso Freud, che del lustprinzip fu il teorico, sottolineava la sua pericolosa vicinanza con l’impulso di morte. Nella pratica dell’aborto- derubricato prima a “innocua” operazione di chirurgia ambulatoriale a carico del contribuente – adesso nascosto nel privato dell’assunzione di un farmaco – sembrano estranee proprio la morte e la natura. Qualunque giudizio si dia dell’interruzione volontaria di gravidanza, non si può negare che produca effetti opposti al progetto della natura (non vogliamo parlare di piano divino) che è propagazione della vita. 

Altrettanto, turba l’idea che l’aborto sia una scelta privata, nella quale la società non ha nulla da dire e da eccepire, se non organizzare (e finanziare) gli strumenti per liberare dall’incomodo chiamato nuova vita. Sappiamo bene che la stragrande maggioranza dei contemporanei è indifferente all’argomento dell’“inverno demografico”, ovvero della sempre più rapida consunzione biologica del nostro popolo, di cui l’aborto libero e legale – indipendentemente dalle modalità- è un elemento, pur se non l’unico. A nessuno sembra importare della continuità e della dignità della vita umana. Non sono fatti miei, grida il senso comune contemporaneo. Intanto, le donne – molte delle quali i figli vorrebbero averli – vengono lasciate sole e gli uomini che desiderano avere voce in capitolo sono costretti al silenzio. 

La natura, tuttavia, ha il sopravvento e nella creatura umana il desiderio di amare e prendersi cura non è soppresso, ma orientato verso obiettivi diversi. Le statistiche dicono che in Italia vi sono più animali da compagnia che bambini. Triste fine di una civiltà che, per morire, ha inventato strumenti spaventosi e giustificazioni di ogni tipo, definiti cultura, diritti, liberazione. La pillola abortiva, liberalizzata dal governo – il ministro si chiama Speranza, un ossimoro vivente –nello stesso anno in cui si muore per l’epidemia virale, getta un’ombra ulteriore, di sangue, violenza e dolore sul gesto più terribile e misconosciuto, sopprimere la vita nascente. Nel tramonto, Sein zum tode, essere per la morte.               

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