di Dionisio di Francescantonio
Il settimo è l’ultimo dei sigilli che, secondo l’Apocalisse di Giovanni, impediscono la lettura del libro tenuto in mano da Dio. Solo l’Agnello, ossia il Cristo immolatosi per tutti gli uomini, può dissiggillare il libro strappando l’ultimo sigillo e quindi procedere alla rivelazione finale, quella che permetterà all’uomo di combattere vittoriosamente Satana e il male ch’egli insinua nel suo cuore. Le scene corrispondenti ad ogni apertura di sigillo non costituiscono, perciò, una rivelazione parziale del contenuto del libro, ma la numerazione dei problemi fondamentali che caratterizzano la condizione umana e costringono quindi l’uomo a interrogarsi sul senso della sua presenza nel mondo affinché abbia coscienza della necessità di opporsi all’influenza del maligno.
Il film di Ingmar Bergman s’inserisce, attraverso l’itinerario del cavaliere che torna a casa dopo aver partecipato a una crociata, nello srotolarsi delle pagine che illustrano la miseria umana: la guerra e la violenza (l’inutile crociata da cui il protagonista ritorna deluso e pieno di dubbi sul senso della sua esistenza e quindi su quella di Dio), la malattia e la morte (la peste che miete vittime ad ogni passo), l’adulterio, la fornicazione (la moglie del mugnaio che si fa incantare dall’attore girovago e fugge con lui), la collera (lo scudiero del cavaliere assalito da furia omicida quando incontra colui che l’ha convinto a partire per la crociata e che ora deruba i cadaveri), la superstizione (una fanciulla inerme messa al rogo perché accusata di stregoneria). I due personaggi chiave del film sono il cavaliere, Antonius Blok, credente ma lacerato dal dubbio e dall’angoscia, e lo scudiero Jons, cinico, materialista e beffardo.
Un mattino, appena sveglio, Antonius Blok vede venirgli incontro la morte. E’ venuta per portarlo via, lo segue già da molto tempo. Ma il cavaliere chiede una dilazione, invitando la morte a giocare una partita a scacchi con lui. Sa che essa ama gli scacchi, poiché l’ha visto nelle pitture e l’ha sentito cantare nelle ballate. La morte accetta e la partita ha inizio. Antonius Blok vorrebbe approfittare di quel rinvio per trovare delle risposte ai suoi dubbi, ma sa che non sarà facile. Manifesta tutto il suo tormento quando, all’interno d’una chiesa, si confida ad un uomo celato dietro una grata che crede sia un monaco, mentre è ancora la morte che lo ascolta nascostamente. Egli dice di sé: “Il mio cuore è vuoto come uno specchio che sono costretto a fissare. Mi ci vedo riflesso e provo soltanto disgusto e timore. Per la mia indifferenza verso i miei simili mi sono isolato dalla loro compagnia e non riconosco più né loro né me stesso”. E aggiunge: “Io voglio la conoscenza, non la fede, non supposizioni. Voglio che Dio tenda la sua mano verso di me, che si riveli e mi parli”.
Il silenzio di Dio è per lui angosciante, e altrettanto doloroso è il precipizio d’ombra e d’indifferenza in cui è immerso da tanto tempo, quella cupezza d’animo e quel senso di estraneità che segnano una frattura tra lui e i suoi simili. Un senso di estraneità che si acuisce mentre attraversa e osserva, nel dipanarsi del suo itinerario, le manifestazioni dei drammi e delle tragedie umane: una terrificante processione di pellegrini penitenti che si flagellano invocando il perdono di Dio, mentre un monaco ammonisce con sguardo truce e accento sprezzante tutti coloro che assistono a fare ammenda dei propri peccati, indicandoli quali responsabili della peste mandata dall’ira divina per castigarli; una ragazzina esangue e smarrita che alcuni soldati si accingono a bruciare sul rogo e a cui il cavaliere domanda se ha visto il Diavolo, al quale vorrebbe chiedere di Dio. La ragazza lo invita a fissarla negli occhi per vedere il diavolo, ma il cavaliere le dice che nei suoi occhi vede solo la paura, una vuota e cieca paura, ma nient’altro. Poi le fa bere una pozione che l’aiuti a non sentire il dolore prima che i soldati accendano il fuoco. Ma intanto ha conosciuto la famigliola felice del saltimbanco che ha il dono della visione, presso la quale trova per la prima volta un senso di pace e di benessere (e in questi artefici di quella magia che rappresenta il teatro, primo linguaggio della creazione artistica e antesignano del