Quer pasticciaccio brutto de San Lorenzo. Dove governano le metastasi del mondialismo – di Baldr da Thule

 

Ti hanno detto che si vive per lavorare, per i contributi, per la pensione. Ti hanno detto che devi avere le cuffie per la musica, che il centro commerciale è il futuro, che devi pensare al colore del divano. A pensarci, è quasi un miracolo che in tutto questo caos desertissimo ci si sia trovati. Che in questo mondo di notifiche e di spunte blu tu esista davvero. E che a qualcuno importi. Che a me importi.

Tu guidi e non è notte, né mattino. Immune alle battaglie del nostro tempo, alle grandi maree che hanno distrutto il negozietto all’angolo della tua via, dove ora c’è l’outlet cinese. Alle devastazioni che hanno ucciso il calzolaio e lo hanno sostituito con il centro massaggi. Alle miracolose disgrazie che ti hanno rubato una cena sul mare e te l’hanno sostituita con una notte in motel.

Ti prego, non sparire nel mare del nostro tempo: che tu non sia come fumo tra le dita dei comignoli, nel mattino. Perché io non dimentichi, perché tu sia ancora l’ultima delle donne della nostra specie. Tu guidi, ancora non si può indovinare il colore dei tuoi occhi. Mi piace pensare che, un giorno, il mondo tornerà ad essere come te.

J. du Lys, All’ultima ragazza italiana

 

 Stendiamo un velo pietoso sui recenti fatti di San Lorenzo, e soprattutto sul nome e sulla vicenda della vittima – che non menzioneremo, per quel pudore oggi obliato dalla chiacchiera e dall’equivoco, su cui la macchina massmediatica (potenza dell’immagine e della parola, spesso falsa, che però, iterata all’infinito, diviene dogma inerziale) fonda la sua ubiqua potenza. Per la ragazza, una prece incrinata da sgomento misto a rabbia; da cristiani dovremmo, certo, anche pregare per i suoi carnefici, ma – detto fuor di ogni ipocrisia –, prima ci auguriamo di tutto cuore che essi siano assicurati ad una giustizia intransigente, ferrea come le sbarre di un carcere di massima sicurezza: in Italia si tratta, lo riconosciamo senza problemi, di una utopia da anime candide, quali siamo. Del trittico messianico-globalista salvezza in mare/accoglienza in terra/inclusione-integrazione nei cieli della società multiculturale (in realtà, tendenzialmente monoculturale, ossia meticcia), e delle relative acrobazie sentimentali di rito, officiate dai noti, prezzolati sacristi della dissoluzione, francamente, ce ne freghiamo.

Concentriamoci, allora, per un momento, su ciò che è stato e ha significato il quartiere, per Roma, anche in tempi tragici, ma ancora caratterizzati da un fondo veracemente popolare: mentre oggigiorno le pose farsesche sino all’estenuazione di un carnevale sempiterno, spesso, si intrecciano con l’orrore ributtante della cronaca, rielaborata (a volte reinventata) ad usum delphini dai molteplici gazzettieri mondialisti.

La zona in questione fu urbanizzata a partire dall’ultimo quindicennio dell’Ottocento. Primi abitanti furono operai, artigiani, ferrovieri: gente certamente ben più degna dei sindacati e dei partiti che spesso ne hanno tradito la teorica rappresentanza. Molti sono i monumenti e i siti di rilievo. Il Cimitero del Verano, con la basilica di San Lorenzo fuori le Mura (eretta da Costantino nel IV secolo sulla tomba del martire Lorenzo, uno dei sette diaconi di Roma, martirizzato nel 258, sotto Diocleziano, e la leggenda lo vede invitare i suoi carnefici a bruciare con maggior zelo le sue carni, su di una graticola); la basilica, da cui si diparte la via Tiburtina, ospita anche le spoglie del protomartire Santo Stefano. Poi ci sono la Porta Tiburtina e le Mura Aureliane; la piazza dell’Immacolata, con la sua aura di villaggio (oggi globale, tra sbandati di ogni risma e spacciatori africani alla luce del sole) e la chiesa cui si dirige la processione dell’8 dicembre; Villa Mercede; la Città Universitaria e la sua profluvie di intellettualoidi e artistoidi di regime: voluta da Mussolini (ma guarda un po’) ed eretta su progetto di Piacentini a partire dal 1933. Adiacenti, la Stazione Termini – altro luogo par excellence di finissimi bagordi mondialisti – e Porta Maggiore (l’antica “Porta Praenestina”).

