di Clemente Sparaco


Nella ricorrenza dei 150 anni dell’Unità d’Italia, si torna a parlare di patria.

Se ne parla in modo del tutto strumentale, per ragioni di circostanza o per fini dettati da ragioni di parte o di partito. Ma parlare di patria in senso culturale, appare oggi fuori dal politicamente corretto, perché la cultura che conta, quella dominante nei circuiti universitari o mass-mediataci, quella che pretende di delimitare i confini di ciò che è legittimo pensare o trattare, giudica tale tema o desueto o provocatorio.

Certi temi sono sensibili. Certe parole poi sembrano cadute in disuso, ma non smettono di essere dirompenti, perché conservano in se stesse un potere rievocativo forte, capace cioè di risuscitare emozioni del passato, sentimenti antichi, ma mai spenti. La storia, infatti, gronda di sangue e la memoria conserva ferite che il tempo non è riuscito a rimarginare.

Il fatto è che l’idea di patria da noi per troppo tempo è stata legata, e forse non poteva essere altrimenti, ad una sconfitta bruciante. La nostra è una patria sconfitta, e di questo per mezzo secolo e più non si è potuto o dovuto parlare. Non è un caso che solo nel 2004 è stata istituita la giornata del ricordo per commemorare le vittime delle foibe dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia e cioè di quelle terre amputate in seguito ai Trattati di pace del 1947.

Si è tentato per molti anni di esorcizzare questo sentimento scaricando tutta la responsabilità della sconfitta sul Fascismo. Contestualmente, la patria, che era stata, a torto, identificata con quello è è stata rimossa dalla memoria collettiva, esclusa dai discorsi che contano, sotterrata nei libri di storia. Un grumo di complessi di colpa, di fallimenti, di sensi di inferiorità, spingevano verso questa congiura del silenzio.

Si è passati a parlare, quindi, di Repubblica, di Costituzione, di democrazia e si sono stabiliti nuove date e nuovi simboli intorno a cui costruire un’appartenenza: la festa della Repubblica (il 2 giugno), la festa della Liberazione (il 25 aprile), mentre anche l’anniversario della vittoria della prima guerra mondiale (il 4 novembre) veniva relegato da festa nazionale a festa delle forze armate. Non è un caso, quindi, che la riesumazione di un’antica ricorrenza, il 17 marzo, anniversario della proclamazione del Regno d’Italia (1861), abbia suscitato insospettate polemiche.

A ben guardare, invece, la patria è qualcosa di molto più radicato dello Stato. Lo Stato ci riporta ad un ordinamento giuridico, ad un’economia, ad un circuito di interessi, ad un territorio. La patria è qualcosa di antico e, di conseguenza, di più stratificato e complesso. Essa ci riporta ad un comune sentire e ad un’appartenenza. Ciò in Italia è doppiamente evidente, perché uno Stato italiano è nato solo 150 anni fa’, mentre una lingua, una cultura, una fede comune, erano non solo già presenti, ma avevano permeato di sé l’intera cultura occidentale. L’Italia, spirito animatore dei fermenti spirituali ed artistici nel Medio Evo e poi del Rinascimento e poi delle grandi creazioni musicali del melodramma del ‘700 e ‘800, in vari passaggi epocali era stato cuore dell’Europa, centro irradiatore di civiltà.

L’arte, la letteratura, la cultura avevano, quindi, unificato l’Italia molto prima della politica e molto più in profondità. Ma prima ancora ad interessare le coscienze di tutti era arrivata la religione. Essa aveva permeato dal di dentro le relazioni significative, primigenie, formative dell’uomo. Aveva strutturato la famiglia e i rapporti fra uomini e donne, fra madre e figli, fra classi diverse etc. e unificato il territorio capillarmente attraverso focolai di civiltà come le Abbazie, le Pievi, o attraverso le forme devozionali, pure nei loro limiti emotivi e superstiziosi. Questo vale per l’Europa tutta, ma per l’Italia di più, perché il cristianesimo, per la presenza del centro stesso della cristianità, ha avuto un ruolo ancora più pervasivo, forse più ingombrante, in ogni caso non cancellabile né trascurabile.

In rapporto a questa storia, tradizione, cultura e religiosità, patria è un sentimento legato ad un’opinione di sé. Quest’opinione di sé per secoli si è legata all’idea del Bel Paese, dell’arte come suo elemento caratterizzante, dei suoi santi, ossia della fede vissuta, e dei navigatori, ossia della dinamicità dei suoi cittadini che avevano seguito nell’800 e nel 900 le rotte transoceaniche in cerca di fortuna.

Oggi quest’opinione di sé è stata legata ai successi dell’Italia del dopoguerra, Paese che ripudia la guerra, come recita la Costituzione, specie, in campo economico, che l’hanno trasformata in grande potenza industriale. Si è imposto il made in Italy, con la moda, con il gusto italiano e i prodotti di eccellenza delle sue industrie manifatturiere. Sullo sfondo è rimasto il complesso di colpa e il senso di inferiorità connesso al ruolo minore in politica estera. Quanto al senso di appartenenza, esso è rimasto radicato, forte, molto più di quanto il politicamente corretto sarebbe disposto a concedere.

patria

PATRIA E PICCOLE PATRIE

Oggi in Italia la patria rinasce secondo modalità che sembrano contraddittorie e paradossali.

