Raddrizziamoci con la nostra lingua – Rubrica mensile di Dario Pasero

Abbiamo il piacere di proporre ai nostri lettori una nuova rubrica: il prof. Dario Pasero ci condurrà ogni mese alla riscoperta della nostra lingua, al significato delle parole, alla comprensione delle origini e dell’importanza dell’italiano corretto. Un impegno quanto mai importante non solo per recuperare la bellezza della nostra lingua, ma anche per non essere ingannati dall’uso distorto del linguaggio. Diamo quindi il benvenuto a Dario Pasero e auguriamo buona e fruttuosa lettura agli amici che seguono Riscossa Cristiana.

Paolo Deotto

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Raddrizziamoci con la nostra lingua

(“Dalle Alpi agli Appennini ovvero Noterelle di uno dei tanti” su parole e cose)

di Dario Pasero  (*)

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Appena propostami dal Direttore questa rubrica, ho preso un’immediata decisione: assolutamente evitare “tamquam scopulum/come uno scoglio” (per imitare qualcuno più importante di me che si occupò anch’egli, tra una guerra e l’altra, di argomenti linguistico-grammaticali) un titolo del tipo ”Salviamo la nostra lingua” et similia. Innanzitutto perché “chi sono io per salvare?” (e dalli con le citazioni “importanti”) e poi perché un titolo del genere è troppo ovvio, troppo facile, troppo corrivo (e ciò che è facile spesso si trasforma in banale).

Non nego che un che di evangelico mi è risuonato all’orecchio: rectas facite semitas ejus (“raddrizzate i suoi sentieri”; Mc 1, 3): ed allora, perché non pensare che la nostra vita (e la nostra civiltà), fondata anche sulle parole e sulla capacità di confrontarsi con la realtà attraverso il pensiero che si fa discorso (quanto avevano visto giusto i greci nell’usare la stessa parola – lógos – per indicare entrambi i concetti: ragione e discorso), la nostra vita – dicevo – resa storta da un pensiero farraginoso eppur lineare nella sua subdola volontà di dominio (il pensiero unico) non possa raddrizzarsi (e noi con essa) grazie ad un ritorno alle “origini”? Le origini del nostro parlare italico, nella sua forma, almeno nelle intenzioni, più “letteraria” – il toscano che poco per volta si fa italiano comune, koiné – ma senza trascurare qualche (breve per carità) incursione nelle varianti territoriali, quelli che vulgo vengono chiamati “dialetti” (ma che io preferisco definire “lingue locali”), molti dei quali con il toscano non c’entran punto, ma che hanno sostanziato tanta nostra civiltà e le hanno dato forma e valore nel trascorrere dei secoli.

Conclusa questa prima questione (quella del titolo, insomma) passiamo ad altro, se no rischieremmo di scrivere un articolo per giustificare il titolo di un altro. E di articoli, anche se scritti (spero) bene, ne basta uno per volta, quando non è d’avanzo…

Spesso si liquidano i problemi connessi con la lingua alquanto sbrigativamente, dichiarando che la lingua va dove i parlanti la fanno andare, aldilà di leggi regole categorie, e che è del tutto inutile cercare di “intrappolare” in schemi rigidi i fenomeni (fonetici, morfologici, sintattici e lessicali) di una lingua, oltretutto complessa (non neghiamolo) come l’italiano. Anni fa ho sentito con queste mie orecchie un (abbastanza) giovane collega di filosofia sostenere che è impossibile insegnare scolasticamente l’italiano. E questo sia ai bambini, i quali – vivaddio – non stanno a preoccuparsi di questioni metalinguistiche e quindi imparano innanzitutto ciò che madri e padri (o non piuttosto ora la TV?) insegnano loro, sia agli stranieri, i quali si trovano esterrefatti davanti alle incongruenze (!?) di una lingua “complicata” come l’italiano (complessa, sì, dico io, ma complicata, proprio no). E per sostenere le sue efferatezze ideologiche il (quasi) giovane collega tuonava: «Come può uno straniero capire qualcosa di una lingua che ci fa scrivere “conoscenza” (senza i) ma poi “coscienza” (con la i)? Come fa, il poveretto, a orizzontarsi?». Fa – pensavo io – se, usando lo stesso esempio, il suo insegnante di italiano gli spiega che il primo termine proviene dal latino “cognoscere” (senza la i), mentre l’etimo del secondo è “co (< cum) – scientia” (con la i). Certo è che se l’insegnante (o il filosofo blaterante…) queste nozioni non le conosce di suo, non le potrà mai insegnare ad altri. E così si fa strada la convinzione della “complicazione” e della “assurdità” e, in una sola parola, della “difficoltà” di una lingua. Le difficoltà non sono nella lingua, ma sono le persone che se le creano non ragionando, spesso, sui fenomeni che regolano il linguaggio. Basterebbe un po’ di istruzione in più, e un po’ di improvvisazione in meno, per destreggiarsi con un minimo di sicurezza nel parlare e nello scrivere.

