PRESENTAZIONE DI “DON BOSCO MISTICO”, DI CRISTINA SICCARDI, EDITO DA FONTANA DI SILOE (GRUPPO LINDAU).

 

–       L’INTERVENTO DI DON ROBERTO SPATARO (*)

 

 

Cari Amici,

sono molto lieto di presentare il libro della dottoressa Cristina Siccardi su don Bosco e ringrazio tutti gli organizzatori di questo evento e la comunità salesiana che ci ospita. All’autrice esprimo sin dall’inizio di questo intervento le mie attestazioni di stima per la sua feconda ed incisiva attività di scrittrice.

Ritengo che questo libro sia molto valido e che tutti i lettori possano trarne vantaggio. La sua pubblicazione si inserisce efficacemente nel novero delle iniziative promosse per celebrare adeguatamente il secondo centenario della nascita di don Bosco, nel 2015.

Articolerò il mio contributo in tre punti.


  1. 1. Il valore storico e teologico del libro


Il libro non è una biografia puntuale e, per quanto sia possibile, completa sulla vita di don Bosco. Altre pubblicazioni, alcune delle quali di eccellente valore, si propongono questo scopo. L’autrice, piuttosto, come spiega a p. 26, vuole mettere in evidenza alcuni tratti della identità di don Bosco che raccoglie felicemente e sintetizza nella componente “mistica” del nostro santo. Conseguentemente, ella ha operato una selezione degli episodi della vita di DB ed ha privilegiato un particolare tipo di fonti. Quali? Anzitutto, i diciannove volumi delle MB e le opere edite di DB, compreso l’Epistolario di cui esistono già da tempo diversi tomi in edizione critica. Questa scelta, pur non contemplando una ricognizione più estesa sulle fonti (per esempio, gli Atti del processo di beatificazione e canonizzazione) e pur non comprendendo l’acquisizione delle ricerche condotte negli ultimi 40 anni (penso ai lavori oramai classici di Stella, Desramaut, Braido), ci permette di affermare senza esitazione alcuna che il libro ha una base storiografica solida ed affidabile.

Anzitutto, vorrei ricordare che le MB sono opera di tre autori, abbastanza diversi tra loro, Giovan Battista Lemoyne, Angelo Amadei, Eugenio Ceria. Mi soffermo sul primo di loro, un narratore eccezionale, Giovan Battista Lemoyne, perché sul valore storico della sua esposizione talvolta sono state sollevate delle obiezioni. Forse, egli è poco incline alla ricostruzione dei contesti, forse è spinto dall’ammirazione per DB ad amplificare il significato di alcuni avvenimenti. Ciò nonostante, è uno scrittore che ha rigorosamente e diligentemente raccolto una documentazione imponente: ancora oggi presso l’Archivio della Congregazione salesiana si possono consultare i 45 massici cataloghi in cui ha registrato il materiale da cui ha attinto per la sua presentazione della vita di DB.

Inoltre, come ricorda opportunamente la dottoressa Siccardi nelle pagine introduttive, don Lemoyne è un testimone visivo ed auricolare, essendo vissuto a stretto contatto con DB e con la prima generazione dei salesiani, tutti convinti della straordinarietà della figura del loro fondatore. Un certo approccio positivistico alla storia, che ha unilateralmente esaltato il valore del documento scritto o dell’oggetto materiale, ci ha fatto perdere la sensibilità per l’importanza della testimonianza de visu et de auditu. La storia, però, e non possiamo dimenticarlo, è nata come racconto di ciò che è stato visto ed udito. Pensiamo ai primi grandi storici dell’antichità classica, Erodoto e Tucidide, e pensiamo pure al racconto degli eventi del Vangelo, trasmessi, come ricordano esplicitamente Luca nel prologo della sua opera, e Giovanni, nella prima lettera, da coloro che erano stati testimoni diretti dei fatti.

Giova a questo punto rileggere le affermazioni di don Lemoyne riportate nella premessa del nostro libro, a p. 11.

La narrazione è secondo verità. Siccome nel mondo ben pochi, io credo, siano stati riamati, come lo fu DB da’ suoi figliuoli adottivi, così questi lasciarono copiose memorie di quanto essi videro co’ propri occhi ed udirono colle proprie orecchie. Io stesso, dal 1864 al 1888, misi in carta quanto accadde di più memorabile. Molte cose le seppi dai lunghi, frequenti, confidenziali colloqui che ebbi col servo di Dio per ben ventiquattro anni e de’ quali non lasciai cadere parola.