cinema, Bergman sembra indicare, nella predilezione del cavaliere verso di essi, la felicità che può trovare l’uomo davanti all’atto creativo, quella dell’artista che ritrae la vita e la trasforma in bellezza). Il saltimbanco e la moglie, anch’essa commediante, e il loro figlioletto, per il quale il padre sogna un avvenire luminoso, viaggiano sul loro carro insieme al cavaliere. Durante una sosta, nella quale Antonius Blok prosegue la sua partita a scacchi con la morte, capisce che questa ha deciso di prendersi, assieme a lui, tutti coloro che l’attorniano (viaggiano col cavaliere, oltre al suo scudiero, altri personaggi minori raccolti lungo la strada), quindi anche la famiglia del saltimbanco, ed egli, accortosi che il saltimbanco sta per fuggire col suo carro (questi è riuscito a vedere, lui solo, con chi il cavaliere gioca quella singolare partita che agli altri appare come un suo passatempo solitario), fa cadere abilmente gli scacchi dalla scacchiera, distraendo la morte e impedendole di accorgersi della partenza del carro. In questo modo Antonius Blok si riscatta dal distacco fin lì provato verso i suoi simili; nella buona azione compiuta ha finalmente riconosciuto il volto del suo prossimo e nel prossimo il suo stesso volto. Può quindi accettare serenamente la morte, poiché ha trovato in quell’atto d’amore un riflesso di Dio, dal quale chiedeva invano un segno di riconoscimento. Giunto alfine nel suo castello, dove la moglie lo ha atteso per riceverlo con immutato affetto insieme a tutti i suoi compagni, accoglie la morte in preghiera, quand’essa bussa alla sua porta: “Dall’oscurità che tutti ci attornia mi rivolgo a te, Signore Iddio, abbi misericordia di noi che siamo piccoli, sgomenti e ignari…”.
Il Settimo sigillo avvia, nella filmografia di Bergman, la tematica religiosa che sarà al centro di molte altre sue opere importanti. Quando Antonius Blok dice alla morte: “Voglio che Dio tenda la sua mano verso di me, che si riveli e mi parli”, la morte risponde: “Ma egli tace”, e il cavaliere replica: “Allora la vita è un atroce orrore. Nessuno può vivere in vista della morte, sapendo che tutto è nulla!” Il film è una rappresentazione dello smarrimento dell’uomo davanti al silenzio di Dio. Ma in un mondo degradato dove gli esseri umani non cessano di offendere i propri simili, di mentire e uccidere con estrema leggerezza, diffondendo empietà e dannazione, tra la fede schietta e ingenua del saltimbanco e l’incredulità cinica e brutale dello scudiero Jons (di sè stesso egli dice: “La mia pancetta è tutto il mio mondo, la mia testa la mia eternità, e le mie mani due soli meravigliosi, le mie gambe sono i dannati pendoli del tempo e i miei piedi sporchi sono due splendide basi della mia filosofia”), vi è ancora posto, al di là della credulità e del dubbio, per una fede senza compiacenza, per una fede che, come dice Sant’Agostino, “continua a cercare poiché ha già trovato”. Questo, mi sembra, voglia dirci il film di Bergman, indicandoci, altresì, l’unico atto che può avvicinarci a Dio, quel gesto d’amore che il cavaliere Antonius Blok compie salvando i saltimbanchi dalla falce della morte e grazie al quale trova la pace di chi ha avvertito dentro di sé la presenza e la grazia del Dio di cui dubitava.
Tutto ciò viene restituito da un’opera cinematografica di eccezionale impatto estetico ed emotivo. La potenza drammatica delle sequenze del film di Bergman e le suggestioni evocative delle sue immagini ci coinvolgono e commuovono profondamente. Bergman conferma in quest’opera, girata nel 1958, poco dopo l’uscita de Il posto delle fragole (il film che, vincendo diversi premi internazionali, gli aveva dato la fama internazionale), di essere uno degli artefici più autorevoli e dotati del linguaggio cinematografico dacché esso esiste, capace come pochi altri di usare la luce in modo espressivo, ora producendo un intenso contrasto di bianchi e neri per evidenziare la crudezza o drammaticità di alcune situazioni, ora evocando, con la penombra del crepuscolo o coi grigi delle prime luci del giorno, atmosfere inquietanti e un senso di malessere, riuscendo a coniugare magistralmente il gioco intellettuale dell’allegoria, dei richiami simbolici ai segni dell’Apocalisse e del dubbio esistenziale con una raffinata poesia delle immagini.