PRINCIPIO DI UN VIAGGIO QUASI FILOSOFANTE – un racconto di Alberto Baldini

PRINCIPIO DI UN VIAGGIO QUASI FILOSOFANTE

un racconto di Alberto Baldini

 

 

La nostalgia: la massima forza di gravità

all”insù…

Pier Paolo Ottonello


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I

Il quietismo ovvero il movimento stazionario

 

Attraverso il finestrino del taxi, Simeone contemplò la via alla stazione, che scialava tra file di platani monumentali e cinerei.

La verde stagione declinava nel languore alcionio dell’ottobre, le squame dei tronchi si aprivano a macchia su polpe dilavate.

La pioggia a lungo attesa aveva sciolto e diffuso nell’aria gli odori sequestrati dal muschio secco e dalla terra accaldata.

Le pallide luci della sera si specchiarono sull’asfalto, quando le gomme, frenate, sollevarono un gemito dall’acqua piovana.

Simeone, pagato il prezzo della corsa, salì sul marciapiede e cercò riparo sotto la pensilina di ghisa arabescata.

Tra il marciapiede e il portico, vide agitarsi un manipolo ondeggiante e pigro di flâneurs in cerca di asilo.

La ferrovia, grembo fuligginoso dell’ignoto, attirava l’inquietudine degli sfaccendati in una circolazione lenta e vana.

Nella vecchia stazione, il tardo Ottocento aveva celebrato, con esoterica squisitezza, la copula del romanzo gotico con la vertigine babilonese.

In alto, un rosone ozioso contemplava il vuoto piramidale e fetente dell’atrio.

Sul pavimento alla veneziana, fra sputi di gomma anneriti dal passeggio, pullulavano gli emblemi dell’usura cosmopolita e le allegorie della scienza trionfale.

Fanciulle acerbe, incastonate nell’erbario preraffaellita, cauto tripudio di iris, gigli e asfodeli, mostravano algide nudità. Pallide e filiformi mani sfioravano la volta a cassettoni. Dagli angoli, sguardi obliqui di figuranti contemplavano altezze inarrivabili. Cariatidi muscolose reggevano poggioli immaginari.

Una radiolina gracchiava mistiche canzonette. Cerco un centro di gravità permanente… eccetera. Appoggiato al muro, il disturbato di lungo corso annunciava, con voce rauca, la vicinanza di un’immaginata rivoluzione.

La pioggia fredda e vaporosa avvolgeva la superba facciata della stazione.

Al riparo del monumentale edificio, una seconda risma di sventurati indugiava, ascoltando dalla voce altoparlante l’infaticabile snocciolamento di numeri binari e destinazioni golose: Napoli, Firenze, Venezia, Nizza, Parigi, Vienna, Zurigo, Basilea, Barcellona, Istanbul.

Nascosto dalla piantana reggente la pubblicità di un sorriso al fluoro,  l’accattone stendeva la mano timorosa. Sulla fronte aveva calato una berretta verdastra, forse un residuato dei magazzini americani a Napoli. La bocca era celata da una benda sporca e lanuginosa, che girava intorno alla nuca, dopo aver sfiorato le ingiallite orecchie. Gli occhi aridi e stupefatti fissavano una lontananza opaca. Declinava le generalità della sua malattia anacronistica, e gorgogliava suppliche sempre uguali e di norma inascoltate.

La comparsa della figura miseranda fece cadere, in un angolo morto del cuore, l’interesse per il dotto viaggio, che Simeone aveva preparato con cura.

L’ombra della realtà dolente si distese sul pensiero indirizzato alle conventicole filosofanti  intorno allo storicismo stazionario. Il desiderio della piacevole incursione nel passato – l’aroma dei venerati cartigli, il fascino delle forme desuete, i disarmanti fruscii dell’accademia, l’animazione degli ambulacri, la bella noia … ella m’insegna, illustre collega …  com’ebbe a dire il Blister-Freegnis mi avvio alla conclusione … sostiene il Cicutini… dal suo canto il Ballario … senonché il Loffit

Il piacere della dotta vigilia dileguò di un attimo, quasi bolla di sapone percossa da un trasalimento improvviso.

L’icona del passato stendeva mani polverose sulla fragile curiosità del viaggiatore antagonista. Rammentava il viso rotondo del mendicante, il naso carnoso, la pelle olivastra, l’espressione sottomessa e accorata. Un vignaiolo delle colline, impigliato come un Laocoonte nelle stelle filanti della città luminosa. Catturato dalla cattiva sorte, clinicamente infranciosato.