Quando è iniziata la pubblicazione delle MB, moltissime persone che avevano assistito agli avvenimenti ricordati erano in vita. Se i volumi del Lemoyne avessero contenuto invenzioni o arbitrarie ricostruzioni, egli si sarebbe esposto a critiche e la sua opera sarebbe stata deprezzata. Nulla di tutto ciò è accaduto. Ricordiamo pure che quando i primi IX volumi delle MB uscirono, era in atto il processo di beatificazione di DB. Sarebbe stato temerario e controproducente esibire una narrazione infedele o contestabile dal punto di vista storico. Non ci risulta che questo sia avvenuto. Dunque, il libro della nostra cara dottoressa Siccardi, utilizzando le MB, si fonda su una base documentaria solida.

Accenno ora alle Memorie dell’Oratorio, compilate da DB stesso, per espresso desiderio del Papa Pio IX, un altro santo che aveva intuito subito la santità di DB. Lo scorso anno il nostro Rettor Maggiore, don Pascual Chávez Villanueva, ha chiesto ai membri della FS di rileggere questo prezioso documento, proprio nel primo anno del triennio di preparazione alla celebrazione del bicentenario della nascita di DB, dedicato alla “storia”. Le Memorie dell’Oratorio, come ha ricordato don Aldo Giraudo che lo scorso anno ne ha curato un’eccellente edizione critica, erano destinate, nelle intenzioni di DB, ai suoi figli, ai salesiani, anzitutto quelli che erano a lui contemporanei. Egli ha così trasmesso una sua convinzione: l’opera salesiana è nata per ispirazione divina come confermato, agli occhi di DB, dagli stessi fatti soprannaturali avvenuti nella sua vita, quali, ad esempio, la visione luminosa e la voce di Luigi Comollo, il compagno di seminario scomparso prematuramente, o gli interventi del misterioso cane, il “grigio”, che in più di una circostanza salvò DB dalle aggressioni fisiche dei suoi avversari, episodi entrambi ricordati dalla dottoressa Siccardi nel suo volume (pp. 133-137; 299-300). Ebbene, si trattò di fatti accaduti alla presenza di testimoni: avrebbe potuto DB esporsi al rischio di essere smentito e, in tal modo, rendere poco credibile ciò che gli stava più a cuore comunicare, ossia la persuasione che era stato chiamato da Dio, per intervento speciale e premuroso della Madonna, a prendersi cura dei giovani? Questo appare poco ragionevole.

Dal punto di vista storico, la nostra autrice ha dato rilevanza ad un altro genere di fonti: le opere scritte da DB stesso che fu uno scrittore fecondo, efficace, di successo. L’accentuazione riservata alla prassi pedagogica di DB come criterio per spiegarne la personalità, non può e non dovrebbe indurre a sottovalutare la sua vasta produzione letteraria. D’altra parte, lo stesso DB quando si presentò per la prima volta al Papa Pio IX, nell’anno 1858, alla domanda su che cosa egli si occupasse, rispose: “Santità, io mi occupo nella istruzione della gioventù e nelle Letture Cattoliche”, ossia di quella fortunatissima serie di volumetti destinati alla formazione religiosa del ceto medio intrapresa da DB con il suo coraggio e la sua intraprendenza per contrastare l’aggressiva propaganda valdese. La dottoressa Siccardi ha applicato un criterio storiografico che formulerei così: spiegare DB con DB, per entrare nel suo mondo interiore, nella sua teologia, nella sua pedagogia. Nel capitolo intitolato “evangelizzatore” dà giustamente rilievo a questo criterio.