Ora, vediamo di fare qualche esempio della bellezza e della coerenza della nostra lingua e della sua necessità nel costruire e rendere salda la nostra cultura e la nostra civiltà. Tuttavia, siccome non mi piace farmi bello con le penne degli altri, sento l’obbligo di anticipare che alcuni degli esempi che citerò sono ricavati da opere del linguista Gian Luigi Beccaria (principalmente Italiano, Milano 1988, e Sicut erat, Milano 1999), ma comunque elaborati e commentati da me. Altri invece sono del tutto “farina del mio sacco”.

Un primo esempio che mi corre subito in mente è come, nella nostra civiltà (tanto quella alta quanto quella popolare), moltissime parole o espressioni di uso comune nascano dalla lingua della Chiesa (Sacra Scrittura o rituale antico della Messa o ancora opere dei Padri): volenti o nolenti anche i laicisti in servizio permanente effettivo devono ammettere l’importanza del Cattolicesimo (loro direbbero l’invasività: ecco un esempio di come l’uso di un vocabolo piuttosto che di un altro denota l’atteggiamento mentale del parlante e ci fa capire da che parte egli stia) nella realtà di tutti i giorni a tutti (o quasi) i livelli.

La Chiesa (dal latino tardo ecclesia, a sua volta dal greco ekklesìa, letteralmente “assemblea, convocazione”) ha favorito l’ingresso nella nostra lingua del termine “apocalissi” (meglio, secondo me, che non “apocalisse”, in quanto più vicino al suo etimo greco) col significato che tutti conosciamo di “fine del mondo” e, per metonimia, di “avvenimento eccezionalmente terribile”, mentre la parola greca di partenza (apokàlypsis) significa, molto più modestamente, “rivelazione, scoperta” (dal verbo apokalỳpto, lett. “tolgo dal nascondimento”, e quindi “rivelo”). Senza il cattolicesimo la parola non esisterebbe (non solo in italiano, ma nelle principali lingue europee) nel suo significato ormai acquisito.

La lingua popolare. Facciamo un bel “repulisti”? Sarebbe certamente il caso di farlo (e dove penso io…), ma attenzione: il significato comune (“pulizia radicale, eliminazione di ciò che non va”) nasce dall’interpretazione popolare (“pulisti” < “pulire, pulizia”) di un termine che la gente ascoltava nell’Introito della Messa (quare me repulisti) che in realtà significa “mi hai cacciato, mi hai mandato via” (dal verbo latino “repello”, appunto “cacciar via”). Spero abbiate “capito l’antifona” (tanto per rimanere in tema…) di tempi in cui chi non riusciva a farsi capire “parlava arabo” e le maestre sollecitavano gli scolari a imparare la lezione di scuola ed a ripeterla “come il Padre nostro”.

La sera del 6 gennaio i bambini (ma non solo loro…) aspettavano la Befana (dalle mie parti, Piemonte sud-occidentale, Parissia, dal latino medievale “apparitionem”, che è poi null’altro se non “epifaniam”): la vecchietta “dorofora” (“portatrice di doni” e non “dorifora”, cioè “portatrice di lancia”: conoscere le lingue classiche è comunque un notevole ausilio nella competenza lessicale, attiva e passiva, di ciascuno) altro non è se non la corruzione, nella pronuncia popolare, del termine ecclesiastico “epifàniam” (dal greco epifanìa, “apparizione, dimostrazione, comparsa, chiara e evidente”: ecco chiarito il piemontese “parissia/apparitionem”), attraverso “pifàn(i)a” (con aferesi della e– e scambio tra labiale tenue e labiale media p/b o, se preferite, tra la occlusiva bilabiale sorda e la occlusiva bilabiale sonora).