Il quartiere conta circa 9000 abitanti: è di modesta estensione (0,50 km2), se paragonato a moloch romani quali Montesacro o Marconi. I nomi delle vie, che fanno riferimento ad antichi popoli italici, mal si conciliano con le fetide atmosfere del luogo. Il rione fu, tra l’altro, l’unico in cui ci si oppose alla tonitruante Marcia su Roma. Il 19 luglio del 1943 fu bombardato, forse per involontaria nemesi storica, dall’amico americano: 3000 morti e 11000 feriti in un attimo, con il lancio di 4000 bombe per colpire lo scalo merci (con i soliti, kafkiani “effetti collaterali”, mai condannati da nessun giudice in nessuna Norimberga), di cui Paolo Guzzanti ha reso grazie, in una delle sue innumerevoli contumelie senza vergogna, con supremo sprezzo del ridicolo (lui era, bambino, sotto i bombardamenti: ma già allora, così scrisse, sentiva di essere un alleato in potenza). Pio XII, in una storica, commovente visita al popolo di San Lorenzo appena devastato dai liberatori calvinisti col grembiule (che riportarono in Italia mafia e massoneria, tra le altre cosette), abbracciò la povera gente del quartiere, formando col suo corpo una croce umana di rara intensità e solennità. Pochi giorni dopo, il Gran Consiglio del Fascismo sfiduciava Mussolini. L’Italia era morta e sepolta, e gli ultimi veri uomini combattevano, per l’onore, conoscendo bene quale sarebbe stato l’esito della tenzone: la sconfitta e, per molti di loro, la morte (a volte anche dopo la fine della guerra, per gentile concessione degli alleati, col partigianume esecutore di una ingiustificata, abominevole, sommamente vile vendetta). L’8 settembre tutti gli altri divennero, come per magia, antifascisti: anche il popolo italiano, in certa misura, era morto.

 

 

 

 

Qualche nota personale. Noi abbiamo frequentato San Lorenzo in particolare tra gli anni 1990-2010 (quando avevamo circa 14 anni, nel 1990, andavamo in pellegrinaggio con gli amici da “Disfunzioni Musicali”, mitico negozio di cd ove si poteva raccattare il primo dell’inconcludente guitar hero Jimi Hendrix a sole 300.000 lire); ed esso, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni ‘90, era già divenuto una fogna a cielo aperto (non solo dal punto di vista igienico). A volte ci torniamo, per nostalgia, e per cercare di capacitarci di come sia possibile che dei giovani possano sborsare mensilmente fino a 600 euro per una stanza singola (più spese) per vivere in questo tugurio, col rischio di non dormire mai: “sui giovani d’oggi ci scatarro su”, cantavano gli Afterhours già nel 1997; figuriamoci cosa farebbero oggi, con virgulti mondialisti tutti intenti ad officiare la angosciosa ritualità della connessione eterna, infallibilmente dotati di molteplici appendici del corpo quali gli “smartphone” con le loro “app” e navigatori che complicano la vita, e diavolerie varie. Unico tratto che ci ha sempre commosso del quartiere, oltre alla Piazza dell’Immacolata (ma quando è vuota, ossia mai), sono le sue case a ballatoio, affini a quelli della Torino operaia e ben descritti in certa cinematografia neorealista (“Poveri ma belli”, oltre al capolavoro del detestabile Monicelli, “I soliti ignoti”). D’altra parte, si può dire che lo studentame di sinistra prima, spalleggiato da vari artistoidi, politicanti e perdigiorno di regime, e le bande di negri poi, hanno dissolto l’anima popolare – pure ab origine vittima delle fumisterie marxiste – del quartiere: oggi, lo si può dire senza tema di smentita, la San Lorenzo di un tempo non c’è più, da tempo.