Simeone lo aveva incontrato una prima volta, più di vent’anni addietro, quando non si nascondeva sotto il bendaggio, perché la devastazione della trascurata lues era soltanto all’inizio. Al tempo di quell’incontro casuale, l’infettato esercitava l’accattonaggio insieme con una donna dimessa e incolore, presumibilmente la moglie, una Gelsomina  accordata con le note viola di Antonin Dvorak e in seguito scomparsa dall’insignificante miseria del suo mondo.

La coppia si appostava al capolinea di una funicolare panoramica a cremagliera. Un’eccellente posizione per la loro stentata attività.

L’accattone declinò le generalità della malattia inconfessabile, che serpeggiava nel loro sangue. Simeone e i suoi amici, in un sussulto d’atavica paura, arretrarono. Gli istinti della giovinezza non tollerano l’esposizione dell’orizzonte mortuario.

Al moto della ripugnanza vitale, lo sfortunato vignaiolo replicò con voce ferma:

“È una malattia come le altre”.

Non proprio come le altre, in quegli anni. Le fasi della discesa miliare erano scandite da una clessidra oscura e rapinosa, che sgranava la sabbia della demenza futura.

Più tardi, Simeone comprese di aver udito, nelle parole del miserabile, l’accento di una strenua e misteriosa speranza.

L’animosa nullatenenza combatteva la guerra contro un nemico invincibile. Grazie allo sventurato, Simeone aveva intravisto, nella realtà, il miracolo dipinto in un quadro alla parete del tinello di Stefano: musici d’osteria, dopo l’esigua colletta, avanzavano impavidi, nel contrario, algido vento di un gennaio.

Il corpo di morte rivelava alla giovinezza il suo misterioso vigore: esisti, dunque vuoi vivere. Così sorge la domanda, alla prima manifestazione dell’angoscia.

Simeone non riuscì mai a mandare fuori della memoria il contrasto della sua ripugnanza con la solida tranquillità del malato. Adesso un liquido rimorso lo invadeva a tradimento.

Il tempo, appena superato il gomito della quarantina, era diventato più veloce. Insieme con il verde della baldanza, la temerarietà scoloriva. Lo splendore dei sogni si rovesciava nel grigiore dei progetti. Ma… Si profilava la maturità, cioè la disposizione a contemplare la vita oltre la mondana ambizione.

Aveva incontrato il freddo silenzio delle corsie intorno ai malati terminali. La percezione dell’inevitabile, quell’alone flaccido, lattiginoso, che circonda la volontà e la riduce al mite consiglio. Al nuovo stato d’animo, però non sapeva associargli un nome.

Per un arcano concorso di fatti, la dolente apparizione dell’accattone si ripeteva a intervalli di due o tre anni e in concomitanza di passaggi cruciali nella vita.

A ogni incontro, si presentava un nuovo indizio dell’infezione, secondo Fracastoro contratta dal pastore Sifilo. Il suono della voce stava scendendo in un’ottusa voragine. Un altro angolo della faccia era scomparso sotto gli abbondanti e vergognosi bendaggi. Gli occhi sempre più scoloriti e inespressivi.

Si poteva dire che il suo volto personificava, in qualche modo, il dramma di chi perde la faccia. La perduta faccia dei vinti, narrata da un emarginato poeta loanese.

Ultimamente il malato aveva l’aspetto di una mummia in faccende. Trasportava, da un marciapiede all’altro, la borsa di plastica, piena di oggetti inutili, probabilmente raccolti nel mondezzaio. Saltuariamente s’intravedeva al bordo di un’aiuola defilata, intento a ispezionare il tesoro.

Col trascorrere degli anni, Simeone si era persuaso che quell’uomo, inselvatichito dall’infezione e alterato dalla solitudine, espiasse in sua vece, che fosse un vivente talismano, un privato parafulmine.

Il mistero della sofferenza, impropriamente detto mysterium iniquitatis, incrociava la via dell’affanno senza ragione.

Era pensabile che la lenta consumazione del disgraziato propiziasse, per vie nascoste, la solidità economica, che consentiva, ad esempio, l’ozioso e tranquillo esercizio degli studi intorno al secolo quietista?