Infine, la nostra autrice, pur non essendo un teologo di professione, è ben consapevole che, trattando dell’identità di un santo, non può ignorare categorie e criteri teologici per uno studio approfondito. Segnalo perciò alcune pagine del libro che sono molto apprezzabili per questo motivo. Quando si parla della forte ed adamantina coscienza che DB ebbe del suo sacerdozio, l’autrice riporta la dottrina patristica di Giovanni Crisostomo e una citazione del suo capolavoro De sacerdotio (pp. 149-150), quando si ricorda l’effetto taumaturgico delle benedizioni di DB, non manca un’esposizione sul valore di queste azioni sacramentali (pp. 18-185), quando si affronta il discorso dei sogni di DB, un breve sommario teologico su sogni e visioni, attinto a sicuri trattati di ascetica e mistica inquadra l’argomento (pp. 74-77). Vorrei qui ricordare però che manca ancora uno studio scientifico sui “sogni” di DB, una recensione critica delle narrazioni ed una loro classificazione. Soprattutto mi sembra molto riuscito il capitolo 5, “i maestri di don Bosco, le anime dell’opera salesiana”, ove l’autrice, dimostrando una buona conoscenza della dottrina teologica e spirituali di Ignazio di Loyola, di Francesco di Sales, di Alfonso Maria de’ Liguori, dimostra come siano queste le sorgenti della teologia e della spiritualità di dB, cui egli attinse copiosamente durante gli anni trascorsi al Convitto ecclesiastico, determinanti nell’impostazione della sua identità sacerdotale.

A conclusione di questo punto, affermo che lo studio della dottoressa Siccardi è valido dal punto di vista storico e teologico.


  1. 2. La vita interiore di don Bosco


Il pregio maggiore del libro che presentiamo questo pomeriggio risiede nella scelta di mostrare che la santità di DB non si spiega con la sua azione pedagogica e sociale, per quanto prodigiosa, instancabile, vasta ed articolata. La santità di DB sgorga dalla sua vita interiore, abbondante, matura, profonda, ed arricchita dai doni anche soprannaturali che egli ricevette. Non a torto, la dottoressa Siccardi ha voluto sottolineare sin dalle prime pagine del suo libro che un’interpretazione di DB sociologica è inadeguata e non è per nulla fedele a ciò che DB pensava di sé e che gli altri pensarono di lui. La nostra autrice non nasconde la sua insofferenza per letture estremamente riduttive e fuorvianti:

Da circa mezzo secolo lo si è dipinto come un assistente sociale, un imprenditore spregiudicato, un manager acuto, un anticipatore della moderna psicologia. Molti luoghi comuni sono stati inventati per stare al passo con i tempi e con questa operazione si è dimenticati chi sia stato realmente don Giovanni Bosco: un sacerdote inviato da Dio che si consumò per donargli più anime possibile, per difendere il Sommo Pontefice (p. 15).

Non a caso l’abbé Chautard, l’autore di quell’aureo libretto, ingiustamente caduto in oblio, intitolato “L’anima di ogni apostolato”, cita dB come esempio di un evangelizzatore, di un apostolo, l’efficacia della cui azione risiede nella santità della sua vita interiore che per irradiazione si diffonde attorno a sé. In questo senso, assumendo il termine “mistico” in senso lato, DB è stato un mistico e la sua vita è stata un ponte tra cielo e terra, come richiamato dal titolo del saggio della dottoressa Siccardi.

D’altra parte, la tentazione o la difficoltà di fornire una visione orizzontale di DB non è recente. Addirittura una seria obiezione sulla vita di orazione di DB fu sollevata durante il processo di canonizzazione.

Per raggiungere i suoi scopi – fu osservato – don Bosco più che sull’aiuto divino cercava gli appoggi umani con inesplicabile sollecitudine giorno e notte, fino all’estremo delle forze e fino al punto di non essere più capace di attendere agli impegni della pietà. Come si può dire eroico uno che è stato così carente nell’orazione vocale?.

Proprio il processo canonico si rivelò l’occasione per rimuovere il velo che copriva la profonda vita interiore di DB. Nacque così poi quel preziosissimo volumetto che ha nutrito (e speriamo che continui a nutrire) la spiritualità di tante generazioni di salesiani: “Don Bosco con Dio”, di don Eugenio Ceria, cui il libro “Don Bosco mistico” può essere opportunamente accostato. Se la dottoressa Siccardi non condivide la definizione di DB come “santo sociale”, don Ceria rifiuta quella di “santo moderno”.