Anche quelle che stiamo usando in questo stesso momento per comunicare tra noi (le “parole”) hanno un’origine etimologica popolare-cristiana: il latino verbum (da cui, certo, “verbale, verboso, verbalmente…”) sparisce dall’italiano comune (se non per indicare la categoria grammaticale: il verbo “dire”, per es.) per lasciare il posto alla “parabula” (la “parabola” evangelica, l’espressione orale per eccellenza, quella di N. S. Gesù Cristo), che si trasforma in “parola” (parabula > paravula > paraula > parola: anche qui scambio della labiale, ma tra bilabiale sonora e fricativa labio-dentale, b/v, caduta della fricativa intervocalica e chiusura del dittongo au in o, come in paucum > poco; Claudia > Clodja > Chioggia).

Un ultimo caso, con cui torniamo però all’uso dotto della lingua. Noi siamo abituati a parlare di “ascesi”, dicendo, per esempio, che un santo ha condotto una vita “ascetica”; così, spesso inconsciamente, pensiamo al “crescere”, al “salire”, all’“innalzarsi”. Ebbene, commettiamo un errore etimologico: “ascesi” non è “ascensione” (dal lat. “ascendere”, cioè salire; pensiamo all’ascensore o, in ambito cristiano, alla Ascensione di Nostro Signore), infatti essa deriva dal greco àskesis (dal verbo askéo), che significa “esercizio, attività (fisica)”. Dunque l’ascesi è un continuo esercizio spirituale, o anche fisico, che porta chi lo pratica ad elevarsi (certo), ma non ad ascendere a Dio. Il significato, alla fine, è congruente, ma l’origine etimologica è differente.

Diverso poi è il significato che molte parole assumono nella civiltà cristiana rispetto a quella pagana. La prima di esse è proprio il termine “pagano”: letteralmente (e nella lingua non cristiana) “colui che vive in un villaggio di campagna” (pagus); poi, siccome in un certo momento storico la maggior parte dei non cristiani viveva proprio nelle campagne, dove il messaggio della buona novella (eu ànghelion, “buon annunzio”) ancora non era giunto, ecco che “paganus” passò, per traslato metonimico, a significare appunto “non cristiano”.

E così il captivus, letteralmente il “prigioniero”, attraverso un processo di specificazione e di successivo sottinteso, nella civiltà cristiana è – per antonomasia – il captivus diaboli, cioè il “prigioniero del diavolo” e quindi il “cattivo” nel senso appunto di malvagio.

Attenzione, comunque: non è che sia necessario, e tanto meno obbligatorio, conoscere il latino ed il greco per parlare bene o, talora, per cogliere l’inganno sotteso a vocaboli usati in forma surrettizia se non addirittura volutamente scorretta, ma certamente anche un minimo di cultura linguistica classica può aiutare. E quindi l’obiettivo di questi miei interventi vuole essere proprio cercare di aiutare a ragionare sulle parole, così da cadere il meno possibile (o, meglio, non cadere proprio) nella trappole dell’antico (e moderno) “avversaro”.

Per esempio: io non sono “omofobo”, perché io certamente non “temo” (fóbos, paura; fobéo, temo) chi è omoerotico. Altro sarà il mio atteggiamento, ma non certo la “paura” (fóbos). Dobbiamo allora cercare e trovare un altro termine che indichi, meglio che non la “paura”, il nostro pórci (mi raccomando, con la ó chiusa) nei confronti degli omoerotici.

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(*) Membro del Comitato Scientifico (Sezione filologico-letteraria) dell’Associazione Culturale “John Henry Newman”

22 commenti su “Raddrizziamoci con la nostra lingua – Rubrica mensile di Dario Pasero”

  1. Trovo interessanti queste (per me) “scoperte” della nostra lingua, spesso bistrattata. Benvenuto al Prof. Pasero ed alla sua sottile ironia …da cogliere!