Quella sera l’ottuso dolore del vecchio accattone e il brusio della comunità spossata dall’ozio, gli apparvero nella luce di una metonimia inconsueta: la pastorizia arcadica dai giardini della goduria francese emigrava in quell’atrio d’afflizione italiana.

Gli sguardi tortuosi e incolori dei senzatetto, stazionari e movimentati, attratti da una sirena petulante, fuggivano verso la partenza per nessun luogo.

Sembrò quasi visibile il nesso tra gli antichi dolori dell’infettato e gli ectoplasmi del secolo cartesiano.

Un giorno o l’altro, si disse, qualcuno vedrà il filo rosso che attraversa le crune della scienza astratta e della dissoluzione …

Come gli scultori, nel sontuoso cimitero della città, avevano scolpito mesopotamici arconti e prefiche ignude sopra la testa di galantuomini prosperi e baffuti, così la stazione…

All’improvviso, la scena uggiosa rivelò la soggiacente astrazione, l’oscuramento della Cristianità, lo scisma della cosa pensante, il naufragio nel calcolo bancario, il fallimento dell’avventura progressista, i fiumi di sangue, la diserzione dei chierici, la discesa del rito nella farsa, la catastrofe antropologica.

[Con gli occhi delle mente attonita vide un sacerdote olandese, travestito da Batman, salire l’altare improvvisato nella pista del circo ecumenico…]

La sempiterna, uggiosa vanità, vanitas vanitatum delle cattedre et giacobine et liberali et leniniste et hitleriane et qualunque altra cosa, riapparve nell’estensione lampante di un corpo di vagabondi alla deriva.

Quel panorama opaco, lucus a non lucendo, indicava le pieghe inesplorate della stazionaria rivoluzione.

Uscito dal manicomio, Comte mise una Vacca sull’altare della scienza positiva. Tra le righe della Nep leninista crepitò la fucileria sterminata.

Indietreggiava la figura di quel mondo. Nel XVII secolo, padre Morin Mersenne, soffiando su gesuitici carboni, aveva affumicato i supremi dottori della confusione.

Grazie all’irrealismo di Renato Delle Carte, fu classificato progresso ogni estensione della Cosa pensante.

Da un angelo in caduta libera e da un leviatano inscritto nel cerchio quadrato ebbe origine …

Il Seicento, il Seicento e non il successivo, fu il secolo dei fumi che ancora accecano. Allons enfants? I figli del fumo, gli innaffiatori dei solchi e le soavi calzettaie disegnarono una processione cartesiana intorno al patibolo.

Nei vaporosi ideogrammi del salotto scorreva, ad ogni modo, il sangue impuro delle sedici carmelitane martirizzate a Compiègne. Gli osservatori degli indizi misteriosi, detti segni dei tempi, dovrebbero concludere che la saga del Carmelo moderno, unica vicenda europea dotata di senso compiuto, comincia ad Avila da una convertita ispanica e si conclude in Polonia, con il martirio di una convertita tedesca.

Alla fine il serpente ferrato, mangiandosi la coda scientifica, invertì la direzione di marcia. Le labbra infuocate dell’ariano Nietzsche baciarono l’apostata Benedetto Spinoza. Solitario ti ho riconosciuto…

Finalmente il frequentatore delle biblioteche controrivoluzionarie era al cospetto dell’Esito Nudo. La scienza aveva iniziato la caduta nell’indecente regresso.

Nel cerchio vizioso della ferrovia, l’umanità senza Dio e senza padrone rappresentava il paradosso, l’ossimoro dell’aurora crepuscolare.

Il progresso? Transitato l’Assoluto a cavallo, il fruscio degli stazionari celebrava il rito del binario morto. L’età del ferro? Forse si apriva una via alla scoperta dell’Adamo di Pierre Gassendi. E senza forse. L’enigma della modernità si svelava nei corpi separati dalla cosa pensante.

Un vagabondo deforme, le braccia troppo lunghe, la sporgente, animalesca bocca, abbaiava assurde contumelie all’indirizzo di un uditore invisibile.

Con teatrale sveltezza, il bigliettaio, dal suo vitreo tabernacolo, distribuiva il viatico cartaceo alla velocità su rotaia.

Da una tale bocca il poeta Sandro Sandri vide uscire un vociante e quasi profetico binario.

Sotto turbanti di finta pelliccia, alcuni dopolavoristi, camuffati da signori delle nevi, voci rauche, natiche straripanti, cuori agitati dalle promesse dei bollettini meteorologici, affrettavano il passo della loro impellente voglia di discesa.