Le testimonianze vagliate scrupolosamente da don Ceria portarono a questa conclusione: DB viveva profondamente e costantemente l’unione con Dio. Il 28 Febbraio 1888, il cardinale Alimonda, Arcivescovo di Torino, nella Messa di suffragio, definì don Bosco “l’unione continua con Dio”. Don Ceria afferma: “Dell’unione con Dio l’anima di don Bosco fruiva, diciamolo pure francamente, senza discontinuità; sembra infatti essere stato questo il suo dono, di non lasciarsi mai distrarre dal pensiero amoroso del Signore, per molti e gravi e ininterrotte che fossero le sue preoccupazioni”. Coloro che gli sono stati accanto non hanno avuto dubbi in proposito: “Quello che ho potuto continuamente scorgere fu la sua continua unione con Dio. E questi sentimenti d’amor di Dio manifestava con tanta spontaneità, che si vedeva che sgorgavano da una mente e da un cuore sempre immersi nella contemplazione di Dio e de’ suoi attributi”. I ragazzi più sensibili percepivano questo dono straordinario di cui don Bosco godeva. Un suo antico allievo, poi Vescovo di Aosta, dice: “Ardeva sempre della più grande carità verso Dio, e io sono persuaso che viveva in continua unione don Dio. Ricordo che tra noi ragazzi c’era questa persuasione, che il Venerabile parlasse direttamente con il Signore”. E, proprio ricordando gli anni trascorsi accanto a don Bosco, un eccezionale testimone, il cardinal Cagliero, dichiarava:

Era sempre in intima unione con Dio, quando dava udienza, quando era al tavolino intento a’ suoi lavori, quando s’intratteneva insieme con noi in ricreazione, quando pregava con fervore dinanzi a Gesù sacramentato o allorché si trovava all’altare. In qualunque momento lo avvicinassimo, ci accoglieva sempre con squisita carità e con tanta amabilità, come se allora, allora si levasse dalla più accesa orazione o dalla più intima divina presenza.

Tuttavia, la dottoressa Siccardi nell’intitolare il suo saggio “Don Bosco mistico” ha voluto attribuire all’aggettivo un’accezione non solo lata, quella cioè di un uomo di vita interiore profondissima, “unione vivente con Dio”, come i testimoni dichiararono, ma anche più specifica, secondo la quale l’elargizione di grazie soprannaturali consente al credente di recepire con immediatezza la conoscenza di Dio e delle sue comunicazioni, di compiere per mozione divina azioni straordinarie, di comunicare ispirazioni che vengono da Dio attraverso il linguaggio proprio dei mistici, quello simbolico e profetico. Non sono poche le pagine in cui l’autrice riporta questi fenomeni che hanno pure caratterizzato la vita di DB, come le profezie sul destino di casa Savoia, quando il Re Vittorio Emanuele si rese corresponsabile di un’azione persecutoria contro le istituzioni della Chiesa Cattolica, puntualmente verificatesi, come ricorderò successivamente, o quelle sul destino della Chiesa Cattolica negli anni più aspri del conflitto con il neonato Regno d’Italia, di più complessa interpretazione.

DB, come ricordato da don Ceria, nel libro precedentemente menzionato, redatto anche sulla base delle testimonianze recepite negli Atti del processo di canonizzazione, ebbe il dono del consiglio, sogni soprannaturali, visioni ed estasi. Anche questa dimensione della sua santità ci è stata opportunamente rammentata dal libro della dottoressa Siccardi che non esita di affermare: “il soprannaturale irrompeva continuamente nella vita di DB e ogni suo passo fu mosso con l’assistenza delle grazie divine” (p. 325). Questi fenomeni si accentuarono negli ultimi anni della sua vita, ricorda giustamente l’autrice (p. 368), compreso quello della bilocazione.

Naturalmente, la sottolineatura di questa componente della santità di DB non ha indotto l’autrice a dimenticare l’azione ordinaria del nostro santo, svolta certamente in modo straordinario, perché infiammata dalla carità verso Dio e verso il prossimo, azione pedagogica rettamente concreta e sapiente, azione organizzativa, infaticabilmente operativa e prudente.