  2. L’inizio di questa nuova rubrica è davvero ottimo! Nonostante l’argomento non si presti particolarmente, la lettura risulta scorrevole e piacevolissima. Prevedo pochi commenti, per timore di essere colti in flagrante errore (dire “flagrante errore” è corretto?). Io sono temeraria di natura e quindi ho corso volentieri questo rischio per ringraziare di questa bella opportunità il direttore e l’autore.

  3. Luciano Pranzetti

    E visto che siamo all’ortodossìa dei termini, sarà bene far presente a coloro che gestiscono l’informazioe tv/giornali quanto sia inopportuno e ridicolo l’uso del verbo “evacuare” per indicare l’urgenza di trasferire persone e cose da un luogo disastrato a uno più sicuro. Ecco un titolo: “Evacuate 190.000 persone dal territorio della diga californiana”. Orbene, il verbo “evacuare” – di conio latino tardomedievale – e/vacuo = far vuoto da, svuotare – è di categorìa transitiva e, perciò, richiede il complemento oggetto, come “svuotare un armadio, un rione ecc.. Quando viene usato in forma passiva si ha che il soggetto subisce l’azione. Ora è arcinoto che siffatto verbo è d’uso specifico nella pratica clinica dello svuotamento intestinale, il cosiddetto “enteroclisi/enteroclisma = clistere, sicché vi immaginate lo spettacolo, non proprio gradevole, di 190.000 persone che “sono state evacuate”? Nella fattispecie è d’uopo usare termini come: delocare, trasferire, sfollare

    1. Anch’io resto sempre inorridito, e non riesco ad abituarmici, collegandoli istintivamente a quella poco elegante funzione corporale, ogni volta che sento o leggo tali termini, sia quando sono riferiti alle persone che alle località. Perfino in determinate frasi di emergenza che appaiono in certi “display” che si attivano in alcuni locali industriali soggetti ad eventuali pericoli d’incendio o altro evento nocivo, appare la frase: “EVACUARE IL LOCALE”. Quando si parlava un Italiano un po’ più corretto invece la frase era: “ABBANDONARE IL LOCALE”. Così come le persone soggette a dei pericoli non erano “evacuate”, bensì “sfollate”, “trasferite”, o altro modo più appropriato.

      1. E che ne dite di: – individuare i “bisogni” dei cittadini – frase molto usata dagli amministratori. Ma non abbiamo un termine meno ripugnante?

    2. …oppure perle del tipo: “Se dopo pranzo ti senti gonfio, beh! è sinonimo che hai mangiato troppo.” Il bello è che non c’è mica tanto da ridere: strafalcioni simili li ho sentiti alla radio ed alla tv, prodotti da gente che ha fatto del parlare in pubblico la propria ragione di vita. Che sia sintomo di grossezza? O sinonimo di sciatteria e maleducazione?

      1. E’ appena il caso di sottolineare che, correttamente, il “sentirmi gonfio” più che essere sintomo è indicativo della mia intemperanza a tavola. Sintomi, semmai, saranno quelli frattanto sopravvenuti, come la cefalea di origine alimentare e lo stimolo emetico, predittivi entrambi del mio imminente atto di umiltà di fronte alla più prosaica ceramica che arreda casa mia.

  4. Carla D'Agostino Ungaretti

    Bravo, Prof. Pasero! E bravo il Direttore che ha avuto la splendida idea di suggerirle questa rubrica! Io sarò la più affezionata fruitrice del suo insegnamento, perché amo molto la nostra lingua e mi piange il cuore al vederla quotidianamente imbarbarita dall’uso degli anglismi, o meglio americanismi, che imperversano, come “il Renzi pensiero” sul quale incappiamo quotidianamente in questi giorni di crisi politica. Grazie!

  5. Grazie prof. Pasero e Paolo Deotto, questa rubrica è ciò di cui molti hanno bisogno. Me compresa, dato che mi accingo ad insegnare la lingua italiana ai bambini di una scuola parentale con l’audace pretesa di strapparli all’appiattimento e all’imbarbarimento della cultura!!

