di Alfonso Indelicato
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Fanno sempre così. Bussano di mattina presto, anche se non proprio all’alba come nei film.
Apri la porta di casa e te lo trovi davanti. E’ quasi sempre un africano o un cingalese, con la divisa arancione, le mani guantate e il bastone con la pinza brandito come una picca. Il Comune li ha arruolati in massa l’anno passato nei lavori socialmente utili: si può credere che svolgano i loro compiti con dedizione pari alla gratitudine per chi, regalandogli quella divisa, li ha rivestiti di autorità. Quello di stamattina era un nero corpulento dall’aspetto assai poco incline ai compromessi.
– Ispezione ecologica – mi dice con voce gutturale, come se non avessi capito da solo perché era lì. E mi entra in casa a passo deciso prima che io gli dica “avanti”.
I miei quattro bidoncini di diverso colore sono in fila in cucina: carta, plastica, vetro, residuo. Ci penso su e il testimonio consolante della mia coscienza (questa espressione l’ho letta su qualche antico romanzo, ma non mi ricordo quale) mi assicura che non ho sgarrato.
Ora, io so bene che il regolamento comunale li autorizza a farlo, ma e’ proprio necessario che rovescino il contenuto dei bidoncini sul pavimento? Non potrebbero limitarsi a rovistarvi dentro col loro bastone?
Fatto sta che le piastrelle della cucina erano ora coperte di uno strato variopinto di pallottole di carta, lembi di Scottex, scatole di cartone fatte coscienziosamente a striscioline secondo dettami dell’assessorato.
Ed io (lo confesso: quanta strada ho da fare ancora per liberarmi dai pregiudizi, quante “incrostazioni” ho dentro di me) io mi sono sorpreso a chiedermi che diritto avesse mai quell’uomo di venire qui dal suo paese lontano tremila chilometri a lordare il pavimento della mia cucina e a sindacare sul mio modo di dividere la spazzatura. Mah! Guarirò mai dalle mie idiosincrasie, dai miei risentimenti?
Improvvisamente la punta del bastone prese a indugiare in un punto preciso, saggiando qualcosa sotto un monticello di carta. La sentinella dell’ecologia tirò il grilletto presso l’impugnatura e le pinze all’altra estremità si strinsero.
– Aha!- esclamò soddisfatto sollevando il bastone e mettendomene l’estremità sotto il naso. – Cosa e’ questo?-
Un tappo.
Il maledetto tappo era stretto fra le pinze. L’omone aggrottava le sopracciglia, pronto al rimprovero villano. Ma la notte prima i cingalesi della casa di fronte, di là dal cavedio, non avevano schiamazzato, forse recatisi in visita a parenti stanziati altrove. Insomma avevo dormito. La mente era lucida, la risposta pronta.
– E allora, fratello? Il tappo e’ fatto di sughero, che e’ una sostanza affine alla carta. – E così parlando l’ osservavo con un mite sorriso appiccicato alle labbra. Tutta la mia benevolenza di occidentale pentito, conscio delle proprie colpe storiche nei confronti del terzo mondo, era concentrata in quel sorriso.
Il gigante nero mi osservava ora in silenzio, cupamente. Il suo sguardo sotto le arcate sporgenti e glabre sembrava provenire da un antro buio. Dapprima lessi in quello sguardo lo stupore, poi l’incertezza, poi una silente ma rabbiosa ostilità. Quali barlumi di pensieri stavano attraversando la sua mente lontana e impenetrabile?
– Tappo e’ plastica. Hai gettato in bidone sbagliato. Tu te ne freghi dove getti immondizia. Faccio verbale. – disse infine.
– Questo tappo e’ di sughero – replicai con lo stesso amabile tono di prima – guarda come e’ morbido.- e così dicendo strinsi fra il pollice e l’indice il tappo ancora sospeso sotto il mio naso, sbriciolandone facilmente un’ estremità.
Il ciclope continuava a fissarmi. Era lo sguardo indecifrabile di un altro mondo. Poteva fra un momento parlarmi tranquillamente, o di colpo cercare di strangolarmi con le mani grosse e nocchiute. E forse, per lui, non avrebbe fatto molta differenza.
– Comunque sia, e’ tappo. Dunque tu bevi vino! – Era un’affermazione, non una domanda. Ed era anche, lo capivo bene, un puerile tentativo di spostare la diatriba su un terreno a lui favorevole.
A proposito, chi ha detto che solo il vino bianco va bevuto freddo? In effetti la sera prima avevo centellinato mezza bottiglia di Gutturnio fresco di frigo prima di andare a letto. Nel caldo della sera agostana. In una fortunosa quiete non turbata dai cingalesi in visita ai parenti. Protetto dalle vispe zanzare milanesi dalla zanzariera sospesa alla finestra, solitario e meditabondo, immerso in un dolce appannato nirvana, seduto sulla poltroncina di pelle verdone unico orgoglio del mio spoglio salottino… Poi, forse un po’ intontito, avevo gettato il tappo nel bidone sbagliato, prima di andare a letto.