Da noi riemergono i localismi, gli attaccamenti al campanile, che sembrano contraddire in prima istanza proprio il concetto di una patria unitaria. Le difese delle piccole patrie si irrigidiscono, per di più, in chiusure ed in intolleranze. Dietro di esse c’è la paura del nuovo come la paura del diverso, ma c’è anche altro, perché i localismi sono, a guardare in filigrana, un modo di insorgenza del patriottico.

La patria italiana è stata sempre multiforme, patria plurale, fatta di fratellanze, non di uniformità. Il federalismo non a caso si era presentato come prima realistica opzione per la risoluzione del problema unitario, poi messo da parte in favore di una soluzione centralistica.

In modo confuso le diverse componenti di questo affascinante puzzle che è l’Italia reagiscono oggi all’omologazione da globalizzazione. Non capirlo è non capire il nuovo, giacché è precisamente ciò che lo sviluppo storico ci porta. Perciò, ogni interpretazione del presente che trascurasse o giudicasse in base a pregiudizi ideologici questi conati, per certi versi, ancora confusi e contraddittori, risulterebbe del tutto inadeguata.

Il moralismo, di cui si riveste tanta lettura da sinistra del fenomeno, nasconde il tentativo di opporsi a questa realtà sulla base di una posizione di vantaggio culturale ereditata dal passato. Esso tuttavia corre il rischio non solo di mancare l’obiettivo, ma anche di estenuare fino a svilire del tutto la stessa idealità su cui fa leva per emettere quel giudizio critico. Si vuole, in altri termini, costringere la realtà all’interno di categorie e schemi che, per essere scollati dagli sviluppi storici, si rivelano logori ed inservibili. Giudicare in nome di assunti precostituiti, pregiudica il giudicante non il giudicato. Imbracare la storia sotto il vestito stretto e costringente dell’ideologia è un tentativo disperato, necessariamente votato alla sconfitta. La storia, alla fine, dirà l’ultima parola, e cioè il movimento reale dei fatti, delle circostanze, delle volontà popolari.

Su un piano di chiuso provincialismo si appiattiscono poi quelle letture che assolutizzano i localismi. Non si può, infatti, non vedere la contraddizione che le affligge nel momento in cui ci si trova costretti a dover affrontare le problematiche di un mondo globale e globalizzato (leggi il fenomeno dell’immigrazione incontrollata e di massa), invocando politiche di controllo nazionali o, addirittura, europee. Anche in questo caso la realtà della storia si prende immediatamente la sua rivincita sulle chiusure pregiudiziali e sulle paralisi dell’egoismo.

D’altra parte concedere o ridare appartenenza e identità ha un alto valore morale. Significa ridare un fulcro morale alla politica, che, altrimenti, si riduce a opportunismi, tatticismi, perseguimento di interessi immediati e deteriori. Significa ridare respiro a ciò che è il tessuto connettivo dello Stato, rivitalizzare il bene comune. Essa, l’appartenenza, non comporta, come ci si ostina a dire, immediatamente intolleranza, rifiuto del diverso etnicamente e culturalmente. Può anche tradursi in questo, ma ciò avviene specie quando, incompresa, si incancrenisce e si svia.

In realtà, non ci può essere apertura al diverso, laddove si è smarrita l’identità, perché il non sapere chi si è non aiuta il confronto con gli altri né, tanto meno, il dialogo. Inoltre, nei fondamenti ultimi, legati alla sua origine, l’identità italiana non è esclusione o preclusione, ma fratellanza, solidarietà. La patria è, in profondità, non un modo individuale di sentire l’appartenenza, questo è caratteristico del liberalismo e in buona misura dell’illuminismo, ma un modo di porsi in relazioni con gli altri. La nostra patria divisa è nata dalla relazione fra i suoi corpi diversi, dalla composizione di diversità, a volte anche molto distanti. Ma tutto questo è potuto avvenire intorno ad alcuni valori condivisi, valori non intellettualistici, ma spirituali, capaci, quindi, di permeare le coscienze e le esistenze.

Il vuoto di questi valori corre senz’altro il rischio di allentare i vincoli unitari ed insieme di rinserrare in un rapporto esclusivo ed esclusivista il sentimento di identità. Il vuoto di questi valori ci espone al rischio, comune all’Europa tutta, di attacchi concentrici alla nostra identità che provengono ora da un’immigrazione incontrollata ed incontrollabile, ora dall’invadenza economica e concorrenza di nuovi protagonisti della politica ed economia mondiale che minacciano sempre più prepotentemente anche le nostre conquiste sul piano economico (la Cina in particolare).

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