  1. 3. Una sottolineatura per il nostro contesto


Ed ora l’ultimo punto. L’autrice sottolinea energicamente che il contesto in cui dB operò fu caratterizzato dall’ostilità verso la Chiesa Cattolica e il Papato. DB ne fece le spese, in occasione delle aggressive perquisizioni ministeriali del governo sabaudo nell’anno 1860. Com’è noto, nel secolo XIX, i governi liberali, spesso di ispirazione massonica, diedero vita ad una politica giurisdizionalistica, se non propriamente vessatoria e finanche persecutoria, nei confronti del Cattolicesimo. I cattolici italiani si distinsero in liberali ed intransigenti, i primi pronti a trovare un compromesso con le forze che irruppero in modo rivoluzionario nello scenario socio-politico, convinti della liceità e finanche della bontà di alcuni principi del liberalismo e della sua matrice rivoluzionaria, i secondi invece del tutto indisponibili a venire a patti con avversari implacabili, e schierati a difesa del Papato e del diritto naturale, gravemente sovvertito dalle res novae. E DB da che parte si schierò? La dottoressa Siccardi, riportando frequentemente le parole stesse del santo, ci dimostra che DB fu inequivocabilmente un “intransigente”, sfavorevole a tutto il processo risorgimentale. La sua fedeltà incrollabile e la sua devozione al Papa andavano in questa direzione. Del resto, al Convitto ecclesiastico, ove dB si trattenne per i primi tre anni del suo sacerdozio, l’Ultramontanesimo delle Amicizie cristiane del Lanteri aveva permeato l’ambiente ed era stato assorbito dai suoi direttori, il teologo Guala prima, e san Giuseppe Cafasso dopo, il direttore spirituale di DB. Anche questo dato è saggiamente messo in evidenza dalla dottoressa Siccardi (pp. 57-58).

A tal proposito, occorre ricordare che Don Bosco aveva una “teologia della storia” che oggi appare “politicamente scorretta”. Però è quella di un santo. E le sue profezie si avverarono. Per esempio, quelle sul destino di Casa Savoia, la dinastia che, dopo essersi distinta nel corso della storia per devozione alla Sede di Pietro, nel secolo XIX avallò e promosse una legislazione anticattolica, filo-protestante e invase lo Stato Pontificio più volte fino alla conquista di Roma nel 1870. Alla quarta generazione, essa si sarebbe estinta, secondo DB. Sappiamo come sono andate le cose: il figlio del “Re galantuomo”, Umberto I, morì nel 1900, vittima dell’odio anarchico in un attentato che scosse profondamente l’Italia, Vittorio Emanuele III che nel 1943 fuggì ignominiosamente da Roma, prima dell’occupazione nazista, fu costretto ad abdicare e, alla quarta generazione, Umberto II lasciò per l’esilio l’Italia, diventata repubblica in seguito al referendum istituzionale del 1946. Tutto puntualmente riferito dalla dottoressa Siccardi a p. 314. Mi sia permesso ricordare un altro episodio, anche se non menzionato nel nostro libro. Nel 1867 db incontrò Francesco II, esule a Roma dopo l’invasione garibaldina nel Regno delle due Sicilie. Il Re Borbone, cui erano noti i doni straordinari di don Bosco, chiese se egli sarebbe tornato sul suo trono, come pure molti credevano in considerazione della situazione internazionale e della precarietà dell’“Italietta” postunitaria. Don Bosco, dopo aver cercato di schernirsi, di fronte alle insistenze di Francesco II, disse che la situazione era irreversibile e che la politica attuata dai predecessori di quel giovane re che gli era di fronte, pio e leale, era la “causa” della perdita del Regno. Infatti, nel secolo precedente, i Borboni di Napoli, seguendo la politica giurisdizionalista dell’onnipotente ministro Tanucci, avevano limitato fortemente la missione della Chiesa: persino per amministrare la Cresima, i Vescovi avevano bisogno dell’autorizzazione regia!

Secondo don Bosco, insomma, chi perseguita la Chiesa, prima o poi, subisce una punizione: è la sua teologia della storia, conforme del resto a quella dei grandi apologisti dei primi secoli, anche se non più à la page tra i teologi postconciliari preoccupati piuttosto di instaurare un improbabile dialogo con i cosiddetti lontani e di chiedere perdono per colpe che la Chiesa non ha mai commesso.

Leggendo la Storia d’Italia di don Bosco, una delle opere che la nostra dottoressa Siccardi riporta nell’elenco bibliografico del suo volume, si può conoscere il suo giudizio, estremamente negativo, per i moti d’indipendenza della prima metà del secolo XIX, promossi, a suo avviso, dalle società segrete e dai “filosofi” per perseguire due scopi del tutto inammissibili: il rovesciamento dei governi legittimi e l’anticlericalismo. Essi erano accompagnati, come si dilunga a mostrare nel racconto degli avvenimenti dell’effimera Repubblica romana del 1848-49, da azioni delittuose e violenza efferata.