Gli apparecchi scivolosi drizzavano colori sfolgoranti e scritte totemiche. Presumibilmente narravano l’urgente mistero dell’iniziazione al degrado.

L’aroma penetrante, sprigionato dall’olio per massaggi, alludeva alla sportiva velocità.

I pendolari, al contrario, trascinavano l’abitudine tediosa  del rientro. Non che gli sciatori … in un saggio sulla montagna profana, un pensatore coatto ha smascherato la cupidigia di noia … metafora delle scioline …. che sprona il veloce popolo dei discendenti …

In punta di piedi, sul predellino della vetusta ma prestigiosa carrozza, l’inserviente della Compagnia Cook ossequiava i viaggiatori. Guardingo. Contegnoso e sussiegoso, alamari e bottoni d’oro, divisa marrone, nappina danzante sulla punta del berretto.

Assillava gli elargitori di mance:

“Il treno è in partenza, dottore … permette senatore? Prendo io la valigia, ingegnere. La sua cabina è la numero cinque, onorevole. Prenoto la cena per lei, avvocato? Il letto è pronto, commendatore. Grazie, professore”.

Con servile solennità il cicerone della via ferrata girò la chiave e mostrò la sontuosa cabina. Simeone fu rapito dall’eleganza, fodera di mogano e finta radica, tappeti morbidi, luci languide e soffuse, paralumi damascati.

Esaltati da un sapiente calore, i profumi di canfora e cera avvolgevano e intorpidivano l’ospite.

Il capostazione, berretto fiammeggiante, gesto teatrale, da futurista impagliato, infine fischiò la partenza.

Un tempo per i viaggiatori delle vetture blu, l’ottone sfolgorava sul corrimano radioso e le bianche scritte bodoniane balenavano sul blu.  Tappeti color amaranto erano stesi per il volteggio di cameriere ipercinetiche. Controllori in guanti bianchi ossequiavano i turisti dell’illusione. Fumatori di sigaro producevano aromi squisiti. Nel tempo delle fiabe il viaggiatore di classe era trasportato in alcove ferrigne da una stazione all’altra, da Parigi a Baalbec, da Trieste a Costantinopoli, da Vienna a Berlino, dalla fuligginosa Milano alla Costa Azzurra.

Fra alberghi a porta girevole e rotte transatlantiche … elegantemente l’Europa andò incontro all’eclissi della comodità – “Signori in trincea! L’epilogo va a cominciare”.

Alla mente di Simeone si riaffacciarono le figure depresse, striscianti al margine della vita stazionaria.

Il colombiano Nicolás Gómez Dávila sosteneva che la cultura si è involgarita quando il popolo ha rinunciato a imitare i signori. Ma un oscuro popolo di imitatori lo smentiva ciondolando signorilmente nella trincea dell’ozio.

Venditori di incubi esotici, umidi cinedi, questuanti appiccicosi, meretrici canute, comizianti in perpetuo delirio, impazienti sciatori, estenuati passacarte. La dirompenza della ragion plebea si dava gratuitamente all’eletto piacere – al signorile sfacelo.

La corruzione era scesa dall’alto, evidentemente. Il salotto iniziatico e la corte slombata scivolavano – sciavano – beatamente nel limbo di massa. La pelle diafana e melmosa, la carne dispersa nella zizzania maledetta dal verbo eretico di Valentino …

Sotto il vessillo della promessa libertà l’incontinenza dei miserabili e dei mediocri celebrava la bassa festa dell’abbaglio.

Era sufficiente guardare da destra a sinistra. Nella selva gnostica i distruttori della ragione davano spettacolo senza tregua. Le scene della teologia, della filosofia, della letteratura, del teatro e del cinema erano invase dalla malinconia di settari innumerevoli, che reiteravano la separazione di Gesù Cristo da Dio e di Dio dall’Essere. Le elucubrazioni indiavolate di Léon Bloy imbrattavano le carte della parrocchia evoluta e aperta.

Simeone aveva subito l’irrisione spettante al cacciatore di gnostici, prima che figuranti di conio marcionita affiorassero dal sottosuolo laico per invadere il vespasiano alto e ruggente.

