Raddrizziamoci con la nostra lingua / XIII – Rubrica mensile di Dario Pasero

Non lasciamoci tagliare la lingua

(“Dalle Alpi agli Appennini ovvero Noterelle di uno dei tanti” su parole e cose)

di Dario Pasero

 

 

Abbiamo chiuso l’ultimo intervento con un accenno al lessico specialistico, inglesizzante, dell’informatica.

Proprio a proposito di questo lessico è opportuna, a questo punto, una riflessione. In esso infatti troviamo parole che non è facile (o forse è addirittura impossibile) sostituire con dei corrispondenti italiani. Non mi pare il caso di chiamare “topo” il mouse e trovare un termine italiano che faccia al caso mi sembra poco probabile, oltre che poco (linguisticamente) economico. Allo stesso modo il computer è il computer: è vero, i francesi lo sostituiscono (forse a ragione) con ordinateur, ma in italiano “ordinatore” avrebbe poco senso e il tentato (qualche anno fa) “calcolatore elettronico” ormai non si adatta più a esplicitare tutte le funzioni di un computer. Siamo nel caso in cui si deve usare il buon senso: ci sono parole (straniere) che sono ormai entrate nel nostro linguaggio, diventando insostituibili; le dobbiamo accettare ed usarle. Ce ne sono altre, invece, e sono la maggioranza, che possono tranquillamente essere sostituite da corrispondenti italiani, anche perché spesso – diciamolo pure forte e chiaro – le parole straniere sono usate da troppe persone, ed in genere dalle più fatue, ignoranti ed arroganti (so di aver tratteggiato un quadro sinteticissimo delle figure di molti nostri politici…), solamente per stupire l’eventuale ascoltatore e per infiorare il proprio lessico, che si crede, così, di innalzare e di rendere più “chic”, anzi  come si dice ora – più “trendy”. Insomma: è necessaria una sana ed oraziana aurea mediocritas, lontana sia dall’“iper-cruscantesimo” di quanti vorrebbero usare solo termini italiani, magari arcaici e desueti, col rischio di non farsi capire da chi li legge o ascolta, ma anche dalla posizione di quei linguisti alla “Beccaria” (il monregalese Gian Luigi, s’intenda; non il milanese Cesare), i quali sostengono di non voler correggere nessuno, di “non avere né usare la matita rossa e blu”, ma di limitarsi a prendere atto dei cambiamenti della lingua, senza intervenire, pur con la consapevolezza che alcuni modi di parlare e di scrivere sono sbagliati. La nostra posizione è che non solo gli errori esistono, ma anche che vadano segnalati sempre e, se possibile, corretti. Allo stesso modo il linguaggio (scritto e parlato), oltre che corretto, deve cercare sempre, per quanto possibile, di essere di alto livello, sia lessicale che sintattico, anche se esso deve sapersi adeguare al nostro ascoltatore o al lettore.