– Io mussulmano. –
– Immaginavo.
– Io non piace chi beve vino. Questo tappo offende me. –
Tante possibili risposte mi scottarono le labbra, ma mi contenni senza troppa difficoltà.
– Amico – risposi ilare e tranquillo,- credo che il tuo compito qui e ora sia quello di controllare come io distribuisco l’immondizia. Non e’ ancora vietato, almeno mi pare, bere del vino a casa propria. Non mi risultano, te lo dico col più grande rispetto per la tua religione, ordinanze del comune in proposito. Forse sarebbero giuste. Forse le emaneranno. Forse sono imminenti. Per ora, però, non ci sono. –
Perfetto. Un libro stampato. Cortese, ma preciso e puntuale.
Il milite dell’ecologia continuava a fissarmi. Ma mi pareva, ora, che in luogo dell’ostilità improvviso balenasse nei suoi occhi come un lampo di compiaciuta furbizia. Lo sguardo di chi ha in mano un tris di assi e sta per gettarlo sul tavolo per la costernazione degli altri giocatori.
Improvvisamente, infilata una manona guantata nella tasca della casacca arancione, ne trasse un lucido cilindretto color rosso vivo e me lo mise davanti agli occhi. Poi prese a farlo oscillare lievemente, mentre un sorriso di scherno gli increspava le labbrone.
Era una batteria Varta a carica lunga.
Capii il messaggio senza bisogno di parole. Se mi fossi intestardito nella mia autodifesa, egli avrebbe sostenuto di averla trovata nel bidone della carta, o in uno qualsiasi degli altri tre. Ed essendo una batteria un “rifiuto speciale” il mio tentativo di smaltirlo per le vie normali non avrebbe comportato solo una multa (come nel caso del tappo) ma una “pena detentiva di mesi tre” a norma di codice penale. L’africano davanti a me rideva ora senza ritegno.
Non c’era in quel momento chi potesse testimoniare a mio favore. Se fossi uscito sul pianerottolo per chiedere la testimonianza di qualcuno, l’uomo rimasto solo avrebbe subito gettato la pila in mezzo alla cartaccia e poi sostenuto agevolmente la mia colpevolezza. Sarebbe stata la mia parola contro la sua. Quindi sarebbe valsa la sua. Le impronte digitali? Ma ho già detto che portava i guanti, il tipo: nessuna impronta. Si, lo confesso: mi sono venute alla mente anche alternative meno legalitarie: ho già riconosciuto che per me la strada che porta alla comprensione dei nuovi tempi e’ alquanto lunga. Confesserò i miei pensieri, lealmente, durante il quarto d’ora di autocritica interculturale che si tiene in ufficio ogni lunedì mattina. Racconterò però anche il contesto, in modo che mi venga riconosciuta qualche attenuante. Spero infine che la Commissione Intercultura non calchi la mano. Ciò detto, l’uomo era alto più di un metro e novanta, di taglia atletica, con l’aria assai determinata. Senza contare che scendere a vie di fatto con un pubblico ufficiale mi avrebbe procurato una marea di guai…
Sul trumoncino falso antico qui all’ingresso, giace ora il verbale unitamente al modulo per pagare la sanzione inflittami per “erronea destinazione del rifiuto domestico”, di euro 45. Pagherò domani nella sudicia tabaccheria di Yi (ma beninteso: possono essere sudice anche le tabaccherie gestite da italiani …).
Di tutta la vicenda – la scortesia del fratello nero, poi la sua arroganza, infine la sua profonda disonestà – che dire? No, non ce l’ho con lui. Capisco che il secolare sfruttamento del suo popolo da parte della civiltà cui appartengo lo abbia esacerbato nei confronti degli europei. Diciamo pure nei confronti dell’uomo bianco. Non ce l’ho con lui, davvero. Al suo posto, forse, avrei fatto di peggio. Forse.
Piuttosto mi rimane un dubbio: un tappo, che tipo di rifiuto e’? E in quale bidone si getta? Se qualcuno non mi aiuta a risolverlo, andrà a finire che non berrò più il mio Gutturnio, la sera. Me ne starò lì seduto sulla poltroncina, ascoltando il blak blak dei cingalesi di fronte. Addio al mio dolce nirvana, ai pensieri che s’inseguono come miti bagliori nella mente in penombra…
E dire che non sono neanche mussulmano!
2 commenti su “Racconti del XXI secolo – L’ispezione ecologica – un racconto di Alfonso Indelicato”
Gran bel racconto!
Se le cose continuano così, queste vicende saranno all’ordine del giorno!
Questi bei tipi che vengono a contare i peli a noi, nelle nostre case, chissà che fior di raccolta differenziata fanno al paese loro!!!! Capirei mi ispezionasse uno svedese, ma…
Tommaso Pellegrino – Torino
http://www.tommasopellegrino.blogspot.com