Insipidi negozietti etnico-biologici gestiti da connazionali mondialisti o da “risorse” più o meno irregolari, librerie e caffè letterari ove il solo nominare un autore tedesco della rivoluzione conservatrice potrebbe scatenare un parapiglia gnostico, e l’infinita pletora di ristorantini, pizzerie, pub e ristopub ove prima si pasteggia a triviali apericene, poi ci si ubriaca senza posa ed infine si devasta il quartiere, non facendo riposare per anni gli sventurati residenti, completano un quadretto da apocalisse meticcia. La polizia, nella migliore delle ipotesi, giunge su segnalazione degli abitanti perennemente insonni per colpa altrui, e poi torna in questura senza aver potuto nulla: come il ministro degli Interni, che non ha voluto sfidare la criminosa protervia dei centri sociali, probabilmente per ragioni di opportunità (che non condividiamo per nulla, anche se cerchiamo di capire), in occasione di una recente visita, doverosa visti i noti fatti occorsi.

I centri sociali. Questa informe, lasciva stampella del sistema costituisce l’estrema, rocambolesca propaggine del capitalesimo, quale forma teologica del capitalismo, che sostituisce il Dio cristiano col Dio massonico nella sua espressione “economicistica” (calvinista): il libero mercato, ossia la giungla della contrattazione che reifica l’uomo, con la sua “mano invisibile” che non è altro che il caos voluto e perpetrato da un demiurgo gnostico amante dell’usura e ricompensante l’usuraio, a lui devotamente prono. Liberalismo (liberismo) e libertinismo (libertarismo), d’altra parte, sono fratelli di sangue, quasi gemelli siamesi, dal punto di vista storico-teoretico. Si può quindi dire che gli esponenti dei centri sociali sono al tempo stesso inconsapevoli, miserabili teologi della poltiglia globalista e come i buffoni di corte – tanto imbelli quanto ributtanti, anche fisicamente – delle élites che essi dicono di combattere: ma che in realtà servono con le loro sentimentali, inani corbellerie da circo Barnum. Essi amano i cdd. “migranti” come il letale Pasolini amava le borgate: come una merce (G. Collu).

Altre vie della dissoluzione. La facoltà di psicologia (che è stata intronizzata su di una antica birreria, significativamente) e il dipartimento di neuropsichiatria infantile sono lì, in quel porto franco che sta tra la tangenziale e la Tiburtina: una alienante terra di nessuno, ove oggi stesso un negro ci scrutava, senza motivo, torvo. In questo sguardo, da noi contraccambiato, abbiamo colto tutto il risentimento che l’africano nutre, in genere, nei confronti dell’europeo: che è una mistura micidiale di dabbenaggine e di caotico rancore, alimentato dalla manovalanza del variopinto (ma teoreticamente ed eticamente nullo) associazionismo immigrazionista e dalle sue fole anticoloniali (sempre a combattere, come i folli, contro i fantasmi). La Via dei Lucani, che costeggia lo scalo ed è all’ombra della stessa tangenziale, è da un lato un’accozzaglia di palazzoni senza nerbo (mentre ricordiamo con piacere lo stabile d’angolo, su Via di Porta Tiburtina, da cui usciva triste la splendida Alida Valli, in un film a episodi dei primi anni ’50), dall’altro una serie di sfasciacarrozze, caravanserragli ed edifici abbandonati all’incuria – come colpiti da un’apocalisse atomica –: ove torme di allogeni senza arte né parte, spesso come danzanti sulle macerie in compagnia dei loro estimatori, i sicofanti della sinistra libertaria, fanno il bello (si fa per dire) e il cattivo tempo, accomodandosi in un mefitico salotto a cielo aperto che pare sia di loro gradimento. Una baraonda costruita sul nulla: il caos realizzato in terra, secondo i dettami dello straccione Hakim Bey (anarchico e teorizzatore delle cdd. “zone temporaneamente autonome”, da cui tutta la mandria di movimenti “autonomisti” in senso politico e, più modestamente, il pretesto per fare sega a scuola): in ultima analisi, il grottesco rivolo di bava del capitalesimo.

 

 

 

 

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