Altro linguaggio settoriale che è campo fecondo per i forestierismi è quello dello sport. In esso troviamo casi in cui la parola straniera, in genere inglese, in quanto l’Inghilterra, un tempo, e gli USA, più tardi, sono le nazioni che hanno esportato un gran numero di discipline sportive, prevale sul suo adattamento italiano; altri casi invece in cui capita il contrario, altri ancora in cui, per usare una metafora sportiva, i due termini “pareggiano”, venendo usate in misura pressoché identica. Abbiamo così calcio che prevale (soprattutto tra i giovani, per i quali, ormai, il football è quello “americano”, gioco-metafora – come sostengono alcuni sociologi – della civiltà americana nella sua ansia di conquista di territori) su football, pallavolo su volley, ma rugby è di gran lunga più usato che non palla ovale, mentre basket e pallacanestro sono, direi, in parità. Senza avversario, invece, base-ball (chi mai ha usato “palla base”?) e cricket, di cui non si è nemmeno tentato uno straccio di traduzione o adattamento. Se scendiamo poi nello specifico del calcio vediamo le coppie corner/calcio d’angolo, penalty/rigore, off-side/fuorigioco, trainer o mister (bell’esempio di metonimia)/allenatore, mentre ormai più nessuno usa forward (per attaccante) o back (per difensore). Dominio di francesismi è invece il ciclismo, anche se ormai pochissimi usano grimpeur per scalatore, mentre di uso comune è finisseur, che non si può rendere in italiano se non con una lunga perifrasi: “corridore specialista nel vincere la corsa con un attacco solitario a pochissimi chilometri dall’arrivo”. Ecco un caso in cui la parola straniera è, direi, assolutamente necessaria in quanto la sua esatta traduzione italiana è molto complessa se non addirittura impossibile. Di uso quasi letterario (pensiamo ad Hemingway, appassionato di ciclismo, oltre che di boxe e di corride) è suiveur per designare il tifoso di ciclismo che, come dice il nome stesso, “segue” materialmente, spostandosi, le varie corse ciclistiche in giro per l’Europa.

Più subdoli, invece, sono gli anglismi, per dir così, sintattici, ancora poco diffusi nell’italiano, ma che – specialmente nelle generazioni più giovani – sono ormai presenti e spesso difficili da eliminare. Essi testimoniano, inoltre, proprio perché sintattici e non meramente lessicali, una subordinazione ad un modo di pensare e di organizzare il discorso che fa riferimento non più alle radici della nostra lingua e della nostra tradizione, ma al modo di intendere la realtà proprio di una cultura “altra”.

Due esempi. L’abolizione sempre più evidente di nessi quali gli articoli e le preposizioni (monte-ore, tempo-scuola, gruppo-classe, buono-pasto) e la collocazione, discretamente diffusa, dell’aggettivo sempre e comunque davanti al suo sostantivo, anche quando l’uso italiano non dovrebbe richiederlo (“il capace studente” al posto di “lo studente capace” non è propriamente un errore, ma lo sentiamo poco scorrevole in italiano).

Abbiamo poi forestierismi, e non solo anglismi, in campi diversi dai linguaggi settoriali e specialistici. Dallo spagnolo (movida, ma chi è che ha pensato di utilizzare un simile obbrobrio lessicale?), dallo spagnolo d’Argentina (tanghéro, ovviamente con accentazione piana e non sdrucciola, “ballerino di tango”), dal tedesco (blitz, letteralmente “lampo”) e, ovviamente, dall’inglese, che ci lascia anche parole che modificano il valore “storico” dell’equivalente italiano. Abbiamo già parlato del caso di “realizzare”, nel senso dell’inglese to realize, che si accompagna (per ora: in attesa di sostituirlo) all’italiano “rendersi conto, capire”, ma che si aggiunge anche al tradizionale italiano “realizzare” nel senso di “mettere in pratica, costruire, portare a termine”. Similmente possiamo ricordare il verbo italiano (o pseudo-tale) “approcciare,-rsi”, che – a ben guardare – non deriva dal sostantivo italiano “approccio”, ma dall’inglese to approach (avvicinarsi): si tratterebbe, a ben pensarci, di una sorta di latinismo di ritorno, in quanto sia l’italiano approccio (che oltretutto è in realtà un francesismo, entrato in Italia nel secolo XV) che l’inglese approach derivano (il termine inglese ovviamente non in modo diretto, ma attraverso il francese) dal latino ad-propiare (< avv. prope, “vicino”). Un ultimo esempio può essere il verbo “supportare”, nel significato di “sostenere, dare il proprio appoggio a”, che, pur ricordando il termine italiano “supporto” (cioè “appoggio”), è esemplato sul.verbo inglese to support, “sostenere, essere tifoso”, e il supporter è infetti anche il tifoso di una squadra sportiva o di un personaggio politico.