L’inevitabile risultato del “moderno” si rovesciava in una comunella babelica, costituita da filosofi denazificati, cekisti affranti dalla nostalgia del male politico, asceti tantrici adottati dall’Usura bancaria, romanzieri proustiani benedetti dai gesuiti della Gregoriana, imbroglioni plasmati dall’antroposofia svizzera, gimnosofi lodati dalle riviste pornografiche d’area socialista, rosacruciani vezzosamente assisi nelle bacheche della nuova teologia, muratori pitagorici travestiti da fabbricieri di parrocchia, pie zoccole, cartomanti eleusini, spacciatori di mistiche cuccagne, adorabili registi svedesi, canzonettisti con natiche d’alabastro, mirandoline in  corsa su piste di coca.

L’eresia del secondo secolo si riaffacciò in ogni angolo del salotto europeo e della stazione a miracol mostrare, mentre i pastori matti, gridando al lupo consumista, producevano teologie deraglianti e viscidi filosofemi.

Simeone tentò di allontanare l’incubosa visione del vespasiano in trionfo, chiamando il controllore:

“Vorrei cenare, se fossi ancora in tempo. Pensa lei alla prenotazione?”

Fece scivolare un’altra regalia nella mano capziosa. Il controllore intascò, con raggiante prestezza. La nappina stormiva per la voluttà.

“Tra quaranta minuti inizia il secondo turno. Ecco l’attestato della sua prenotazione”.

Il lessico burocratico certificava solennemente la normalità in partenza per la noia borghese. Tavolo sette, posto quattro, comunque.

Nel finestrino obliquo adesso scorreva la città smorta, costruzioni dell’architettura lesta e parsimoniosa, fabbriche fatiscenti, giardini schiacciati dall’automobile di famiglia.

Oleandri cimiciosi, ciliegi infruttiferi, eriche riarse e buganvillee scolorite ornavano le deserte stazioni della periferia. Ecco l’iperuranio socialista in miniatura italiana, disse fra sé Simeone.

Dopo la quarta galleria s’affacciò la scogliera che fu teatro di un’emozione infantile. Le luci del treno scintillavano nella pioggia fitta. I monti a picco sulla riviera erano ebbri di malinconia.

Dalla lontananza della memoria, riapparve un chiaro dicembre. Il sole che tramontava sul giorno breve si specchiò nell’acqua silente. Il mare si rovesciò in un gorgo di luce. Rivisse, quasi nella dolcezza di una convalescenza, lo sgomento che opprimeva il respiro.

“Il sole annega?”

“Non temere, tramonta. Domani rivedremo la sua luce”.

“Mi porti, domani?”

Sul mare cadde allora un mantello di porpora. L’oro della bellezza accennava all’invisibile. Il grigiore della sera svanì nella liquida incandescenza e apparve la meraviglia tra la prima e la seconda navigazione della memoria.

Aprì la borsa da viaggio, ne tolse il pigiama, le pantofole, l’astuccio del rasoio e la custodia del dentifricio.  Poi gettò una sguardo preoccupato sugli appunti per la conferenza intorno al declino della ragione occidentale. Ripassò la scaletta e vide che mancavano alcuni gradini. Forse era necessario aggiungere un pensiero sugli angeli cartesiani, caduti negli ambulacri della tronfia stazione. Chi poteva dirlo? Il deambulare, la girevole deambulanza degli stazionari in qualche modo rappresentava le tarantole – Lutero, Cartesio, Spinoza, Rousseau, Hegel – che hanno morsicato l’Europa moderna,

Per quale altra causa, se non per l’irresistibile attrazione delle origini arcadiche, le magnifiche sorti e progressive sono finite nella solitudine di un binario cieco? Non è forse vero che il bestione comincia dall’angelo mentale? E’ un peccato che i pastori deliziati dall’aura cartesiana non leggano la Scienza nuova

Il  fischio iroso del locomotore lo respinse nel tempo veloce. Dopo la cena, si disse, senza entusiasmo. La notte porta consiglio. A volte. Depose il lacunoso fascicolo sul letto e si incamminò verso la carrozza della ristorazione.

Il continuo scodinzolio del treno alle curve gli procurava un voltastomaco sordo. Fuori piovigginava l’ottobre.

Nel transitare davanti alla cucina, Simeone intravide l’assistente del cuoco. Frenetico e paonazzo, faceva dondolare la mezzaluna sul tagliere. Verosimilmente, sudando, aspergeva gli ingredienti del prelibato soffritto. Una scena astratta dalla corte inglese: la regale Astrea – semen nequitiae – amava molto gli spruzzi di cucina, di parlamento e di patibolo.

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