PREMESSA
Riscossa Cristiana ha l’onore di ospitare un dialogo a distanza tra due eminenti teologi. Padre Giovanni Cavalcoli e Padre Serafino Lanzetta si confrontano sull’argomento delicato e attuale del Concilio Vaticano II. Il primo intervento che abbiamo pubblicato è di P. Lanzetta, che ha recensito il Convegno sul Vaticano II, tenuto dai Francescani dell’Immacolata. E’ seguita la lettera di Padre Cavalcoli a Padre Lanzetta. Ora pubblichiamo questo testo di Padre Lanzetta. A entrambi vogliamo esprimere la nostra gratitudine, per la preziosa opera di ricerca e di approfondimento su un tema che coinvolge tutti i cattolici.
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in risposta a Padre Giovanni Cavalcoli
di P. Serafino Lanzetta
Carissimo P. Giovanni,
la ringrazio per la lettera aperta che ha voluto indirizzarmi, la quale mi dà modo di approfondire i temi a cui allude e di spiegarmi meglio. Non dico che la rottura è stata causata dal Concilio: per sé il Vaticano II non può causare la rottura e la continuità allo stesso tempo, «per la contraddizion che nol consente». Dico che alcuni teologi hanno letto i testi come rottura e altri nella continuità. Questo evidenzia due cose: 1) che si danno due letture teologiche del Concilio (contraddittorie) per il fatto che i testi si lasciano leggere in modo duplice, dato il loro tenore fontalmente pastorale e non definitorio; 2) questo richiede, pertanto, un criterio ermeneutico a priori corretto per leggere, di conseguenza, correttamente il Concilio: questo criterio è la Tradizione ininterrotta della Chiesa. Quando viene espunta la Tradizione si verifica la rottura. Porto un esempio recente. Il padre Paolo Cortesi, missionario passionista in Bulgaria, esultava sul suo blog (cf. http://cosebulgare.blogspot.com/2010/12/e-arrivato-il-vaticano-ii-finalmente.html), perché finalmente era giunta in Bulgaria la traduzione dei documenti del Vaticano II. E fin qui tutto bene. Ma, il motivo vero della sua esultanza, consisteva nel fatto che, dopo l’affaccendarsi critico-conservatore di chi pretende di buttare il Concilio nel Tevere (forse si riferisce a noi), in Bulgaria invece era arrivato il vero Concilio. Dopo aver ricordato che il Vaticano II è un dono dello Spirito Santo, il padre passionista si attesta sulle sue peculiarità: «Il Concilio ci educa ad essere non una Chiesa padrona e paladina della verità, ma un Popolo di Dio che cammina nella storia insieme a tutta l’umanità». «Il Concilio ci insegna che la liturgia non è assistere alla ripetizione sacrale dei gesti che compie la casta sacerdotale, ma la celebrazione della salvezza da parte di tutto il Popolo di Dio». «L’ecumenismo non è ricondurre all’obbedienza pontificia i disgraziati scismatici, ma la ricerca di comunione da parte di tutti i cristiani». Infine, ci vien ricordato che il Concilio ha scoperto la Parola di Dio. E tutto quello che la Chiesa era prima? La sua dottrina, la sua vita? Il Vaticano II sarebbe, in realtà, il vero volta-pagina. Qui si vede – è un esempio tra tanti – che una carenza spaventosa del concetto di Traditio Ecclesiae, fa scadere in una visione stranamente dogmatista del Vaticano II. Eppure quegli ambiti rammentati dal padre Cortesi sono quelli che oggi maggiormente soffrono a causa della secolarizzazione.