 

Abbiamo poi casi di quella che i linguisti chiamano “risemantizzazione”, cioè parole straniere che assumono in Italia un significato diverso da quello originale. È il caso di ticket che, in inglese semplicemente “biglietto”, in italiano invece vale “pagamento di prestazione sanitaria” o “buono per il pasto”, oppure del tedesco blitz, nell’originale “lampo”, in italiano azione breve, decisa ed incisiva in genere delle forze dell’ordine. Abbiamo citato poche righe or sono il termine anglo-sportivo mister nel significato di “allenatore di squadra di calcio”, definendolo un bell’esempio di metonimia. Eccone la spiegazione. Agli albori della storia del calcio in Italia (a cavallo dei due secoli XIX e XX) molti giocatori e pressoché tutti gli allenatori erano inglesi. I giocatori italiani, sentendo i loro compagni inglesi chiamare mister (“signore”) l’allenatore e ignorando la lingua della “perfida Albione”, credettero che la parola mister significasse appunto “allenatore”, e si comportarono così – linguisticamente – di conseguenza.

Possiamo ora fare un altro excursus o divagazione (un modernista filobritannico appassionato di serie TV e di cinema direbbe uno spin off…) a proposito di coloro che, poco conoscendo sia l’italiano che le altre lingue, si piccano di esserne invece esperti utilizzando (e pronunciando) come fossero forestierismi forme che sono invece assolutamente italiane, o, tutt’al più, latine. È il caso della formula “errata còrrige” (opportuno, anche se non obbligatorio, l’accento per indicarne l’esatta pronuncia, spesso disattesa…), latina quant’altra mai (quam quae maxime…), che si usa, in particolare nel mondo dei giornali, per indicare una “correzione” doverosa in quanto l’errore (errata) da correggere (còrrige: imperativo del verbo corrigere, e quindi “correggi”) risultava fuorviante per la corretta informazione. Quante persone ho sentito pronunciare “errata corrìζ” (alla francese), così come ho sentito pronunciare, sempre alla francese, “bailamm” (senza cioè la –e finale) l’italianissimo “bailamme” (adattamento italico del turco baylam, “festa”), col significato di “grande disordine, enorme confusione”.

Altra testimonianza di protervia ed ignoranza di molti neo-parlanti è la pronuncia errata di termini che si credono di una lingua, mentre appartengono ad un’altra. Un esempio eloquente è la parola stage: di origine francese, potrebbe tranquillamente essere sostituita dall’italiano “tirocinio” (sua traduzione letterale). No. Si usa stage, e per di più pronunciandolo come se fosse di origine inglese: steidζ, dunque, in luogo di sta:ζ. Peccato, oltretutto, che la parola inglese stage significa “palcoscenico” e quindi c’entra col “tirocinio” come i famosi cavoli con l’altrettanto famosa merenda…

A questo punto, e ci avviamo mestamente (almeno per me) alla conclusione della trattazione di questo argomento, la domanda sorge spontanea e legittima: ma l’italiano, prima toccato ora semi-sommerso (domani chissà) da parole forestiere, ora assimilate (più o meno bene) ora nemmeno adattate, ma prese e infilate nei nostri discorsi senza alcun ritegno, visto che almeno i tre quarti di esse sono assolutamente inutili in quanto sostituibili perfettamente dai loro corrispondenti italiani, l’italiano, dicevo, ha a sua volta influenzato altre lingue regalando loro vocaboli e forme linguistiche?

La risposta ovviamente è sì, e, per favore, lasciamo perdere quell’obbrobrio lessicale che è l’anglismo sintattico “assolutamente sì”, esattamente come l’altro sintattismo inglesizzante che è il “buona giornata” (< have a good/nice day), al posto del più casereccio “buon giorno”…

La risposta è sì – dicevo – e pure alquanto articolata. Si va infatti dagli italianismi “colti” entrati nelle principali lingue europee a partire dal Rinascimento fino almeno a tutto il Settecento nel campo dell’arte (fresco, forma arcaica per affresco), della letteratura (novella, che dà l’inglese novel, pur col significato di “romanzo”) e della musica (largo, mosso, andante, opera…). A questo proposito consiglio la lettura di G. F. Folena, L’italiano in Europa (Torino 1983).