  6. Questa è una rubrica che veramente ci mancava. Complimenti al Professor Pasero e al Direttore Deotto che l’ha introdotta.
    Ritengo che la rubrica si addica alla missione di “Riscossa Cristiana” perché quello che contraddistingue un popolo e lo rende Nazione, secondo me, sono la Religione, la Lingua e la Tradizione (in senso più ristretto possiamo dire che le prime due sono componenti della terza, insieme ad altri aspetti come gli Usi e i Costumi).
    Interessantissima questa prima lezione che induce, attraverso l’etimologia delle parole e della loro evoluzione semantica a capire bene il loro significato e quindi ad utilizzarle appropriatamente. Penso, senza che questo voglia apparire un suggerimento di cui non ha certamente bisogno, che nei prossimi interventi il Prof. Pasero affronterà il doloroso capitolo del dilagare di vocaboli stranieri nella nostra lingua perfino in documenti ufficiali e addirittura legislativi; vocaboli stranieri spesso usati male e quasi sempre sostituibili con parole italiane, sia pure dei neologismi, con suono più armonioso e significato immediato.

    1. Per non parlare, gentile Lucio, della neolingua di boldriniana origine prontamente recepita e fatta propria da giornalisti, conduttori di programmi e da chiunque altro voglia mostrare che sì, bisogna rinnovarsi, perché la lingua è viva e non morta e vadano pure a farsi friggere i libri di grammatica con tutte le loro regole e le loro imposizioni. D’altronde, non arriverà a imporre anche questo il gender diktat?

  7. Ringrazio tutti dei complimenti: spero di esserne sempre degno. Ringrazio altresì per gli spunti ed i suggerimenti. Rassicuro tutti: non ho la matita rosso-blu, anche perché sono io il primo a dover sempre imparare, prima di insegnare.Tratterò certamente degli anglismi e di altre “corruttele”, più o meno gravi, della lingua.

  8. Mi unisco al coro di coloro che plaudono all’iniziativa del Direttore Detto: iniziativa bellissima. Ho fatto il liceo classico e per me è una vera sofferenza vedere come si storpia l’italiano, non solo nel significato delle parole, nell’assurdo vezzo di usare termini inglesi, tenuto conto (per chi sa l’italiano!) che oltretutto, l’uso dell’italiano si ha una comprensione immediata di quello che si dice.
    Un altro esempio: scrivere senza lasciare lo spazio dopo il punto e la virgola.
    Un’altra assurdità (soprattutto in ambiente ecclesiastico): dire preghiamo il rosario. Sarebbe come dire: andiamo la macchina. Un linguaggio da ignoranti.

    1. Pregare è un verbo transitivo attivo e passivo: posso dire “io prego il rosario” oppure “il rosario è pregato da me”.
      Andare è un verbo intransitivo e può essere solo attivo: non posso dire né “io vado la macchina” né “la macchina è andata da me”.
      Allora, a mio parere,è improprio reclamare un plusvalore argomentativo, sostenendo che se Tizio dice “pregare il rosario” è ignorante al pari di Caio che dice “andiamo la macchina”.
      A Caio mi sentirei di raccomandare caldamente un ripasso dei fondamentali; non così riguardo a Tizio.
      Con ogni cortesia sollecito cortesemente un parere del prof. Pasero che saluto e ringrazio all’esordio in RC.
      Aggiungo che il rosario è un oggetto, (facciamo il possibile che sia benedetto) ed un oggetto non si prega, né si dice, né si recita: tramite il rosario si prega la Madonna.
      Non nascondo una certa simpatia per Tizio: ora spento il pc ed andando alla macchina mi chiedo il perché.

  9. E che dire poi del termine “roboante” che non esiste , invece di “reboante”? Eppure quasi tutti i giornalisti lo usano senza ritegno!

  10. Non posso che ringraziare il Direttore per aver “allargato” l’organico della redazione con il Prof Pasero, il cui contributo, sono sicuro, allieterà e arricchirà le conoscenze di tutti noi.

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