Ma veniamo nuovamente a noi. Il nostro convegno si è attestato non sulla verifica delle nuove dottrine del Vaticano II, ma su un approccio (iniziale e a modo di status quaestionis) di tipo storico filosofico teologico. Quello teologico lo si potrebbe definire “fondamentale”, volto a verificare la natura del Concilio e vederla riflessa nei vari documenti (non in tutti ma nei principali), che sono 16 e sappiamo esser divisi in Costituzioni (di cui solo due godono dell’appellativo “dogmatiche” e presentano un insegnamento dottrinale: Lumen gentium e Dei Verbum), Decreti e Dichiarazioni, con accenti e per un esercizio eminentemente pastorali. C’è una cosa comunque che unisce la diversa tipologia magisteriale del Vaticano II (diversa già in ragione di una distinzione tripartita che compare in questo modo solo nel Vaticano II), ed è il tenore dei documenti: un tenore fontalmente pastorale, di annuncio della fede e non di una sua definizione, che esprime così il fine stesso del Concilio. Così volle Giovanni XXIII, così confermò Paolo VI.
Da quanto lei dice, emerge un dato fondamentale, che è il problema-chiave del Vaticano II: qual è l’esercizio magisteriale (complessivo) del Concilio? Lei vede il Vaticano II come un unicum, giustamente, perché un concilio, ma, a mio modo di vedere, si spinge più in là del concilio, quando entra in merito all’infallibilità, non distinguendo nel tutto le sue parti, ovvero i diversi livelli magisteriali del Concilio (stabiliti egregiamente da Gherardini).
Mi spiego riassumendo schematicamente lo status quaestionis sull’esercizio magisteriale del Vaticano II, riconducibile a 5 posizioni teologiche: 1) esercizio del magistero straordinario solenne; 2) esercizio del magistero ordinario universale; 3) esercizio del magistero autentico; 4) esercizio di un magistero omiletico; 5) esercizio di un magistero differenziato. Tra questi teologi ve sono anche alcuni insospettabili di conservatorismo o di tradizionalismo (cf. F. Kolfhaus, Pastorale Lehrverkündigung – Grundmotiv des Zweiten Vatikanischen Konzils. Untersuchungen zu “Unitatis Redintegratio”, Dignitatis Humanae” und “Nostra Aetate” [tesi dottorale presso l’Università Gregoriana], Lit, Berlin 2010, pp. 23-34).
Fin qui la teologia, che verifica, pur con accenti diversi, un magistero sì solenne (quanto alla forma) ma ordinario (quanto al normale esercizio). Il Magistero stesso, specialmente nella persona di Paolo VI, ha riassunto l’intera portata magisteriale del Vaticano II, definendolo magistero ordinario autentico (cf. Allocuzione del 7 dicembre 1965 e Udienza Generale del 12 gennaio 1966). Ora, il magistero ordinario non è infallibile perché è magistero, sia pur di un concilio, ma solo quando è reiterato e quando appura la definitività di una dottrina di fede o di morale, anche se non definita ma definitiva. L’infallibilità nel Vaticano II è solo di riflesso rispetto a precedenti definizioni dogmatiche o a dottrine definitive; questa infallibilità, sussiste poi solo in alcune dottrine ma non nel Concilio in quanto tale, altrimenti sarebbe stata inutile la precisazione del Segretariato del Concilio per la giusta lettura di Lumen gentium, posta come Nota previa. Riporto i due punti salienti di detta nota che ci riguardano: «Tenuto conto dell’uso conciliare e del fine pastorale del presente Concilio, questo definisce come obbliganti per tutta la Chiesa i soli punti concernenti la fede o i costumi, che esso stesso abbia apertamente dichiarato come tali. Le altre cose che il Concilio propone, in quanto dottrina del magistero supremo della Chiesa, tutti e singoli i fedeli devono accettarle e tenerle secondo lo spirito dello stesso Concilio, il quale risulta sia dalla materia trattata, sia dalla maniera in cui si esprime, conforme alle norme d’interpretazione teologica» (AAS 77/1 [1965] 72).
L’infallibilità si rivela solo nel magistero obbligante tutta la Chiesa, che richiede un atto di fede teologale, in ragione appunto della irreformabilità della dottrina. Per le altre dottrine bisogna tener conto dello spirito (della natura e del fine) del Concilio, e vedere in unità la materia trattata e il modo di esprimersi. Credo sia fuori luogo attribuire sic et simpliciter la definizione di infallibile alle diverse dottrine/insegnamenti del Concilio. Il magistero ordinario perché autentico però rimane vincolante e richiede l’ossequio dell’intelletto e della volontà, pur essendo soggetto ad eventuali revisioni con l’ausilio della teologia, in ragione di una comprensione accresciuta dei dati (si veda su questo il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, Donum veritatis, del 24 maggio 1990, nn. 22-24).