Si arriva poi agli italianismi che potremmo definire di “immigrazione”, portati cioè, specialmente (ma non solo) nell’inglese, dagli immigrati italiani dei secoli XIX e XX, con qualche sgocciolio anche nel XXI. Sono principalmente termini legati alla cucina: pizza, ormai forma internazionale, pasta, ravioli, salame (l’inglese usa la forma “salami” non in quanto plurale, ma anglesizzando la pronuncia di “salame”), spaghetti, tagliatelle, fettuccine o altra tipologia di pasta (anche se esiste la forma inglese noodles, in uso soprattutto però nei menù di ristoranti cinesi), oppure – ahinoi – alle associazioni legate ad uno degli aspetti più discutibili della tradizione italica, cioè la malavita organizzata: mafia, padrino, picciotto, ma i capi preferiscono, guarda un po’, farsi chiamare utilizzando la forma inglese: boss.

Parlare degli italiani all’estero, e soprattutto nei paesi anglofoni, mi porta a ricordare come le prime generazioni di immigrati italiani, nel tentativo di esprimersi in inglese, storpiassero, italianizzandole, le parole per loro straniere (un esempio letterario classico è la poesia Italy di Giovanni Pascoli), dando vita a quella forma ibrida di comunicazione che gli esperti chiamano (su suggerimento proprio dell’amico Gianrenzo Clivio) “italiese”, simile per certi aspetti allo spanglish degli attuali immigrati latinos negli Stati Uniti o al pétit créole delle isole caraibiche francesi. Qualche esempio: stimma (steamer, piroscafo), tichetta (ticket, biglietto), checca (cake, dolce), stritto (street, via), ciso (cheese, formaggio), billo (bill, conto di ristorante), smarto (smart, intelligente), api (happy, contento), beccappare (to back up, far marcia indietro con l’auto), leoffare (to lay off, licenziare), tronco (trunk, camion), ariappa (hurry up, sbrigati).

 

Chiudiamo, ancora una volta, con una prelibatezza che vuole unire l’argomento trattato (i forestierismi) con la tradizione di questa rubrica di proporre talora un quesito per stuzzicare la curiosità, ma soprattutto il desiderio di cercare ed imparare, dei lettori.

Chi conosce il significato della parola “colportore”? Due indizi: è un francesismo e si è diffuso in Italia (almeno in quella settentrionale) qualche decennio dopo, e in conseguenza, della riforma protestante.

Qualche attimo di sospensione (spero apprezziate il non aver usato suspence…) ed ecco la risposta.

Dal francese colporteur, significa venditore ambulante di libri, specialmente di quelli “proibiti”. Era una figura discretamente diffusa nel Piemonte dei secoli XVII/XVIII (non so in altre regioni), che si presentava sotto due aspetti: di puro e semplice venditore ambulante di libri “normali” oppure, in ambito riformato-valdese, di venditore di altre merci, in genere di stoffe, che al momento propizio estraeva dal suo sacco Bibbie tradotte e i libri dei riformatori per proporli in vendita a scopo di diffusione delle idee ereticali.

 

2 commenti su “Raddrizziamoci con la nostra lingua / XIII – Rubrica mensile di Dario Pasero”

  1. Buonasera.
    Splendido articolo come sempre!
    Volevo solo far notare che la parola inglese per calcio è ‘soccer’ e non football.

    1. In realtà la parola “soccer” è dell’anglo-americano per “calcio”. In Inghilterra è football, tanto che la Federazione inglese del calcio è la FA (Football Association). Tanto per la precisione. Grazie comunque del commento

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