In altre parole, don Bosco appartiene a quella schiera di cattolici intransigenti che condanna senza assoluzioni il Liberalismo del suo tempo. Egli si distingue, però, per due caratteristiche. Anzitutto, è alieno da ogni intemperanza verbale. Nei suoi scritti che trattano degli avvenimenti legati al processo di unificazione dell’Italia, sono associate chiarezza di pensiero e moderazione nell’espressione. È la mitezza di un santo che, inoltre, alla sterilità della protesta, preferisce la fecondità dell’azione. Ed ecco la seconda caratteristica.

Anzitutto, un’azione distensiva e di ricerca di accordi parziali sulle gravi divergenze tra Santa Sede e Governo italiano. Don Bosco si occupò della questione delicatissima della nomina dei Vescovi delle diocesi che ne erano prive, in quanto ostacolata dalle pretese del governo. In occasione della sua canonizzazione il Papa Pio XI gliene rese merito e questo pure ci ricorda la dottoressa Siccardi (p. 25) Don Bosco ebbe il dono di conquistarsi la simpatia di tutti o meglio quasi tutti. Nel 1876, alla vigilia delle elezioni che avrebbero portato al governo la Sinistra, ancor più aspra della Destra liberale nel promuovere una legislazione antireligiosa, don Bosco accolse nel Collegio di Lanzo Torinese ben tre futuri ministri di quel governo, Nicotera, Zanardelli e de Pretis, venuti ad inaugurare un tratto ferroviario e ricevuti dal municipio locale nell’unico ambiente adatto a tali manifestazioni, la scuola salesiana per l’appunto. Zanardelli, alla fine del ricevimento, era stato soggiogato dall’amabilità di don Bosco capace di dire la verità con dolcezza e senza offendere nessuno. Abbracciò un salesiano e gli disse: “Dica a don Bosco che non potrei essere soddisfatto più di quello che sono del ricevimento avuto nel collegio. Non lo dimenticherò mai. Io farò per il collegio tutto quello che potrò”. La nostra autrice dà questa pennellata di DB: “Modi garbati ed educati, amabile ed affabile, misericordioso e pietoso, ma sui principi era davvero intransigente, nessun compromesso” (p. 285).

Erano coscienti che don Bosco agiva per i poveri e faceva ciò che il Liberalismo non seppe e non volle fare: era un’ideologia astratta e, per usare una definizione di Donoso Cortés, robusto pensatore cattolico del secolo XIX, “parolaia”. Parlava di libertà ma si disinteressava della giustizia. Era l’età, infatti, della rivoluzione industriale, contrassegnata da fenomeni quali il conflitto tra capitale e lavoro, l’urbanizzazione improvvisa e disordinata con l’abbattimento progressivo della plurisecolare civiltà rurale, lo sfruttamento dei lavoratori, soprattutto di minori e donne, la nascita del socialismo e del sindacalismo, la latitanza dello Stato. Don Bosco si prese cura dei minori, che erano facile preda di sfruttamento materiale e morale, e offrì una proposta educativa integrale, comprensiva anche dell’educazione al lavoro e alle abilità professionali. Con un approccio pragmatico, ma non per questo meno efficace. L’autrice lo descrive in più di un passaggio del suo libro.

Penso che in quest’epoca di nuova evangelizzazione in un mondo che non solo rifiuta i principi del Cattolicesimo ma anche quelli del diritto naturale, sotto la guida del Papa Benedetto XVI che ci fornisce anche in questo un esempio luminoso ed attraente, i cattolici siano chiamati a coltivare lo stesso approccio di DB nel secolo XIX: fermezza nel presentare, argomentare, difendere i principi irrinunciabili, quelli che abbiamo imparato a definire “non negoziabili”, e poi operare con carità operosa e intelligente prudenza, per ottenere tutto il bene possibili, adeguando i mezzi ai fini.

Insomma, l’atteggiamento di DB è quello che la dottoressa Siccardi individua citando Garrigou-Lagrange: “La Chiesa è ferma nei principi perché crede, è duttile nelle applicazioni perché ama; i nemici della Chiesa sono duttili nei principi, perché non credono, e rigidi nelle applicazioni, perché non amano (p. 218).

 

(*) professore alla Facoltà di Lettere Cristiane Classiche dell’Università Pontificia Salesiana di Roma e Segretario della Pontificia Academia Latinitatis

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