Dire comunque che il Vaticano II ha una natura pastorale non è squalificare il Concilio e non significa non riconoscere i suoi insegnamenti dogmatici, ma prevenire un abbaglio, oggi diffuso sia tra i progressisti che tra i tradizionalisti, che porta a leggere il Vaticano II alla stregua del Concilio di Trento o del Vaticano I. Non ci si accorge della peculiarità del Vaticano II, ovvero della sua natura, del suo fine e del diverso tenore magisteriale dei suo documenti, e si finisce col dogmatizzare tutti i suoi insegnamenti. Questo però è fatale: così, o si fa iniziare la Chiesa dal Vaticano II o si cestina il Vaticano II per far vivere la Chiesa. Il problema rimane fino a quando non ci si decide a tralasciare questa ermeneutica rigidamente tradizionale di approccio al Vaticano II, iniziando a vedere che il nostro concilio è sui generis: inaugura un “nuovo” modo di insegnare e di esser concilio per la Chiesa, modo che darà un’impronta caratteristica al post-concilio: una scelta più pastorale per dire la dottrina di fede della Chiesa. È su questo che ci dobbiamo interrogare.
E vengo così ad un ultimo punto, alle novità dottrinali di cui parla. Non sono d’accordo sul fatto che le novità in quanto tali farebbero avanzare la Tradizione. Semmai la comprensione della fede su un piano teologico, ma per il progresso dogmatico è necessaria la definitività della dottrina. Qui leggo un dato simile all’infallibilità: per lei le novità dottrinali sono per sé un avanzamento della Tradizione e pertanto bisogna collocarsi ora dopo di esse per riconoscere la Tradizione nel suo stadio avanzato in ragione del Concilio. Sembra allora che la verifica delle innovazioni non serva o che, se occorra, si pregiudichi la bontà del Concilio. E questo per il fatto che le innovazioni sarebbero infallibili.
Invece, a mio modesto giudizio, bisogna collocarsi anche qui su un piano diverso. Non sono le innovazioni che, in quanto tali, fanno avanzare la Tradizione. È piuttosto la Tradizione, che progredendo in ragione del nuovo, in uno sviluppo omogeneo, dà alle cose nuove lo statuto teologico di dottrine o di insegnamenti, in ragione di quanto detto poc’anzi in riferimento al magistero, statuto che può ascendere fino al grado ultimo di irreformabilità. È la Tradizione ovvero la Chiesa-mistero, che accoglie le innovazioni ma al contempo le precede nel suo esserci già, a livello ontologico e cronologico. Questo può apparire un pensiero fissista, ma è quanto dire: c’è prima la Chiesa e poi la sua comprensione, prima Dio e poi l’uomo. Non è per il fatto che siamo di fronte ad un assise conciliare insegnante in modo solenne che avanza necessariamente la Tradizione. Questo certo lo impariamo col Vaticano II, ma neppur possiamo troppo esulare questo concilio dalla tradizione storica dei concili ecumenici. Infatti, anche il Concilio di Pavia-Siena (1423-1424), non definì alcun dogma ma emanò solo pochi decreti disciplinari. Non di meno però è un concilio ecumenico (difeso dal Card. Brandmüller), ma non per questo si può definire infallibile.
È proprio sul concetto di infallibilità da lei esposto che non mi ritrovo. Lei dice che per avere l’infallibilità «basta semplicemente l’enunciato dottrinale in materia di fede del Magistero della Chiesa, specie poi se si tratta del Magistero solenne di un Concilio Ecumenico». Allora dovremmo anche dire che, ad esempio, Presbiterorum ordinis insegna in modo infallibile, mentre, in verità al n. 16 c’è una svista storica notevole: sembra che non conosca il dato antichissimo “continenza-celibato”, e mette sullo stesso piano la tradizione latina e la deroga al celibato per i presbiteri della Chiesa greca, deroga nata dopo il trullano, ma in seguito ad un vero imbroglio. Ormai la ricerca storico-teologica è progredita e si dovrebbe provvedere a perfezionare questo passaggio. Faccio anche un esempio al contrario: se Sacrosanctum concilium fosse infallibile, l’attuazione della riforma liturgica, avvenuta spesso e con facilità in deroga allo ius divinum della liturgia, e andando molto al di là di quanto previsto da detta costituzione, sarebbe un’eresia. Si potrebbe dire questo? No, per il fatto che Sacrosanctum concilium non è infallibile ma è una costituzione con una natura pastorale, che apre ai possibili adattamenti.
Lei cita poi la Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, definendolo un testo infallibile, dunque dottrinale. Invece, si tratta di in testo che non è né dogmatico né disciplinare, ma contiene norme pratiche di comportamento in materia di libertà religiosa. Questa dichiarazione vuole dare delle norme pratiche e non intende affatto allontanarsi dalla dottrina cattolica sulla libertà religiosa (cf. AS IV/1, 433). Gli abusi, spesso, hanno fatto leva proprio sulla sua infallibilità per accentuare il concetto di libertà religiosa soggettiva, fino a scadere in un relativismo religioso, contro il perenne insegnamento della Chiesa circa il dovere morale di riconoscere la verità e di professarla solo nella Persona del Verbo incarnato. Certo, la libertà religiosa di cui parla il Vaticano II è uno sviluppo del concetto stesso di libertà, che tiene conto del dato della modernità, ma non esaurisce il contenuto della dottrina classica: è un di più, che però necessita della Tradizione per essere compreso, dato il suo fine volto al dialogo con gli uomini.
Vedo una certa frizione tra dottrina e prassi in materia di libertà religiosa, proprio nella sua esecuzione pastorale di Assisi. Non si può dire che Assisi cambia la dottrina della Chiesa in materia di libertà religiosa. Assolutamente no. Ma è una scelta pastorale che deriva dal Vaticano II, da questa dichiarazione e soprattutto da Nostra aetate, per affermare il rispetto e la verità della libertà religiosa di ogni uomo. Al contempo però questa adunanza porta in sé un dato dottrinale: qual è la vera religione? La pastorale che è il fine di Assisi e della Diginitatis humanae, qui, come sempre, incontra la dogmatica: solo Cristo è la verità. Come coniugarle? Il Vaticano II non ce lo dice, ma lascia spazio ad interventi successivi. Il Pontefice opta ora di nuovo per Assisi, pur conscio delle notevoli problematiche sincretiste che ad esso furono connesse in ragione dello “spirito d’Assisi”, da lui denunciato perché funesto quanto lo “spirito del Concilio”. Nessun però potrebbe dire che Assisi cambia la fede della Chiesa nella verità di Cristo unico Salvatore. Se Dignitatis humanae fosse infallibile non si avrebbe neanche più una certa libertà nella sua attuazione pastorale, il cui giudizio prudenziale spetta al magistero.
In questa tensione tra dogmatica e pastorale nel Concilio, si nasconde, a mio modo di vedere, tutto il problema ermeneutico del Vaticano II. Io per infallibile intendo non-fallibile, irreformabile: allora ben poche sono le dottrine che si possono dire tali.
Direi allora che bisognerebbe leggere “infallibile” nel senso più rigoroso e classico della teologia, mentre il Concilio Vaticano II, quale unicum magisteriale, in modo più flessibile ed articolato, distinguendo i diversi piani, in ragione del progresso teologico verificatosi grazie allo stesso Vaticano II. Gli atti del nostro convegno, che pubblicheremo, ci aiuteranno sicuramente per un discorso più accurato.
Le rinnovo i sensi di stima ed amicizia nei nostri Santi Padri Francesco e Domenico
p. Serafino M. Lanzetta, FI
Firenze, 16 gennaio 2011